sabato 2 aprile 2016

A Capodimonte, tra chimica e matematica, una storia di eccellenza napoletana! Parte prima: Maria Bakunin

Michail Bakunin e Antonia
Capodimonte è rinomata per le sue porcellane, per la splendida reggia borbonica, per le Catacombe di San Gennaro e per la suggestiva veduta panoramica sulla città; grazie a queste peculiarità artistiche e paesaggistiche i suoi siti monumentali sono meta di turisti provenienti da ogni angolo del mondo. Ma non c'è solo questo...!
La storia che stiamo per raccontare è bella e interessante, ma purtroppo sconosciuta a molti e riguarda la vita di due personaggi importanti della storia d'Italia e di Napoli, i quali, strano a dirsi, hanno in comune tra loro proprio Capodimonte e il mitico rivoluzionario russo, Michail Aleksandrovič Bakunin
Parleremo della vita della docente e ricercatrice di Chimica, Maria Bakunin e del celebre accademico matematico Renato Caccioppoli.
Michail Bakunin è stato un filosofo, rivoluzionario e anarchico russo, passato alla storia per essere stato uno dei fondatori dell'anarchismo moderno. Ma la sua notorietà maggiore è dovuta per essere stato autore di molte opere a tema "rivoluzionario", quali: Stato e anarchia, L'impero knouto-germanico e tanti altri libri.
Michail Bakunin
Bakunin durante il suo peregrinare in Europa, dopo Germania, Francia, Belgio e Svizzera, fu più volte in Italia e soprattutto a Napoli, ospite di quello che fu uno dei primi suoi discepoli del socialismo e sarà poi il suo amico fraterno, parliamo dell'avvocato socialista, ex garibaldino, Carlo Gambuzzi.
Michail prese in sposa la polacca Antonia Kwiatkowska, dalla quale ebbe tre figli, Carlo, Giulia Sofia  e Maria. Alla sua morte, avvenuta a Berna nel 1876, la vedova Antonia, assieme ai tre figli, si trasferì in Italia, e giunta a Napoli, fu ospite dall'avvocato Carlo Gambuzzi, nella sua bella villa che si trovava a Capodimonte, non lontano dalla celebre reggia borbonica; qui i figli trascorsero tutta la loro giovinezza, seguiti amorevolmente da Carlo; Carlo Gambuzzi dopo qualche tempo sposò la vedova Antonia e dalla loro unione nacque una bambina, che fu chiamata Tatiana.
La Reggia di Capodimonte in un dipinto ottocentesco
Dei tre figli di Bakunin, Maria si distinse fin da piccola per la sua personalità forte e determinata, influenzata anche dalla celebrità del padre. Nacque nel 1873 a Krasnoyarsk, in Siberia, luogo di rifugio della madre, dopo l'arresto del padre.

Si racconta che una volta a Capodimonte la sorella più piccola finì accidentalmente dentro a una cisterna dell'acqua, profonda come un pozzo, e lei senza pensarci due volte si fece calare dentro legata a una corda e riuscì a mettere in salvo la sorella, afferrandola per i capelli. Altro episodio curioso raccontato è quello che un giorno percorrendo le strade del territorio a bordo di un calesse, il cavallo si imbizzarrì e lei con una fredda lucidità, non comune per i fanciulli della sua età, riuscì a riportare alla calma la bestia.
Foglio di stato matricolare universitario di Maria Bakunin
La sua determinazione e la costanza negli studi l'aiutarono molto ad affermarsi nella vita e, con duri sacrifici, dopo aver frequentato il liceo Umberto I di Napoli, s'iscrisse all'Università di Napoli. Dopo il corso regolare di studi, conseguì giovanissima la laurea in Chimica, nell'anno 1895. Nel frattempo il fratello Carlo divenne ingegnere, mentre l'altra sorella, Maria Sofia si laureò in Medicina e Chirurgia.
Maria fu presto assunta all'Università di Napoli come preparatrice e assistente di laboratorio di Chimica.
La sua presenza come collaboratrice dell'Istituto fu notata dal direttore dell'Istituto di Chimica generale dell'Università di Napoli, il prof. Agostino Oglialoro Todaro; inutile dire che l'accademico s'innamorò perdutamente della fanciulla e che volle sposare poco dopo. Andarono ad abitare in un appartamento sito in via Mezzocannone, proprio vicino alla facoltà.
Raduno a Napoli di accademici della chimica per festeggiare il prof. Cannizzaro, Maria Bakunin è a destra della foto, 1896

Nel 1909 vinse la cattedra di Chimica Applicata presso la scuola politecnica di Napoli, divenne poi docente di Chimica Tecnologica Organica presso la stessa scuola, nell'anno 1911, passò poi alla cattedra di Chimica Organica, sempre presso la scuola di ingegneria. Divenne titolare della cattedra di Chimica Industriale presso la scuola politecnica, nell'anno 1936. 
Nel 1940 si trasferì alla Facoltà di Scienze dell'Università di Napoli, dove insegnò Chimica Organica fino al pensionamento, avvenuto nel 1948. Nel 1949 le fu assegnato il titolo di "Professore emerito dell'Università di Napoli".
Amò l'Università, il suo lavoro di insegnante e soprattutto i suoi allievi, in maniera speciale, fino alla fine della sua vita e, anche quando divenne "professore emerito", non smise mai di insegnare.
Per capire la difficile personalità di Maria Bakunin, la sua caparbietà e sopratutto il suo "coraggio combattente",  raccontiamo il singolare episodio avvenuto del settembre del 1943, quando per opera dei tedeschi, la biblioteca dell'ateneo fu data alle fiamme. 
Maria Bakunin in età matura
C'era un plotone tedesco, che penetrato nei corridoi dell'università, stava per completare l'opera di distruzione dei libri, ma ella con un coraggio sovrumano si piazzò davanti ai soldati, seduta a terra con le braccia incrociate, mentre proprio nelle sue vicinanze i libri iniziavano a prendere fuoco; con determinazione chiese ai soldati teutonici di risparmiare la cultura napoletana...! Forse ammirato dal gesto coraggioso e inusuale di questa donna, il tenente germanico ordinò al plotone di indietreggiare...
Di quell'episodio dell'incendio alla biblioteca si conserva anche la corrispondenza tra la Bakunin e il reparto dei vigili del fuoco di Napoli, nella quale Maria lamentava il ritardo registrato dalla squadra dei vigili per raggiungere il sito e spegnere le fiamme. Comunque, grazie al coraggio di questa donna, un disastro ben più grave fu evitato e gran parte della biblioteca federiciana fu salva!
Spirito libero, Maria ebbe carattere severo e duro, specie con il personale dell'Università, dal quale esigeva competenza e dedizione, anche se non si risparmiava di fare loro visita, quando sapeva che qualche suo assistente era a letto malato. Non scese mai ai compromessi, specie con il regime. 
Maria Bakunin
Un aneddoto racconta l'episodio accaduto nel 1941 all'Università di Napoli, quando, durante una sessione di esami, un ufficiale si presentò in divisa per sostenere l'esame di Chimica Organica (all'epoca, secondo una disposizione ministeriale, gli studenti arruolati godevano di un percorso protetto, ricevevano una certa tolleranza agli esami e non potevano essere bocciati...). A vederlo in divisa la professoressa Bakunin esclamò: "Cosa ci fa lei qui in divisa?!", il militare sentendosi offeso estrasse la pistola dal fodero e la puntò contro la donna, in procinto di fare fuoco, e se non fosse stato per il rapido e provvidenziale intervento dell'ing. Bonifazi, sarebbe accaduta una tragedia parossistica...!
Nel campo scientifico Maria Bakunin svolse importanti ricerche e studi nella stereochimica e nella fotochimica. Viene ricordata per le ricerche e spiegazioni sul fenomeno dell'Isomeria, sulla sintesi (condensazioni di alogenuri aromatici con fenoli o ammine), per lo studio degli eterociclici indolici e delle melanine, per le reazioni fotochimiche, per l'interpretazione della reazione di Perkin, ma svolse anche importanti ricerche nella chimica applicata (acque, scisti bituminosi, ecc.). Per quest'ultimo ambito scientifico, tra il 1909 e il 1910, svolse degli studi e delle ricerche per un progetto promosso e finanziato dal ministero. Oltre alla stesura della mappa geologica dell'Italia, riguardante gli "scisti ittiolici", eseguì diversi studi e indagini scientifiche in Tirolo e, insieme al prof. Francesco Giordani che era stato suo allievo prediletto, a Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno, sulle catene dei monti Picentini, ma anche in Sicilia. L'obiettivo era estrazione industriale dell'Ittiolo: un olio formatosi dalla fossilizzazione dei pesci (dal greco: ictus pesce e litos pietra), che poteva essere utilizzato ai fini medicinali. 
Purtroppo i risultati di queste ricerche non sortirono il giusto riconoscimento per la nostra scienziata, ma altri furono i personaggi che raccolsero l'alloro accademico...
A lei si deve anche l'introduzione di un metodo originale per realizzare la ciclizzazione, utilizzando l'anidride fosforica; in seguito il metodo è stato usato per la preparazione dell'Aspirina. 
Fu uno dei primi studiosi dei melanomi.
Eseguì, per conto dell'Accademia Pontaniana, l'analisi chimica dell'acqua minerale affiorante dalla sorgente presso il Santuario di Pompei.
Apprezzata dai colleghi accademici, nel 1919 divenne vicepresidente della "Sezione di chimica di Napoli", era già socio dal 1912. 
Nel 1932 venne eletta presidente della sezione di scienze fisiche e matematiche della "Società di scienze, lettere ed arti di Napoli" (1932-1952). 
Altorilievo di Federico II sulla facciata dell'Università
Molto stimata da Benedetto Croce, Maria Bakunin, fu eletta nel 1944 presidente della prestigiosa e antica "Accademia Pontaniana di Napoli": la prima donna a ricevere l'ambita onoreficenza, era stata già iscritta all'Accademia, come socio, fin dal 1905 ed era stata nominata in precedenza vicepresidente. 
Fu anche la prima donna socio dell’"Accademia Nazionale dei Lincei", nella classe delle scienze fisiche, nell'anno 1947. 
Negli ultimi anni della sua vita usciva raramente di casa e si dedicava allo studio delle lingue straniere, riceveva spesso la vista del card. Corrado Ursi, col quale coltivava una sincera amicizia.
Morì a Napoli nella sua casa di via Mezzocannone, nell'anno 1960, all'età di ottantasette anni, senza mai aver smesso la sua attività di docente e ricercatrice scientifica.
Il portone dell'appartamento di via Mezzocannone
Maria Bakunin, Mariussa per gli amici, è stata una delle prime donne a conseguire la laurea in chimica ed è stata una delle prime donne a svolgere attività scientifiche di ricerca e di didattica all'interno dell'ateneo napoletano, in un periodo della storia italiana nel quale le donne non avevano molti spazi disponibili nella società, e scalare il successo accademico era una possibilità riservata solo ai docenti maschi. Ella può essere considerata, a tutti gli effetti, la prima artefice della rivoluzione femminile che partì proprio da Napoli, città dai mille indiscussi primati nella storia d'Italia... Noi aggiungiamo: tutto ebbe inizio da Capodimonte e dall'Area Nord di Napoli...
Forse il grande riconoscimento che Maria Bakunin meritava era proprio il Premio Nobel per la chimica, che purtroppo la nostra scienziata non ha avuto la soddisfazione di ricevere in vita...
Il nipote prediletto da Maria Bakunin fu Renato Caccioppoli, figlio della sorella Maria Sofia; ma questa storia riguarderà la seconda parte di questo post, che cureremo prossimamente...
Salvatore Fioretto

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Facciata dell'edificio universitario, sede centrale al corso Umberto I

mercoledì 30 marzo 2016

"I ruderi di via Tancredi Galimberti", di Salvatore Tofano


Se vi trovate a passare per via Tancredi Galimberti, nel popoloso e bistrattato quartiere di Scampia, e vedete dei vecchi ruderi, sappiate che non si tratta di “quattro pietre” ammucchiate lì per caso, ma di cimeli antichi ricchi di storia, anzi di storie, a volte anche raccapriccianti, crudeli, di puro orrore, che fanno raggelare il sangue.
Non sono i resti della cisterna di un antico acquedotto romano, come si è creduto per lungo tempo, ma molto più probabilmente quel che resta di una villa rustica, una sorta di masseria, abitata dai coloni tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, se non addirittura di una casa romana di censo agiato.
Una mia amica, che ha insegnato in un liceo di zona, mi ha raccontato di una ricerca effettuata con i suoi studenti, durante la quale ha raccolto alcune leggende, confrontandosi con un bel po’ di studiosi locali, e in particolare con Salvatore Fioretto, autore di un ottimo testo sulla storia del territorio dal titolo “Piscinola, la terra del Salvatore”, edito da The Boopen.
“Prima dello sconvolgimento del territorio, interamente agricolo, – le ha spiegato il Fioretto – si  poteva incontrare questo manufatto, pervenutoci dall'antichità, lungo la strada di campagna detta “del Cancello”, che collegava l’antico Casale di Piscinola alla strada consolare proveniente da Capua”.
La sistemazione attuale risalirebbe alla costruzione del sistema viario del nuovo quartiere di Scampia, avvenuta alla fine degli anni ’70.
“Alcune testimonianze raccontano – le ha spiegato ancora il Fioretto – che durante la costruzione del “Rione 167 di Secondigliano” (così allora si chiamava Scampia), proprio nell’area di fronte al sito in parola, sarebbero stati rinvenuti altri resti antichi e molte tombe di una vasta necropoli osco-romana, con la presenza di alcuni resti di assi viari”.
E, ha tenuto a sottolineare, che queste fonti orali non sono state purtroppo mai confermate dal ritrovamento di relazioni scritte o da foto; e che, nonostante alcuni circoli culturali del tempo avessero organizzato ronde di ispezione e di sorveglianza archeologica nel territorio, per prevenire scempi e depredazioni, il risultato sia stato sostanzialmente negativo. Difatti, molte furono le effrazioni e le asportazioni compiute notte tempo a opera degli immancabili tombaroli.
Non poche sono le leggende che circolano su questi ruderi.
Una, ad esempio, è quella riportata da Luigi Sica nel suo libro “Il borgo perduto”, edito da Marotta&Cafiero. Narra di un cacciatore, che improvvisamente perde di vista il suo cane e si mette a cercarlo e a chiamarlo. Il cane, alla voce del suo padrone, comincia ad abbaiare. Il cacciatore, chiedendosi cosa mai impedisse al suo fido di recarsi da lui, si dirige verso il luogo dal quale provengono i guaiti. Scopre così che il cane era finito in una ripida e profonda cavità. Chiama in suo aiuto alcuni contadini, che insistono nei dintorni, e si fa calare nell’anfratto, legato a una robusta corda di canapa. Giunto in fondo alla cavità, scopre che quella non è una cunicolo qualsiasi, ma una antica cisterna con le pareti realizzate in muro di opus reticolatum. Denuncia la scoperta alle autorità, che subito provvedono a inventariare il rudere, inserendolo in una mappa col nome di “casa vecchia”.
Un’altra leggenda, invece, riportata dal Fioretto nel suo libro, vuole che questo rudere fosse detto “la casa dei serpenti” per la presenza al suo interno di rovi e tane di serpenti. Si racconta anche di un serpente, forse un cobra, che aveva strani poteri, come quello di calamitare le persone tramite lo sguardo, rendendole incapaci di qualsiasi più piccolo movimento. La gente – ricorda Pasquale di Fenzo, un abitante del luogo – lo chiamava ‘o serpente cu ‘a calamita ed  era convinta che portasse gli occhiali.
Altri testimoni riportano che durante la prima guerra mondiale la cavità si trasformò in rifugio per quei giovani chiamati alle armi, che disertavano, e che per questo erano pressati dai carabinieri.
Uno studente della mia amica le ha riferito che suo nonno, quando era ancora bambino, abitava in una masseria poco distante dai resti della cisterna o villa che sia e che specie di notte era terrorizzato da lugubri lamenti che si levavano nell’aria e che attribuiva alla presenza di fantasmi.
Incuriosito, ho chiesto alla mia amica se non fosse il caso di intervistare questo signore.
“Perché no?” ha fatto lei.
E la domenica successiva ci siamo recati da lui.
Davanti a noi un vecchietto di novantadue anni compiuti, dal viso solcato da rughe profonde, simile a una prugna passita, calvo al centro del cranio, con rivoli di capelli innevati dal tempo, che gli scendevano lungo le tempie e sul collo, fortemente incurvato dal peso degli anni, con le mani dalle dita scarnite e nodose, che si appoggiava a un bastone di legno, gli occhietti ancora vivi che ti penetravano come due punte di spillo.
“Benvenuti!” ci disse, accogliendoci con un largo sorriso.
“Grazie, signor Cerruti, e ci scusi per l’intrusione…”
“Mio nipote mi ha detto che siete qui per la vecchia cisterna…”
“Sì – disse la mia amica – anche se qualcuno afferma che non si tratta proprio di una cisterna, ma di un’antica villa romana…”.
“I resti di queste rovine hanno da sempre dato forza a ipotesi e teorie contrastanti, si è fatto riferimento ad esempio alla presenza di un piccolo ambiente termale, ma anche agli avanzi di un possibile acquedotto romano o di un’opera idraulica dell’antichità ancora tutta da scoprire, come pure si è fatto riferimento ai resti di una villa di gente agiata. La sola cosa certa è che Scampia non è, come si racconta. un quartiere senza storia”.
“Lei sembra molto innamorato di questa terra” azzardai.
“Ci sono nato, quando qui era ancora tutta campagna e la gente ci veniva per le vacanze o anche solo per respirare un po’ di aria buona; le sono affezionato, anche se ora è solo un intricato agglomerato di case su case, giganteschi scatoloni di ferro e cemento, che come novelle torri di Babele sfidano il cielo. Io, quando ascolto “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano, mi ritrovo, e non mi vergogno a dirlo, con un lacrimuccia che mi scivola giù…”
E, senza darci il tempo di interloquire, si mise a canticchiare: “Là dove c'era l'erba ora c'è / una città, / e quella casa in mezzo al verde ormai / dove sarà? / Aha-ah!”.
Aspettammo che terminasse, senza osare interromperlo.
“Beh, disse lui, torniamo alla cisterna. Cosa volete sapere di particolare?”
“Suo nipote ci ha parlato di lamenti, che si levavano nell’aria nella notte, di fantasmi…”
“Beh, sì – disse, divertito, il vecchio – qualcuno un tempo ha creduto davvero che fossero gli spiriti. Noi allora non li chiamavamo fantasmi, ma spiriti, perché pensavamo alle anime dannate, che non ne volevano sapere di lasciare questo nostro mondo e vagavano nelle notti insonni, lamentandosi e piangendo. Ma la sostanza non cambia, spiriti o fantasmi che siano, comunque pensavamo a misteriose e oscure entità, prive di materia. Io stesso, ma ero ancora un bambino, ne ero convinto e, quando udivo quegli strani lamenti, ero preso dal terrore e correvo a nascondermi in casa. In realtà, si trattava di cani randagi o con sospetta rabbia, gettati lì nella cavità, che prima di morire, trafitti dai morsi della sete e della fame, ululavano e abbaiavano per giorni interi”.
“Una fine orrenda!...” dissi.
“Sì, davvero una fine orrenda!” concordò lui.
“Chi era che gettava i cani nella cavità?” gli chiesi.
“Soprattutto, i pastori, perché i cani randagi assalivano le loro greggi…”
“Quindi, i grandi sapevano che i lamenti erano dei cani?”
“La gran parte sì…”
“Se lo sapevano, perché dicevano che a lamentarsi erano gli spiriti?”
“Non è che tutti sapessero dei cani, ma quelli che ne erano a conoscenza spesso si servivano degli spiriti per spaventare noi bambini e costringerci all’obbedienza…”
“Anche suo padre?”“In un primo momento sì, ma poi cominciò a dire che gli spiriti non esistono e che quello che udivamo era un uomo lupo, che si aggirava per le campagne, ululando nelle notti di luna piena”
“Perché cambiò versione?”
“Voleva che in casa ci sentissimo sicuri: un fantasma, volendo, in casa ci può entrare anche se la porta è sprangata, un licantropo no!”
Quella notte feci dei sogni strani, anche se in realtà ogni sogno al risveglio appare un po’ strano, perché si sa, quando sogniamo, sogniamo a intervalli, un po’ dormiamo e un po’ sogniamo, così, quando ci svegliamo e cerchiamo di ricordare, mettiamo insieme i vari pezzi, che spesso sono composti da pezzi di sogni diversi, quel che vien fuori è un film un po’ demenziale, con vuoti, incongruenze, discordanze.
Ma, se ogni sogno è un po’ strano, questo lo era davvero.
Nel sogno mi rivedo bambino e sono nel mio letto, ma non a casa mia, bensì nella masseria del signor Cerruti, improvvisamente una serie di ululati e di guaiti mi svegliano, spaventato mi porto le lenzuola sul capo e mi ci seppellisco sotto. Ecco la scena seguente: mi porto presso la cavità, ma ora non sono più io, è il signor Cerruti da piccolo che si sporge nel vuoto per vedere chi c’è di sotto. Un vuoto, una sorta di buco nero, ed ecco che torno io il protagonista, sono caduto in fondo alla cavità e mi trovo tra rovi e nidi di serpenti, uno di essi che sembra abbia gli occhiali mi si para davanti in posizione eretta, molto probabilmente il cobra di cui mi aveva parlato la mia amica, mi fissa. Non parla, ma avverto chiaramente ciò che mi chiede: “Avvicinati, avvicinati!”.
Un ulteriore vuoto, i serpenti sono svaniti nel nulla, mi trovo in un cunicolo buio avvolto dalle tenebre, cerco di farmi luce con una piccola torcia, che ho in tasca, ora vedo le pareti di reticolo, sono ricche di mosaici e affreschi, inciampo in un otre…
Mi sveglio, sono madido di sudore, spaventato.
Se quei ruderi danno sensazioni così forti, che premono dall’inconscio e riemergono nel sogno, credo che abbia ragione Salvatore Fioretto, lo studioso col quale si è confrontata la mia amica, quando scrive nel testo su menzionato: “Siamo del parere che i resti della villa rustica romana dovrebbero essere adottati quale simbolo del nuovo rione Scampia che rinasce dalle ceneri del vecchio quartiere, perché essi rappresentano un legame storico con il passato e un caposaldo generazionale che resiste e sopravvive alle avversità del tempo e degli uomini!”.
Salvatore Tofano

Tutte le vignette inserite in questo post sono create da Salvatore Tofano.

Ringrazio lo scrittore Salvatore Tofano per aver consegnato questo racconto per "Piscinolablog" e per aver attinto dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore" spunti letterari per il suo bel racconto, unendoli con il racconto contenuto nel bel libro "Il Borgo perduto", di Luigi Sica
Come indicato, la mia fonte è stata l'amico Pasquale di Fenzo. 

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I ruderi della villa romana, in via Galimberti (foto S. Fioretto, anno 2014)