sabato 6 febbraio 2016

Sanguinacci, scagliozzi, chiacchiere e migliacci... il Carnevale è servito!



Tra le ricorrenze dell’anno, il Carnevale è stato sempre festeggiato dagli abitanti di questo territorio con una particolare predilezione. La festa tradizionale è la risultante di un retaggio e di una stratificazione storica abbastanza significativa
Dobbiamo prima di tutto sottolineare che a Napoli, contrariamente a quanto avviene nelle altre città d'Italia, il Carnevale è stato sempre festeggiato piuttosto in sordina nel centro cittadino (più legato storicamente alla festa settembrina della Piedigrotta), mentre è più radicato e sentito nei suoi borghi periferici. Qui, in una comunità che era prevalentemente contadina, la festa cadeva in un periodo di stasi della produzione agricola, dove la farina di miglio o di granoturco erano gli elementi poveri che riuscivano in cucina a colmare la carenza dei prodotti freschi e poi la macellazione del maiale, un tempo assai fiorente, costituiva il fulcro di tutto l'inverno e quindi anche del Carnevale. La festa del Carnevale, in netto contrasto al periodo di Quaresima (periodo che lo seguiva, con austerità di cibo), offriva al ceto popolare e contadino questo momento di divertimento, di svago e soprattutto di leccornie per ogni tipo di palato...
Il Carnevale è stato festeggiato da queste parti in ogni periodo storico. Dei festeggiamenti che si usavano fare nei secoli scorsi abbiamo trovato un cenno storico riportato nel poemetto in vernacolo scritto nel 1787 da Nunziante Pagano, dal titolo: “Mortella D’Orzolone, Poemma Arrojeco”. Nel canto II, troviamo la seguente strofa, nella quale sono citati Piscinola, Chiaiano, Polvica, Marianella e Mugnano:

 […] A Ppasca, e ffuorze fuorze a Carnevale,
Chella respose, e nce vo fa no nvito
De quanta nce nne stanno a sto Casale,
Pe fa fa annore a mmene, ed a lo Zito:
E ppe nce fa na festa prencepale,
Nce vo chiammà li suone de Melito,
De Pescinola, Pollica, e Cchiajano,
e dde Marianella e dde Mugnano.
Mmperzò, Petrillo mio, conto le juorne
Pe nzi che non se fa sta parentezza;
Uh se navimmo d’allommare forne!
Uh se nce perzo moro d’alleggrezza! […]
Nei tempi moderni la ricorrenza del Carnevale aveva il suo apice il “Martedì grasso”, quando, la sera, molti ragazzi usavano travestirsi e truccarsi “da donna” e alcune volte, anche le ragazze “da uomini”. Dopo la preparazione, alquanto goffa, con parrucche e vestiti di colori sgargianti, si recavano, accompagnati da amici, a trovare altri amici e parenti, con lo scopo di sorprenderli e farli partecipare alle loro risate.
Per le strade e nei cortili si eseguivano scherzi e sberleffi; il più comune era quello di lanciare della farina sulla testa dei viandanti, imbiancando un po’ i loro capelli e i vestiti. Solo a partire dagli anni sessanta, si è diffusa la tradizione di mascherare i bambini con vestitini fatti di carta prima e di stoffa dopo.
La pratica barbara del “lancio delle uova marce” non era conosciuta a quei tempi, ma fortunatamente è assai scemata negli ultimi anni...
Tuttavia, come c'è da aspettarsi, è a tavola che il Carnevale offriva e offre ancora oggi, la migliore "esibizione" di se stesso...! 
Mentre la “cucina rustica” calava l'asso della ghiotta "lasagna", accompagnata dalmigliaccio rustico” e dagli “scagliozzi”, quella cosiddetta “dolce” rispondeva alla pari con il "sanguinaccio", il “migliaccio doce ‘e farenella”, e le “chiacchiere”...
Festa di Carnevale a Napoli, sfilata di cigni
Dobbiamo sottolineare, per dovere di informazione, che queste pietanze gastronomiche non costituivano una tradizione esclusiva del nostro territorio, perché erano diffuse in tutti i quartieri della città e, con alcune varianti, anche in moltissimi centri d'Italia, ma qui da noi alcune tipicità e sfumature della loro preparazione (come la qualità e l'origine degli ingredienti e le modalità di cottura), riuscivano a personalizzare, in maniera univoca al territorio, le singole specialità gastronomiche.
Come abbiamo già accennato era l'allevamento del maiale a fare da baricentro alla festa del Carnevale; in effetti ci sono più di una motivazione che spiegano questo particolare collegamento storico.

Il maiale simbolo di abbondanza, da godere a tavola a Carnevale  
Tutte le ricette rustiche e dolci di Carnevale hanno praticamente un comune denominatore, rappresentato dal maiale e dai prodotti suoi derivati.
Sant'Antonio Abate
Il maiale è un antichissimo simbolo antropologico che esprimeva condizioni e momenti di abbondanza nella società umana, e ha avuto forti legami con la sfera del sacro:  anche nella religione cattolica l’animale è stato associato all'iconografica sacra, in particolare con Sant’Antonio Abate, festeggiato secondo la tradizione il 17 gennaio, data che segna proprio il giorno in cui ha inizio la festa del Carnevale..Sant'Antonio Abate era considerato in antichità il protettore del popolino ed era invocato da esso specialmente contro l'epidemia di Herpes Zoster, chimperversava in ogni angolo dell'Italia. Per tal motivo a Napoli, fino al periodo Barocco, il maiale era un animale rispettato e quasi venerato, soprattutto per le proprietà lenitive del suo grasso, usato come unguento contro le sofferenze causate dall'infezione herpetica (chiamata comunemente Fuoco di Sant'Antonio). Finanche nel centro cittadino il maiale era allevato allo stato libero, adottato dai venditori di erbaggi e di frutta, era poi libero di rovistare tra i rifiuti dei mercati e dei vicoli della cit. Ma fu proprio uno di questi esemplari a far terminare questa barbara usanza, infatti, un anno, alla "processione di maggio" delle reliquie di San Gennaro, un "grasso esemplare" si infilò tra le gambe dei portantini della preziosa reliquia, rischiando di causare la rottura delle sacre ampolline del sangue di San Gennaro portate in processione. Dopo questo pericolo scampato, considerato un mezzo miracolo..., il Viceré decise di bandire definitivamente la barbara e immonda consuetudine di allevare i maiali nel centro della città.
Macellazione del maiale in una stampa antica
Altri popoli considerano nelle loro credenze religiose il maiale un'entità con una valenza sacra, come tutt'oggi fanno alcune società del Pacifico (Filippine e Nuova Guinea), dove il maiale è ritenuto sacro e, pertanto, lo si offre in sacrificio agli antenati; ma le sue carni, data la vicinanza affettiva dell’animale all’uomo, sono consumate da un’altra tribù e non da quella di appartenenza...
Il maiale è, tuttavia, anche associato a un significato antropologico ed in particolare alla similitudine con l’uomo su alcuni aspetti, ad esempio: il colore della carne e il sangue sono molto simili, entrambe le specie non hanno una sola "stagione degli amori", come avviene invece per gran parte dell'ecosistema.... Questo spiegherebbe chiaramente l’accostamento di questo animale all’uomo in alcune mitologie, come quella di Omero, con l'episodio della maga Circe che trasformò, per assecondare i suoi desideri, i compagni di Ulisse in maiali.
Non dimentichiamoci, poi, l'affinità di molti organi del maiale con quelli umani, che la chirurgia moderna ha sperimentato nella tecnica dei trapianti.
Ma oltre queste considerazioni di natura antropologica, perché avviene l'utilizzo delle parti del maiale nella cucina a Carnevale?
"Festa di Carnevale con sfilata di carri a Largo di Palazzo (oggi p. Plebiscito)" , dipinto del 1774, di Alessandro D'Anna
Secondo la tradizione la coincidenza non sembrerebbe casuale: nelle campagne, fin dal Medioevo, così come in alcuni centri agricoli ancora oggi, esisteva un ciclo per l'allevamento e la macellazione del maiale, consistente nel suo rapido ingrassamento, nella sua particolare uccisione e nella successiva trasformazione in insaccati e altri derivati, ciclo che si concludeva proprio a cavallo tra i mesi di gennaio e febbraio, unico periodo dell’anno in cui il contadino, ed è stato così per molti secoli, poteva godere la bontà di un cibo notoriamente destinato giornalmente alle tavole dei signori ricchi e degli aristocratici, ma di riflesso poteva lusingarsi, in almeno un giorno dell'anno,  che le differenze sociali erano ridotte, almeno a tavola... Altro motivo era quello di poter assaporare il prodotto della proprie fatiche, a sbafo, in una vera è propria "orgia alimentare", che rappresenta uno degli eccessi tipici della ricorrenza del Carnevale!

Procediamo ora con ordine col descrivere le varie pietanze carnevalesche...

Sanguinaccio”
Sanguinaccio e Chiacchiere
Il “sanguinaccioera il classico dolce di Carnevale, veniva preparato aggiungendo al sangue di maiale, latte, cacao in polvere, zucchero, cedro e, infine, un pizzico di farina, di cannella e di vaniglia. Il miscuglio veniva fatto rapprendere a fuoco lento, avendo cura di girarlo continuamente con un cucchiaio di legno, sempre nello stesso verso. Quando il “sanguinaccio“ assumeva la densità richiesta, veniva fatto raffreddare in ciotole di porcellana e poi offerto ai bimbi ed ai nonni golosi, accompagnato a dei biscotti "savoiardi" o delle "chiacchiere".
L’elemento fondamentale del "sanguinaccio" era ovviamente il sangue del maiale. Con l'uccisione del maiale si raccoglieva il sangue in recipienti di rame, in due momenti distinti. Il primo raccolto era destinato alla produzione del “sanguinaccio”, mentre quello successivo, più coagulato, era utilizzato in cucina e veniva, prima bollito e poi fritto, quindi per una pietanza rustica. 
L'utilizzo del sangue di maiale nel "sanguinaccio" è stata abolita, nel 1992, per scongiurare il pericolo di infezioni; oggi si prepara un derivato della ricetta originale, che non prevede più l'uso del sangue di maiale, ma solo cacao in polvere.

"Chiacchiere"
Chiacchiere coperte di zuccheri a velo
Le “chiacchiere” sono la più comune espressione della tradizione napoletana tra i dolci carnevaleschi, ma esse sono diffuse un po' da per tutto e conosciute, a seconda delle regioni di provenienza, con svariati nomi, quali: cenci o struffoli in Toscana, crostoli a Ferrara, frappe, nel Lazio, strappole in Emilia Romagna, galani a Venezia, sfrappe nelle Marche, crostoli in Veneto, Friuli e Trentino, gale a Mantova, bugie o risòle a Genova gale o gali, in Lombardia, cunchielli in Molise, cioffe in Abruzzo, guanti in Calabria, meraviglias in Sardegna.
Secondo qualche studioso, le "chiacchiere" vengono fatte risalire all'epoca romana, quando si preparavano i cosiddetti "frictilia", ossia dei dolcetti a base di farina e uova, che venivano fritti nel grasso di maiale. Anche in questa ricetta, quindi, il maiale è stato un elemento determinante...
La tradizione dei "frictilia" sarebbe quindi sopravvissuta fino ai nostri giorni, con le dovute differenze regionali.
 
“Migliaccio”  
Migliaccio
E' assai probabile che il termine "migliaccio" derivi dalla parola "miglio", secondo alcuni da miliacius, dal latino tardo antico che significa farina di miglio e anche da miliaccium, ossia pane derivato dal miglio. La farina di miglio in epoche passate era usata per numerose preparazioni di dolci "poveri".
Sicuramente le origini della ricetta del "migliaccio" è antichissima, risalente almeno al periodo medioevale
Anche Lorenzo dei Medici lo riporta in una sua citazione:                        
   E’ la Nencia più tenerella che un ghiaccio
Morbida e dolce che pare un migliaccio [...]

La ricetta originaria del dolce prevedeva il sangue di maiale tra gli ingredienti. Dal '700 si è assistito gradualmente alla sua trasformazione, e soprattutto da piatto "dolce" a piatto "rustico". Infatti la ricetta rustica oggi non prevede più il sangue tra gli ingredienti, ma solo alcune parti trasformate del maiale, come pezzetti di salsicce e di ciccioli (o cigoli).
Fu proprio nel Secolo dei Lumi che nelle cucine dei conventi napoletani avvenne la metamorfosi del "migliaccio dolce". L'antica ricetta del migliaccio di colore scuro e pieno di sangue di maiale fu "liberata" di questo elemento un po' tribale e il "migliaccio" fu trasformato in un dolce raffinato e fragrante, un po' come gli altri dolci di origini conventuali che seguirono la stessa sorte (vedi la sfogliatella); dolci nei quali il delicato sapore dello zucchero, era accompagnato dal profumo dei canditi, dalla freschezza della ricotta e delle uova e ornato con alcune rinomate spezie. 
L’ingrediente principe del "migliaccio dolce" di oggi è la farina di mais (detta farenella), che ha sostituito quella originale di miglio, cereale ormai in disuso. Il semolino di farenella è fatto cuocere in un composto di latte e burro, quindi amalgamato con gli altri ingredienti basilari, quali uova, zucchero e ricotta, il tutto profumato con cannella e zucchero a velo.

"Migliaccio rustico"
Pizza 'e farenella o migliaccio rustico
Il "migliaccio rustico", del quale già si è fatto cenno, viene chiamato in dialetto anche “’a pizza ‘e farenella” o "migliacciello"… E' praticamente una sorta di polenta croccante: un impasto di farina di mais ripieno di salumi e formaggi, e poi cotto in forno. Anticamente si aggiungeva alla farina soltanto cicoli di maiale, pecorino romano e sugna… una vera bontà per il palato! 
Il semolino (o farenella) derivata dal granoturco (o meglio "grano d'India", come si usava chiamarlo inizialmente), è stato introdotto in Europa nel XVI secolo, con la scoperta delle Americhe. 

"Scagliozzi"
Gli "scagliozzi" hanno praticamente gli stessi ingredienti della "pizza 'e farenella", quello che cambia è il modo di cottura e la forma finale del preparato: sono infatti fritti in olio bollente, contrariamente alla "pizza di farenella" che, come è stato detto, viene cotta nel forno.
Scagliozzi
Gli "scagliozzi" sono tagliati in pezzi piccoli, di forma irregolare: a triangoli, a strisce o a trapezi, per essere mangiati sbrigativamente.
All'impasto di farina di granoturco viene aggiunto sale, pepe e formaggio. Gli "scagliozzi" anticamente costituivano quello che oggi viene chiamato “cibo di strada”, perché erano venduti, assieme ad altre "fritture", tutto l'anno da un venditore ambulante chiamato "zeppolajuolo" (venditore di zeppole), mestiere descritto nel libro “Usi e Costumi di Napoli” di Francesco De Bourcard.
Buon Carnevale a tutti...!

Salvatore Fioretto

Alcuni contenuti del post sono stati tratti dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore" ed. The Boopen, 2010, di S. Fioretto.

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