sabato 4 marzo 2023

L’allevamento del maiale e la conservazione della carne...

Proponiamo questo racconto, che è una sintesi di una tradizione molto antica e un tempo (quando era consentita) era diffusamente praticata nel quartiere di Piscinola e in tutto il circondario di Napoli e Provincia, parliamo della pratica di allevare e macellare i maiali in ambito domestico. Da notare anche il "rito" che era praticato dai nostri antenati per conservare le carni fresche, per tutto il periodo dedicato alla macellazione degli animali e anche per alimentare una socialità conviviale: una genialità tutta nostrana...!

"Anche l’allevamento del maiale era considerato in passato un rito, che si perpetuava nelle masserie di Piscinola da generazioni e costituiva un momento di aggregazione e di festa tra conoscenti e vicini.
Si iniziava il “ciclo” in primavera con l’acquisto di un maialetto, che avveniva presso altri contadini in possesso di scrofe, oppure presso i vari mercati, che si svolgevano nel circondario del nostro territorio. Di solito il maiale era di razza bianca, ma non si trascuravano anche le altre razze. Molto apprezzata per le carni era la razza scura, detta “Lucchese”.

Razza detta "Lucchese"

Il maiale era allevato in un angolo coperto della masseria, opportunamente lastricato di cemento o pietre, perché, come si sa, il maiale mangia di tutto e scava fosse e buche.
Il pasto normalmente dato al maiale consisteva in una poltiglia d’avena (‘a vrenna) mista a frutta, patate lesse, pane duro, ortaggi e avanzi di cucina. Il pasto (‘o pastone) era dato due volte ogni giorno, versato in speciali contenitori rettangolari ricavati da massi scolpiti di pietra vesuviana. A seconda dei periodi dell’anno si poteva dare anche mais, bulbi di rape (‘e scatozze), zucche, zucchini ed altri prodotti dell’orto.

La crescita e l’ingrasso dell’animale duravano in genere un anno. Verso la fine dell’inverno, di solito a gennaio, si eseguiva l’uccisione del maiale.
La vittima di turno era adagiata in orizzontale su una tinozza di legno capovolta e trattenuta da almeno cinque o sei persone forzute. Si procedeva a recidere la giugulare con un coltello appuntito (‘o scannaturo) e a raccogliere rapidamente il sangue in un recipiente di rame.
Il primo raccolto era destinato alla produzione del “sanguinaccio” (il tipico dolce di Carnevale), mentre quello successivo, più coagulato, era utilizzato in cucina e veniva fritto.
Spesso
, ad operazione conclusa, si contavano i feriti tra i presenti, a causa dei forti calci lanciati dalla povera bestia in agonia!
Una volta morto, il maiale veniva accuratamente pulito delle setole, con grossi coltellacci e lavato con acqua bollente. Poi gli adulti della famiglia provvedevano a tagliare la testa, che veniva appesa ad un’asta di legno (‘a furcina).
Lavaggio degli intestini per preparare salsicce

Il corpo veniva issato in verticale e appeso con due ganci alle travi della stalla. Si effettuava la recisione dell’addome e la raccolta di tutti gli organi interni in un grosso recipiente.
Si sa del maiale non si butta niente!
All’evento partecipavano tutte le famiglie della masseria, alle quali, secondo l’usanza, si donava un piatto contenente dei pezzi di carne rappresentanti le varie parti del maiale (coratelle, fegatielle, tracchiolelle, ecc.). Ovviamente il rito si ripeteva a catena, perché era d’obbligo, al momento dell’uccisione del proprio maiale, ripetere l’”attenzione” verso i vicini, che avevano offerto della carne in dono. Così facendo, ognuno aveva assicurato della carne fresca suina per la durata di almeno un paio di mesi!
Capocollo

Dopo un giorno di riposo si procedeva al taglio delle carni, secondo le varie usanze culinarie. La conservazione delle parti del maiale veniva fatta con prodotti semplici e metodi antichi, quali: il sale, il pepe, l’affumicatura e la stagionatura.
Le due zampe posteriori venivano subito salate per farne prosciutti. Le parti di grasso erano anch’esse salate e pepate per la produzione di pezzi di lardo. Tutte le parti prodotte erano appese e messe ad essiccare. Le interiora venivano pulite e salate per renderle elastiche e utili per la produzione di salsicce e di “nnòglie”.
Noglie

Le “nnòglie” avevano la forma di salami, ma erano riempite con carni più grasse, ricavate dal collo, dal capo e dalle interiora (milza, ecc.), rese piccanti con pepe nero.
Si procedeva, poi, alla produzione di salsicce e di salami. Tutte le carni selezionate erano tagliate a punta di coltello in piccoli pezzettini o erano macinate in una particolare macchina tritacarne ad azionamento manuale. Successivamente la carne era salata e pepata, aggiungendo del vino rosso e dei finocchietti. Si formavano poi le salsicce, riempiendo con la carne ottenuta le budella d’intestino. Durante il riempimento si utilizzava un semplice imbuto d’alluminio o addirittura un corno bucato. Con abili giochi di mano, si formavano le salsicce, distanziando, intrecciando e legando con filo di spago i vari segmenti.
Lardo

Con dei spilli si foravano in più punti le budella, per favorire il drenaggio dei grassi liquidi. Le salsicce, una volta pronte, erano quindi appese su assi di legno accanto al camino, per favorirne l’asciugatura. Tra le diverse fila appese s’interponevano delle foglie di alloro, per aromatizzare le carni.
Si procedeva poi a conservare le parti più pregiate: il “capocollo”, il “filetto” e la “ventresca”. Con il fegato si otteneva un ottimo piatto, realizzato con cipolle fritte. Il cuore veniva fritto con le cipolle e foglie d’alloro, avvolto nella famosa “rezza ‘e core”.
vessica per contenere la sugna

Particolare menzione merita la produzione della sugna (‘a ‘nzogna) che, come si sa, era il condimento principe della tradizione contadina. L’olio era poco usato, sia perché costava molto, sia perché non era prodotto nelle nostre campagne.
La sugna era preparata facendo cuocere in un grosso tegame, per molto tempo, tutte le parti grasse del maiale, che venivano tagliate a pezzetti. Durante la cottura si aggiungevano delle foglie di alloro per aromatizzare il grasso. Una volta che il grasso era completamente sciolto si faceva raffreddare il pentolone, fino a raggiungere la temperatura ambiente. Le parti residue (cicole) erano pressate in uno speciale tamburo con dischi forati, per estrarne tutto il grasso ancora impregnato. Qualcuno usava anche una “premi patate”!
Sugna stagionata in vessica
Quando la sugna si era rappresa e addensata, una parte di essa veniva versata in una sacca, ricavata dalla vescica del maiale. La restante parte di sugna era messa in barattoli di terracotta smaltati di colore bianco, coperti con della carta di sigillo e riposti in credenza. Per queste operazioni si utilizzava un cucchiaio di legno (‘a cucchiarella). La sacca piena di sugna era inserita in un canestrino di vimini e appesa in cucina, pronta per essere utilizzata come condimento. Le “cicole” venivano invece mangiate durante la cena o i pasti frugali ed erano considerate dai bambini delle vere leccornie.
Fegatelli di maiale da friggere con foglie di alloro

I piedi, il muso, le zampe e le orecchie del maiale erano le delizie della cucina piscinolese. Venivano bollite e poi condite con limone e un po’ di sale.
Lo stomaco e le altre interiora del maiale formavano un’ottima trippa da cucinare con sugo di pomodoro o gustata lessa con il limone. Le tracchiole (‘e tracchiulelle) del maiale venivano utilizzate dalle nostre nonne la domenica, per la preparazione del ragù (‘o rragù). Le ossa, infine, venivano utilizzate per il brodo.
"Pezza di lardo"

Tutte le altre interiora del maiale: come polmoni, fegato, cuore, milza erano ridotti a pezzettini e utilizzati per preparare una speciale salsa, mista a pezzi di carne, molto piccante chiamata “soffritto” o “zuffritto”. Per preparare questo sugo, le interiora di maiale si cuocevano insieme alla conserva di pomodoro, aromatizzata con foglie di alloro e molto peperoncino. Il “zuffritto” era fatto cuocere ininterrottamente a fuoco lento, fino a quando il sugo diventava molto concentrato.
Esso veniva poi conservato in barattoli di terracotta e si utilizzava nelle sere di inverno, per inzuppare “freselle” di pane, dopo averlo riscaldato e diluito con un poco di acqua. Spesso questo piatto tipico della nostra cucina veniva servito ai manovali che lavoravano nelle campagne, accompagnato da un pezzo di pane casareccio.
Nei primi anni del 1900, per regolamentare a livello sanitario, questa antica pratica diffusa tra i Piscinolesi, di macellare i maiali in proprio nei cortili, si decise, come annota il Vicesindaco di allora marchese G. Lucarelli, di realizzare un macello pubblico in Via Plebiscito.
Pratica di affumicatura
Quest’ultimo luogo, proprio per la presenza del macello pubblico, fu denominato “Capo ‘a chianca”. Tuttavia questa decisione non servì a distogliere i Piscinolesi dallo svolgere ogni anno il tradizionale rito di macellare i maiali in proprio.
Il maiale era considerato così importante nella vita sociale ed economica del luogo, che un aspirante sposo soleva rompere un fidanzamento solo dopo che terminavano gli ultimi pezzi di carne suina. Come pure il perdurare del fidanzamento dopo tale periodo significava che le nozze erano vicine…!"

Salvatore Fioretto

Il testo del racconto è stato integralmente tratto dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore. Una terra, la sua gente, le sue tradizioni", di S. Fioretto, anno 2010, ed. The Boopen. 

Soffritto tradizionale, con foglie di alloro

mercoledì 1 marzo 2023

Dopo la Guerra, bastò uno sbuffo di un treno a vapore per far ritornare un po' di normalità…!

Quel giorno fatidico fu atteso con giustificata impazienza da parte delle maestranze della Piedimonte e non soltanto da essi... La guerra era ancora in corso e a Napoli erano da poco trascorse le gloriose Quattro Giornate..., il popolo era esausto e affamato ed era in cerca di riprendere un poco di quell'antica normalità perduta...
Erano stati anche avviati e conclusi brevemente i lavori di riparazione dell'armamento (binari e ponti) della "Tratta Bassa" della Piedimonte che, come è noto, subì danni ingenti, nel corso degli oltre cento bombardamenti che Napoli e Provincia subirono ad opera delle truppe anglo-americane. Si era ripristinata, quindi, l’intera linea ferrata: da Napoli fino a Santa Maria Capua Vetere, ma la linea elettrica aerea era ancora in fase di ricostruzione.
Andando oltre con l'analisi storica, c'è fa dire che la "Tratta Alta", ovvero il secondo ramo della ferrovia Alifana che si sviluppava da "Biforcazione" (S.M.C.V.) fino a Piedimonte D'Alife, aveva invece subito danni ingentissimi, ben peggiori della sorella "Tratta Bassa", infatti essa era stata completamente distrutta dai temibili "guastatori tedeschi", i quali, in ritirata, avevano provveduto a far saltare, in maniera strategica e mirata, tratti estesi di binari della linea. Costoro, come è noto, cercavano con ogni mezzo di rallentare l'avanzata delle truppe anglo-americane.
Dopo la cacciata dei tedeschi dalla città di Napoli e dalla sua Provincia, le truppe di liberazione anglo-americane si insediarono nel territorio occupato, con presidi ed estesi accampamenti, in attesa del completamento della liberazione di tutta la penisola italiana e l'insediamento di un governo nazionale.
I militari compresero subito l’importanza della ferrovia "Napoli Piedimonte d'Alife", perché essa, oltre a garantire un efficace servizio di trasporto pubblico e di merci, era considerata di rilevanza militare strategica, utilissima per assicurare rapidamente i rifornimenti ai vari presidi militari, soprattutto per raggiungere i tanti loro accampamenti.
In particolare, i genieri militari americani avevano constatato che le diverse elettromotrici in dotazione della ferrovia erano state anch’esse danneggiate dai bombardamenti e, quindi, non erano rapidamente disponibili per la ripresa dell’esercizio della "Tratta Bassa", Napoli - Santa Maria; nel mentre sollecitarono l'avvio degli interventi di riparazione necessari a questi convogli e alla rete elettrica. Ben pensarono, quindi,  di iniziare a esercire la linea ferrata utilizzando per la trazione dei convogli le locomotive a vapore in uso
sulla "Tratta Alta", prima della Guerra. Oltre alle due locomotive a vapore, chiamate  “Le Meuse”, ritenute poco affidabili per il servizio di trasporto pubblico, le vaporiere disponibili erano essenzialmente quelle di costruzione Breda ("Volturno" e "Tifata"); tuttavia esse da sole non bastavano a soddisfare i tempi di percorrenza e le frequenze richieste. Quindi la carenza di motrici del parco ferroviario della Alifana spinsero i militari anglo-americani ad chiedere in prestito alle Ferrovie dello Stato una nuova locomotiva a vapore, in modo da integrare il parco disponibile.
Questa locomotiva fu l’ultima a circolare sulle linee alifane e per il minor tempo e ciò perché, essenzialmente, questa macchina servì soprattutto per scopi militari, anche se poi fu adoperata lo stesso per tutti gli altri servizi ferroviari, unitamente alle altre macchine del parco aziendale.
La nuova vaporiera, ottenuta in prestito dalle Ferrovie dello Stato ("F.S."), per volere degli alleati, arrivò trasportata su di un autocarro dell’esercito americano, a Secondigliano, nel giorno 16 gennaio 1944.
Il giorno seguente, la vecchia locomotiva Breda "V11" eseguì il suo traino,
dalla stazione di Secondigliano, sino al deposito di S. Andrea, per consentire gli opportuni collaudi ed operazioni di prova del nuovo treno. Questi si protrassero per alcuni giorni, sino al 28 dello stesse mese.
Il 28 gennaio 1944 la nuova vaporiera fu battezzata con la nuova codifica di immatricolazione: "V31", e potè eseguire il suo primo viaggio di prova sulla linea.
In seguito questa "loco" effettuò ogni tipo di viaggio: passeggeri e merci, di spinta e di manovra o semplicemente al traino del carrello di controllo di poligonazione per la linea aerea, della tratta elettrificata, ridonando un po’ di respiro alle ormai esauste locomotive che l’avevano preceduta.
Terminati i giorni ruggenti dell’immediato dopoguerra e considerato anche che le riparazioni ai mezzi elettrici danneggiati dagli eventi bellici erano terminate, oltre al fatto che il tronco a vapore ormai inservibile per le distruzioni subite era chiuso al traffico, la locomotiva a vapore "V31" fu restituita alle Ferrovie dello Stato, a mezzo del capo deposito di Caserta, e consegnata alle officine di Pietrarsa, in data 21 ottobre 1947, dopo meno di quattro anni di servizio attivo sulla linea Alifana.
Oggi, a distanza di oltre 75 anni da questo evento, immaginiamo cosa possa essere stato il nostro territorio in quel periodo, quando si componeva di estese campagne, lussureggianti di verde e con  tante masserie e paesini sparsi nell'interno di esse; osservare questo territorio attraversato giornalmente, avanti e indietro, da queste locomotive a vapore... saranno state scene che oggi possono considerarsi uniche e straordinarie e, ancor di più per: i suoni metallici dello "sferragliamento" del treno, il fischiare dei segnali acustici e il classico pennacchio di fumo nero uscente dall'alto dei comignoli delle vaporiere... Peccato non aver mai trovata nessuna testimonianza fotografica di queste scene, anche se ci è facile immaginare i vari luoghi del territorio attraversato dall'inconsueto trenino...
Il transito di locomotive a vapore sulla "Tratta Bassa", purtuttavia, non fu un avvenimento raro, e non cessò con la consegna della "V31", ma continuò nei successivi anni '50 e anche oltre: infatti le locomotive a vapore erano sovente utilizzate per il traino dei carri merci verso lo Scalo Merci di Napoli (via D. Bosco) e anche per assistere ai treni ordinari nei tratti più acclivi della linea, rappresentati soprattutto dal tronco tra Giugliano e  Marano e dai tornanti che da Piazza Carlo III portavano a Capodichino, attraverso il ponte su via Filippo Maria Briganti. Non a caso, in provincia di Napoli, molti erano coloro che chiamavano la Piedimonte anche con l'appellativo di "'O ciuccio 'a ffuoco"!
Chissà se un giorno qualche amico pittore vorrà realizzare un quadro che riprenda questa meravigliosa scena! Ovviamente ci speriamo...!
Quello che abbiamo trascritto in questo post è un racconto storico inedito (ripreso dalle cronache dell'epoca), appartenente alla grande storia della "Ferrovia Napoli Piedimonte d'Alife"!
Salvatore Fioretto

Visita alla "Meuse" (ex alifana), esposta fuori alla stazione della ferrovia Circumetnea di Catania Borgo, anno 2006