domenica 16 maggio 2021

Quel senso umano della solidarietà e del “condividere”, di Pasquale di Fenzo

Mia madre nell’immediato dopoguerra era una giovane sposa in attesa della prima figlia e abitava in un appartamentino a Piscinola.
Sotto al suo balconcino abitava donna Carmela e la sua poverissima famiglia formata dal marito disoccupato e da una dozzina fra figli e nipoti. Mio padre era fortunato, perché era un bravo elettricista e lavorava con gli americani nell’aeroporto. Di tanto in tanto portava come aiutante il marito di donna Carmela o uno dei suoi figli più grandi. Era un determinante contributo alla sopravvivenza, in casa di donna Carmela si mangiava una sola volta al giorno. Però mia madre diceva che la sua vicina il primo piatto lo metteva da parte per destinarlo a lei: “Tanto tu stai sola, è inutile che appicci i fornelli e poi, dove mangiano in quattordici possono mangiare in quindici”. Mia madre lasciava che uno dei bambini più piccoli rimanesse a dormire da lei, altrimenti non tutti avrebbero potuto trovare posto la notte.
Donna Carmela non l'ha mai saputo, ma quel "primo piatto" che donava con tanti sacrifici, mia madre non l'ha mai mangiato, lo conservava per uno dei figli di donna Carmela, quando andavano a dormire da lei la sera... Mia madre e donna Carmela non avrebbero potuto immaginare che "condividere" avrebbe assunto il significato che oggi gli diamo!
Scrivendo mi è venuta in mente un'altra cosa che mi raccontava mia madre. Durante la guerra, quando c’era la fame più nera…, nel palazzo detto de' Manduline, in vico Primo del Plebiscito, c’era Filuccella d’’e Manduline, una contadina molto benvoluta dal vicinato, perché a turno regalava ai vicini le scorze dei piselli e delle patate che loro poi cuocevano e mangiavano. Suo marito, chiamato Meniello d’’e Manduline, "faceva i vermi", cioè pronunciava delle parole misteriose, mentre toccava la pancia dei bambini; una pratica che, secondo le credenze dell’epoca, serviva a liberarli dai vermi intestinali.
Suo concorrente era “Ummonone”, così chiamato per la sua mole imponente. Lo vedevi per Piscinola con una strana carriola di legno che si era costruito con le sue mani e raccoglieva gli escrementi che asini e cavalli lasciavano per strada. Possiamo dire che, questa pratica del tempo, è stata un’antesignana della cosiddetta “Raccolta differenziata”, che cerchiamo di praticare oggi. Il letame era successivamente venduto e utilizzato come concime nelle campagne dell’epoca.
A quell'epoca, la pratica "dei vermi" era molto diffusa, così pure c’era una vecchietta che abitava nel palazzo di fronte alla cantina Di Guida, che curava le contusioni con il bianco dell’uovo e delle ragnatele. Era conosciuta come “La Pizzallini” ed io stesso una volta fui portato da lei dopo una caduta.
Mi curò con bianco d’uovo e ragnatele, però con scarsi risultati, perché mi ero rotto la clavicola e stetti un mese ingessato. Per fortuna mio padre, quando tornò dal lavoro, mi portò all’ospedale dei Pellegrini. Ai Pellegrini mi ingessò un infermiere piscinolese, che si chiama Vittorio Andreozzi, amico di mio padre, che poi mi veniva a controllare l’ingessatura, quasi tutti i giorni.
Ma da noi c’era la cultura contadina della solidarietà e gli episodi di cronaca erano veramente pochi. Uno che ricordo riguardò Mimì soprannominato “‘o carcerato”, che poi era il primogenito di Teresa ‘a cacaglia. Secondo le cronache dell’epoca, Mimì uccise il suo compare di battesimo per una controversia su un terreno coltivato. Mimì era colono di quel terreno, che coltivava da anni assieme ai fratelli e alla madre vedova. L’omicidio fu compiuto perché alla morte del capofamiglia, il padrone intendeva portare via il podere che Mimì e famiglia gestivano come coloni, e quel terreno era la loro unica fonte di sostentamento.
Chi era determinato a comprarlo, forse non sufficientemente consapevole di compiere un danno alla famiglia di Mimì, fu proprio il compare di battesimo di quest’ultimo.
Dopo l’omicidio, il calesse, trainato dal cavallo, con sopra il corpo dell’ucciso, tornò alla stalla dell’abitazione d’origine, autonomamente, cioè senza guida, attraversando mezza Piscinola, proprio come era stato descritto nella poesia del Pascoli, ”la Cavallina Storna”. I giornali dell’epoca, tra i quali il celebre settimanale illustrato “La Domenica del Corriere” (Ed. n. 19, anno 58, del 6 maggio 1956), scrissero nei loro titoli: “L’episodio della Cavallina Storna si rinnova dopo settant’anni”.
Mimì era poco più grande di me, scontò circa trenta anni di carcere. Ricordo quando, durante il processo, accompagnato dalle guardie, lo portarono a Piscinola per il sopralluogo; lo condussero nel palazzo del Municipio. Io e molti ragazzi ci arrampicammo sulla cancellata che allora era attorno alla chiesa del Salvatore, cercando una posizione alta, per meglio osservare la scena. Addirittura fu applaudito da gran parte della gente che si era accalcata davanti al Municipio, tuttavia tra la folla fu ascoltata anche qualche voce isolata di dissenso.
Forse oggi potrebbe risultare difficile comprenderlo, anche in ragione della nostra etica, ma bisognerebbe immedesimarsi in quel contesto storico, di piccolo borgo rurale, dove regnavano in prevalenza i principi arcaici della società contadina, fatta di sensi di rispetto e del concetto dell'onore; pertanto, il fatto significativo di quell’episodio, fu quello che gran parte del "paese" si schierò dalla parte del più debole, cioè con la famiglia povera, a cui il più ricco voleva portare via il “pane”. I fratelli di Mimì erano tutti bambini e sua madre era una povera contadina, senza istruzione e pure un poco intontita dalla precoce vecchiaia e dalla tragedia della prematura morte del marito. Talmente che erano rari i casi di cronaca nera a Piscinola, che gli fu dato il soprannome di "'O carcerato". Uno dei fratelli più piccoli, Totonno è stato mio amico di infanzia.
Ricordo anche Maria 'a Ceccia, che era una specie di mediatrice, che interveniva quando si doveva ricomporre la pace tra due famiglie contrarie al matrimonio dei loro ragazzi.
La sua numerosa famiglia abitava nel basso all’inizio di via del Plebiscito, che si intravede nella foto della processione del SS. Salvatore, dove poi si mise il negozio "Emporio", proprio di fronte alla scuola. Era una persona molto sentita e apprezzata. Molti la ricorderanno, così come si ricorderanno di suo marito, don Giovanni, apprezzato imprenditore edile ed alcuni suoi figli, molto conosciuti a Piscinola come Tonino 'o Mmericano e Cicciariello, quest’ultimo grande appassionato di automobili antiche; fino a pochi anni fa, prima di morire, girava per le strade con una bellissima "Topolino" fiammante e completamente ristrutturata. La stessa funzione "riparatrice di matrimoni", la svolgeva Donna Emilia, che aveva il bar di fronte alla sala cinematografica all’aperto in via Vittorio Veneto, che all’epoca si chiamava “Arena Azzurra. Sala che diventò negli anni seguenti il Cinema “Selis”. Donna Emilia, anche lei era molto conosciuta a Piscinola, si dice di lei che in gioventù fosse stata una ragazza bellissima e avesse calcato con successo le tavole del teatro di varietà ma, purtroppo, non ci è dato di sapere altro.
‘O Barone era un altro personaggio caratteristico di Piscinola di un tempo, che abitava però al “Capo e Coppa”, di lui si diceva che avesse una forza da Ercole…! Io lo ricordo già molto vecchio, quindi non saprei dire se la cosa fosse vera. Aveva le labbra molto pronunciate, tanto che tra noi ragazzi ci si minacciava esclamando la frase: “te faccio ‘o musso comm’’o Barone!”
Altro personaggio mitico del "Popolo", è stato don Vicienzo, soprannominato proprio "'O Popolo". Era un modesto ciabattino, che si barcamenava per sopravvivere con un piccolo "bancariello" ambulante, proprio come si vede nel film di Totò: "San Giovanni Decollato". Alla guisa del celebre personaggio comico, don Vicienzo si posizionava sovente a lavorare, seduto al suo "bancariello", nel cortile di vico Primo Plebiscito, e là trascorreva intere giornate a riparare scarpe e a inchiodare tomaie e tacchi. La caratteristica che lo contraddistingueva, però, era quella che era dotato di uno spirito e di una dialettica al di fuori del comune, conoscendo a memoria tanti aneddoti e cunti, che ritualmente esibiva a voce alta. Addirittura, pur non avendo studiato, si gloriava di conoscere a memoria l'intera Divina Commedia e spesso recitava alcune strofe di Canti, accompagnate dalla mimica e da martellate ritmate... Il suo negozietto era sempre affollato di bambini e di ragazzi che, durante le sue loquaci ed esileranti esibizioni, si fermavano ad ascoltarlo per ore intere, senza mai stancarsi e ridendo spesso... Ebbe nove figlie femmime, e un solo maschio, Costantino. Le ultime figlie (l'ottava e la nona figlia), le chiamò Ottavia e Nona... Il figlioletto Costantino, purtroppo, morì prematuramente in un terribile incidente, causato dallo scoppio di un ordigno bellico.

La Piscinola che ricordo, era una grande famiglia allargata...!

Pasquale di Fenzo

Ringraziamo il caro amico Pasquale di Fenzo che ci fa sempre deliziare con i suoi racconti; pero' dobbiamo dire che, questa volta, questo racconto sulla solidarieta è stato eccezionalmente bello e commovente. Grazie Pasquale!
E' opportuno evidenziare, a margine del racconto di Di Fenzo, soprattutto per ragioni di cronaca, che il racconto di "Donna Carmela", riportato nella prima parte del post, è stato pubblicato anche sulla rubrica “Lettera del giorno”, del quotidiano "Il Mattino di Napoli", l'11 giugno 2016.

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2 commenti:

  1. Commovente quanto raccontato da Pasquale, fluido e concreto nell'illustrazione dei fatti, mi è sembrato di viverli.

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