mercoledì 19 agosto 2015

I commercianti e gli ambulanti di Piscinola, dai ricordi di Luigi Sica - I^ Parte

Questi miei ricordi risalgono a persone di Piscinola che esistevano prima del 1945 ed entrano nella mia memoria di bambino e di ragazzetto. Il mio limite è rappresentato dal fatto che dal 1960 sono andato ad abitare nel centro della città e, quindi, questa mia testimonianza copre 15 anni di vita vissuta e riporta anche le memorie apprese dai più vecchi.
Foto panoramica su Piscinola (foto di Ciro Pernice)
Dopo il 1960 c’è un vuoto di venti anni, sino al 1980, quando sono ritornato a vivere il paesello natio, questo per dire che non ho memoria di tanti commercianti ed ambulanti che qui hanno esercitato il loro mestiere e lavoro dopo il 1960.
Come chiesto, seguirò traccia di costoro, riportando anche l’ubicazione toponomastica delle rispettive attività e aggiungendo qualche ricordo personale o aneddoto storico locale.
Forno a legna (foto di repertorio)
Per amore di precisione, nel mio libro "Borgo Perduto" ho già descritto com’era organizzato il Borgo in fatto di strade e piazze, ma trovo tuttora strano che su queste strade fiorissero dei commerci che hanno sempre rappresentato un qualcosa di cui non abbiamo conservato alcuna traccia, come se la perdita dell’eccelsa arte della coltivazione della campagna, della panificazione e delle arcaiche nostre tradizioni, antica conoscenza d’arti e mestieri, avesse trascinato con sé anche alcune tipicità che caratterizzavano il nostro antico borgo.
Intanto mi era poco chiaro il fatto che nella nostra realtà rurale, che conosceva a menadito la panificazione, la vinificazione, la norcineria e l’arte casearia, gli esercizi pubblici più numerosi fossero proprio i negozi alimentari: in un piccolo borgo come Piscinola se ne contavano, a mia memoria, almeno otto.
Queste salumerie vendevano legumi secchi, biscotti, pasta, formaggi, salumi, prosciutti, che acquistavano all’ingrosso per la rivendita al minuto, ma l’elemento che più le caratterizzava erano la produzione e la bontà del pane, come donna Nunziatina e donna Giulia, che avevano dei forni di proprietà e quindi erano panificatori che lavoravano e infornavano per l’intera notte e fornivano pane anche ad altri salumieri.
Donna Nunziatina, anticipando i tempi e i gusti, produsse, quasi in regime di monopolio, i primi panini, sfilatini e rosette, ossia quei  formati di pane che tornavano più comodi per preparare le merende degli operai edili e dei braccianti agricoli; pane più soffice e per taluni anche più gustoso delle eterne fette o cozzetti di pane casereccio semiraffermo, che a parecchi provocava il singhiozzo.
Forno a legna (foto di repertorio)
Difatti molti lamentano l’insorgenza del singhiozzo nel mangiare pane raffermo, tant’è vero, che talvolta si recita ancora la seguente litania: sennuzzo, va a 'o puzzo, va a 'o mare, va add’'a ’cummare, vide che te dice e vien'’a m''o dicere (tradotto: singhiozzo vai al pozzo, vai al mare, vai dalla comare (che ne doveva sapere di più) ascolta cosa ti dice e vieni a riferirmelo). Presumibilmente l’andare e venire dalla comare era un arzigogolo letterario per nascondere che il camminare, favorendo la digestione, eliminasse il fastidio.... Alcuni suggerivano di bere almeno sette sorsi d’acqua e, nei casi più insistenti, di bere molto...
La produzione di panini e di rosette, mutuata dalla panificazione francese, ebbe notevole successo e suppongo che sia stato uno dei tanti motivi per i quali in quel tempo i Biancardi erano i più floridi salumieri di Piscinola. Difatti la concorrenza, per reggere il passo, era costretta a variare l’offerta e allora don Gennaro andava a comprare il pane a Casandrino, mentre don Eugenio andava a rifornirsi a Melito o spingersi sino alle colonne di Giugliano, se non ad Aversa.
Interno di antica salumeria (foto di repertorio)
Qualcuno, più maligno e invidioso, diceva che le fortune dei salumieri di Piscinola fossero dovute al commercio che, nell'immediato dopoguerra, questi facevano attraverso gli aiuti dei "buoni" distribuiti dagli americani (Piano Marshall), ma in quel tempo bisognava capire l’americano e credo, senza offesa per i nostri negozianti, che non spiaccicassero una sola parola d’inglese, né di slang americano, invece fu il loro  nascente spirito imprenditoriale a favorire la loro affermata attività.
C'erano poi i beccai, che macellavano capi di bestiame, quasi sempre non controllati dai veterinari del macello comunale e una pletora di ambulanti che vendevano caramelle, segatura, biscotti, giocattoli, piccola biancheria; erano quasi tutti improvvisati, senza essere a regola con le leggi, ma a quei tempi, poi, non si badava tanto a queste cose... 
Gli stessi contadini vendevano, in maniera occasionale, verdure, pomodori, frutta, ortaggi, agrumi, ogni tipo di legume, uova, pollame, conigli, maiali, guanciali di maiale, pancette, salami, capicolli e soppressate, formaggi e, infine, vino fragola o d’altra qualità, abbondantemente annacquato con acqua, in palese concorrenza con i vinai ed i beccai del posto...
Forno a legna (foto di repertorio)
Come detto, si panificava tutti i giorni, in ogni cortile, e il Borgo viveva e si sosteneva di quest'attività non autorizzata, tanto che tuttora trovo inspiegabile la rimozione di un’altra arte nostrana, come quella del panificare, che doveva essere un’istituzione remota di cui non è rimasta alcuna traccia, testimonianza o memoria. Tra i tanti panificatori, c'erano: 'e Ciculella, 'e Pettola, 'o Tille, 'o Chiuppo, Francischella, Senz’ossa, 'e Sbancula, 'e ‘Mezacapa’, 'e Marotta, ..., i quali facevano anche le pizze di pomodoro e i pagnottelli napoletani.
Parlo di pane, che poteva essere una risorsa gastronomica, un piatto d’eccellenza, al pari dei prodotti che venivano dalla tradizione contadina: della macellazione dei conigli allevati in fossa o in cortile, dei polli, delle oche e dei tacchini allevati nei cortili, del maiale (da cui si ricavavano prelibati salami, prosciutti e soppressate) o della tradizione casearia, che a Piscinola, pur essendo minore, dava uno splendido prodotto, come la cagliata, così leggera e gustosa che, in questi tempi di diete leggere, tornerebbe utilissima e troverebbe gran mercato come prodotto D.O.C.G. (denominazione di origine controllata e garantita).
Macellazione del maiale (foto di repertorio)
Il venditore andava in giro con un secchio contenente la cagliata, coperto con un telo umido, a fianco del secchio c’era montato uno stecco di pioppo con infilzate delle belle foglie di fico, e procedeva nelle strade, dando una "voce di richiamo", che recitava:"‘a ’Quagliata fresca"..., e noi accorrevamo con fette di pane in mano per riceverne una porzione... Questi, toglieva il coperchio e, aiutandosi con un barattolo di lamiera sagomato all’uso, con una grande abilità, sollevava due fette sottili di cagliata e le stendeva sul pane... Non vi dico..., una leccornia così delicata che oggi nessuno vende più! Potrei rendervi la descrizione della cagliata di latte vaccino, tanto quanto dovuto tributo al compianto eccelso contadino Gennaro ’e ’Ciculella, ma per evitare pedanterie, preferisco che la cerchiate su internet... Gennaro, stagionava le sue caciotte nella grotta, dove conservava anche il vino; questo luogo, la cui umidità, che si aggirava intorno ai 5/10 gradi centigradi, sviluppava una microflora (muffa) sulla scorza del formaggio che ne conferiva un particolare sapore...  
Bottega di macelleria e salumeria (foto di repertorio)
Era un contadino a tutto tondo, don Gennaro, che sapeva fare anche un buon vino. Ricordo i suoi bianchi spumantini, ottenuti da una sapiente fermentazione, leggermente prolungata del mosto e dall’aggiunta di una percentuale di lambiccato, che faceva "maturare" in bottiglie, annegate nella sabbia, per stabilizzarne la temperatura esterna
Prima del terremoto, certe sere che stavamo nel forno di mio cognato Ciccio, panificatore dell’ultima ora, c’inventammo delle ‘mangiate per solo forno’.... partecipate da comuni amici, ora tutti laureati, non vi descrivo le pietanze..., ma ricordo Gennaro che, ispirato da Tonia, si autoinvitava, intervenendo con una messe di salami, formaggi e vini di sua produzione e, a fine cena, ci ammanniva di suoi versi e prose, il cui successivo commento svelava una partecipazione d’amorosi sensi..., inconsapevolmente elevando, improvvisamente, quelle cene frugali di forno, ad eccelsi convivi...! 
Mappa di Napoli e dei trentatré Casali, di Luigi Marchese, 1807
Per i negozi e le altre attività commerciali, inizierò dal centro di Piscinola, per andare via via sul suo perimetro:

Piazza Municipio (oggi Piazza G. B.Tafuri)
La piazza era una specie d’agorà nella quale sfociavano le vie perché era sede del Municipio (Ufficio Anagrafe, Medico Condotto, Maternità)
In senso orario – palazzo Chiarolanza: 1 farmacia e 2 cantina + tavola calda fratelli Sarnacchiaro. Chiesa S.S. Salvatore; Nel palazzo Grammatico – 3  Baccaleria, 4 Salumeria, 5 Sali, Tabacchi e Chinino di Stato, Sede Partito Comunista, 6 Cantina di Don Lorenzo e Rafilina.

1) La farmacia del dott. Raffaele Chiarolanza.
Era ubicata all'angolo della Piazza, dove ora c’è una pizzeria. La farmacia era condotta da un nipote del professore senatore omonimo, il dott. Raffele Chiarolanza. Era anche una laboratorio di erboristeria dove si approntavano preparati galenici e di erbe officinali. Anche la moglie del dott. Raffaele era laureata in farmacia e spesso fungeva da medico vero e proprio.
Palazzo e Giardino Chiarolanza (foto di S. Fioretto)
Ricordo che da ragazzi, a volte, affondavamo con le scarpe nel fango, penetrando nel fitto canneto che superava i cinque metri d’altezza, dove vedevamo strisciare bisce d’acqua, rane, rospi, girini e lente sanguisughe, che raccoglievamo in barattoli per portarle al farmacista don Raffaele Chiarolanza. Il dottore le annegava in un boccale di vetro pieno d’acqua. Subito dopo, le vedevamo risalire la parete di vetro, lente e nere. Queste sanguisughe servivano a fare i ‘salassi’ su parti del corpo ferite o infiammate, dove magari non era possibile incidere, perché la sanguisuga s’attaccava sulle parti interessate e iniziava a succhiare il "sangue infetto" e ne permetteva la purificazione. Talvolta erano necessarie diverse sanguisughe e quando erano gonfie di sangue si staccavano e si riportavano indietro alla farmacia. Spesso venivano attaccate al collo di chi soffriva di pressione alta o in tutti i casi di problemi ematici, in cui si riteneva salutare effettuare un salasso.
Veduta panoramica di Piscinola (foto di Giuseppe DiVaio)
Spesso andavamo a caccia di vipere sui ponti della Piedimonte, sia della cupa Acquarone che della cupa delle Masserie: le catturavamo scoperchiandone i nidi tra i sassi. Le vipere le portavamo a don Raffaele, che con maestria, aprendo la bocca dei rettili e premendo i denti del palato su un passino di ottone, otteneva un liquido giallastro, da cui ne ricavava un antidoto al veleno. In cambio di questo servizio, il farmacista ci regalava delle caramelle, chiamate da noi "sciù sciù" oppure una banconota di cinque lire.
Ma c'era anche donna Francischella 'a spaccalegna’ che riforniva don Raffaele di strane erbe medicinali e/o officinali, che erano solo a loro due note, utili per farne tisane, pozioni e medicamenti. Quelli che riesco a ricordare sono i semi di Lino, con i quali si facevano i famosi ‘impiastri’, capaci di succhiare e sanare il pus piocianico da foruncoli in suppurazione, da cisti, da ferite infette e da fistole, mentre con l’Ortica ed altre spezie ricavava unguenti per curare la forfora o gli eccessi seborroici del cuoio capelluto e anche le infiammazioni della cute.
Altri cari ricordi personali mi legano a don Raffaele Chiarolanza per la sua grande umanità e amicizia, ma non starò qui a raccontarli...

2) la cantina dei fratelli Sarnacchiaro (già da me descritta in dettaglio in un altro post, pubblicato nel blog qualche tempo fa, e che qui ora riassumo)
Anche i fratelli Sarnacchiaro erano cantinieri, ma il locale era strutturato a modo di trattoria, nel primo c’era il bancone di mescita dei vini, un locale cucina in muratura e quello attiguo con grandi tavole da sei posti, con tovaglie a quadroni rossi e blu. 
Banchetto estivo nel giardino della trattoria Sarnacchiario (foto Sarnacchiaro)
Dal primo locale cucina, si entrava in un minuscolo servizio e, mediante tre soli scalini, in un cortile aperto interamente coperto da tralci di glicini posti negli angoli del vasto spazio rettangolare.
In primavera quei tralci formavano un pergolato così fitto che davano ombra ed era spettacolare, tanto per il colore delicato di viola chiaro, quanto per il profumo emanato dai fiori. Era una trattoria rinomata nel Borgo ed anche fuori, talvolta, di domenica mattina dal treno della Piedimonte, sortivano gruppi e famiglie d’avventori, che chiedevano l’indicazione della Trattoria Sarnacchiaro e noi subito indicavamo l’insegna della farmacia del dott. Chiarolanza, che confinava proprio con la trattoria.
Ancora oggi che ci penso mi sembra una stranezza come in un borgo così piccolo ci fossero tante osterie, perché oltre a Don Lorenzo e ai fratelli Sarnacchiaro, c’erano ancora la trattoria dei Di Guida, in via del Plebiscito e quella dei Carmusine, in via V. Emanuele.
Foto trattoria Sarnacchiario (foto Sarnacchiaro)
La specialità dei Sarnacchiaro era la minestra maritata, che non descriverò (potete trovarla su Internet), il fritto di anguille, terrine di gnocchi con ragù e il fritto di paranza o all’italiana, che comprendeva cervello di manzo, verdure in pastella, come i sciurilli (fiori) di zucca ripieni di ricotta, panzarotti di patate, arancini e sartù di riso, la celebre ciambotta estiva, oltre il rinomato coniglio alla cacciatora, il pollo fritto con patate o al forno, la frittura di baccalà, o i bucatini alla scarpariello, le pizze di maccheroni o di maltagliati con la salsa di pomodoro e, infine, l’impagabile e inarrivabile, risotto con salsicce e friggiarelli, il fegato o il cuore con le cipolle e il sublime piatto di spaghetti, aglio, olio, prezzemolo e peperoncino, che spesso comportavano una variante, succulenta e divina, con noci nostrane, acciughe in salamoia, pane grattugiato e aspersione di prezzemolo tritato, freschissimo, appena colto dalle piantine.
Foto trattoria Sarnacchiario (foto Sarnacchiaro)
Quando cucinavano la minestra maritata, specie nei giorni di Pasqua, molte famiglie ordinavano e ritiravano la minestra preparata con carne di pollo podolico, per sei, sette pozioni ed anche di più. Credo che qui avessimo una ricchezza, paragonabile a tanti agriturismi, un tesoro di conoscenze gastronomiche tradizionali, di cui conservo memoria e tuttora propongo ai miei commensali, come gli spaghetti con le noci, che si rifletteva anche su un possibile indotto, penso anche al vino fragola (fravulella) e, di più, al grande vino Per’e’palumme (ricavato dall'uva dagli acini leggermente rosati e ricurvi, il cui vitigno era qui spontaneo) e del possibile incremento di un Asprino, leggermente meno aspro di quello aversano.
……Ebbi un barlume di speranza, quando, qualche anno fa, s’ipotizzò di portare a Piscinola una succursale della scuola alberghiera, poi confinata ad Agnano, navigai non poco con la fantasia, sulla possibilità di introdurre nei piani di studi, queste nostre specialità, così come accaduto con la cucina della costiera sorrentina o di quella puteolana e bacolese, che hanno cambiato con notevole successo la ristorazione nazionale e internazionale, con l’apporto delle filiere tradizionali rivisitate in chiave meno grassa.
Tinozzi di legno con uva (foto di repertorio)
Quest’opportunità, contornate anche da sagre locali, indette da associazioni, di concerto con Comuni e Municipalità, volte alla promulgazione di un’autentica cucina contadina o povera, non è stata mai colta. Vuoi per la tipica indolenza piscinolese, ma soprattutto per l’idiota ignoranza dei nostri politici, che non hanno saputo o voluto vedere, anche in queste semplici cose, l’occasione di un diverso possibile sviluppo economico e sociale di Piscinola. Eppure bastava vedere cosa accadeva nelle plaghe della costiera sorrentina e flegrea in generale ed, invece, hanno perseverato nell’ignoranza, non credendoci sino in fondo, come sta accadendo nei paesi e nei piccoli centri dell’area aversana, avellinese e beneventana, dove la ripresa economica si sta realizzando anche mediante una fioritura d’impresa privata che investe in agriturismi, ma soprattutto in cantine e ristoranti a medio-basso costo. Tutte attività queste che propongono proprio la riscoperta della tradizionale cucina povera contadina, anche mediante la vendita di salumi, vini, formaggi e prodotti tipici d’artigianato e richiamano sia un turismo "mordi e fuggi", che quello stanziale, cose ormai entrate nel costume di tante popolazioni nella cosiddetta era del tempo libero. 
Luigi Sica
(segue la seconda parte, nel successivo post, che pubblicheremo a breve) 
Veduta del campanile della chiesa del SS. Salvatore, dalla villa Mario Musella (S. Fioretto)
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