sabato 7 dicembre 2013

"Anni ’60: ricordi di scuola" di Anna Maria Montesano



Fotogramma di un "corto", girato alcuni giorni fa dalla troupe di "Marianella New Track", diretta da Dario De Simone
Una corsa a perdifiato, con mio fratello Peppe, giù, per la tortuosa via Vittorio Emanuele, con la speranza di prendere al volo il bus 110 che ci permette di arrivare alle rispettive scuole prima che suoni la micidiale campanella! Eccolo! Meno male, ce l’abbiamo fatta: il bus non è ancora partito ed è già tutto pieno; sperare di sedersi per ripetere, con tutta calma, il capitolo di filosofia studiato male è pura follia. Il conducente fa per mettere in moto ma gli gridiamo di aspettare perché, all’ultimo momento, sbuca in piazza qualche scalmanata studentessa ritardataria. Sale, si parte. Mi guardo intorno e incontro il viso sorridente di Mimmo Salzano che ha già cominciato a raccontare le sue barzellette sconce, fra il divertimento generale; accanto, sua cugina, Maria Cascella, infastidita, cerca di ignorarlo.

Alla prima fermata di via Vittorio Veneto, imbarchiamo il grosso della “truppa”, la schiera dei Palladino: Lia, che fa subito capannello con Mimmo e Maria; Enza e Tonino, contraddistinti dal misterioso “contranome” di “Bottone”; Teresa e la sua grassottella cugina Enza; quest’ultima fa sentire subito la sua presenza con una voce talmente squillante che, quando non c’è, si mormora in coro la celebre allitterazione “Che silenzio senz’Enzina”. Mentre il bus riparte, notiamo mia sorella Carmela, che proviene da casa di nonna Carmiluccia ‘mmiez’a vianova, e Franco Di Guida correre inutilmente alla fermata: sono i soliti ritardatari e gli toccherà aspettare l’autobus seguente, arrivando a scuola mentre il custode sta chiudendo il portone; con la coda dell’occhio, vediamo Franco che, nella fretta, va a sbattere contro un palo e ci ricordiamo della volta in cui, durante la solita corsa, gli è sfuggito il vocabolario di latino che è stato stritolato dalle ruote del bus; questi due scatenano, come sempre, l’ilarità generale. Quasi alla fine di via Vittorio Veneto, salgono i miei due cugini, Peppino e Renato, sempre insieme, sempre riservati e composti. Ormai, il gruppo dei fedelissimi è al gran completo e veleggiamo verso Capodimonte fra risate, chiacchiere, frettolose ripetizioni e primi innamoramenti; qualcuno tace, preoccupato per il compito in classe; Mimì Lanzuise, che noi chiamiamo “fisico bello” per la sua forma atletica evidenziata da una rigida camminata, parla con fervore dell’ultima partita di basket; Carmine Severino e altri studenti più grandi ascoltano sorridendo.
Piscinola vista dall'alto  (foto di Ciro Pernice)
A parecchi amici noi ragazze abbiamo affibbiato dei soprannomi per sottolineare qualche particolare caratteristica o per parlare di loro in piena libertà, con una sorta di linguaggio segreto; ma i maschi, per fortuna, non lo sanno. All’altezza di Porta piccola, i primi rallentamenti del traffico; aspettiamo la svolta ai giardini della principessa Iolanda, il Tondo, che si apre sulla lunga via S.Teresa degli scalzi, per fare il punto della situazione: scendere o no? Dall’alto del bus si intravede uno scoraggiante mare di auto. Si scende in massa e ci si scapicolla giù per la strada fino ad arrivare al Museo senza fiato. Qui, con grande rammarico, ci dividiamo: chi si dirige verso via Foria, chi continua verso piazza Dante.
Automobili e autobus fermi in via Santa Teresa al Museo, foto inizi anni '70
La discesa per via Pessina è un po’ pericolosa quando piove, tant’è che mio fratello Peppe, giorni fa, per colpa delle suole lisce delle scarpe nuove, se l’è fatta tutta in scivolata e non è riuscito a fermarsi neanche quando ha incontrato mia cugina Rosetta che proveniva dalla direzione opposta ed ha cercato inutilmente di trattenerlo. Io, Lia, Mimmo, mio cugino Peppe e mio fratello ci dirigiamo, poi, alla volta di piazza del Gesù nuovo, dove ci attendono il liceo Genovesi e il magistrale Pimentel Fonseca. E’ raro che arriviamo in anticipo o che mia sorella non faccia ritardo; in questi casi, ci rechiamo nella chiesa del Gesù nuovo per una breve ma fervida preghiera davanti all’altare di Giuseppe Moscati, non ancora santo; ci affidiamo a lui per ottenere i nostri piccoli successi scolastici o per evitare un’interrogazione sgradita. Quando, invece, come accade spesso, arriviamo in classe che il professore è già entrato, al suo rimprovero basta rispondere: «Ma, professore, io vengo da Piscinola!» per ottenere una rapida assoluzione; i nostri docenti, infatti, ignorano dove sia questa Piscinola, la immaginano in capo al mondo e non sanno che, magari, è molto più arduo raggiungere il centro storico dal Vomero, da Posillipo o Capodichino. 

Incontro di basket della Virtus Piscinola sul campo  in via Cupa Acquarola

Ho indossato il regolamentare grembiule nero e mi sono appena seduta quando timidamente bussa alla porta mia sorella chiedendo il permesso di parlarmi per “questioni di estrema importanza”; «Cacci’o panino!», mi sussurra e, mentre glielo passo, il severo professore sorride sotto i baffi; questo panino, che porto da casa anche per lei, imbottito di mortadella o di pancetta, è motivo di frequenti discussioni: Carmela lo divora seduta stante; invece io, spesso, lo dimentico, intatto, sotto il banco; quando me ne ricordo all’uscita di scuola e lo racconto a mia sorella, mentre percorriamo via Cisterna dell’olio e il profumo di cioccolato della fabbrica Gallucci ci manda quasi in deliquio, Carmela mi squadra con ferocia e vorrebbe tornare in classe a recuperare il prezioso involto. Mimmo si inserisce nella discussione, raccontando che il suo panino gli è puntualmente sottratto dai compagni di classe a cui chiede, ogni giorno  inutilmente, di lasciargli almeno il “chiricuoccolo”, vale a dire la parte centrale della fragrante rosetta. Fatte le debite eccezioni, il grande appetito mai soddisfatto accomuna la schiera degli adolescenti piscinolesi, tant’è che le 200 lire, che ci rimangono dalle 1000 che i genitori ci danno per l’acquisto dell’abbonamento ATAN alla galleria principe Umberto, le spendiamo allegramente in zeppolelle e panzarotti alla vicina friggitoria. E pensare che queste 200 lire sono l’unica paghetta che a me e a mia sorella è concessa in tutto il mese! Dopo la faticosa mattinata scolastica, rifacciamo il percorso inverso, direzione Museo; non ci fermiamo quasi mai alla fermata di piazza Dante, in attesa del rarissimo 110 rosso proveniente da piazza Plebiscito, preferendo riunirci al gruppo degli amici. Li troviamo tutti lì, più rilassati e, se è possibile, ancora più chiacchieroni e confusionari.
Il complesso musicale dei  "Wanted Group" di Piscinola
Ecco il bus che ci riporta a casa: è affollato fino all’inverosimile e a qualcuno toccherà viaggiare appeso allo “staffone”, cioè sul predellino, ma a nessuno viene in mente di restare a terra: abbiamo fretta di tornare a casa; e così, ci ficchiamo nella calca, incuranti delle righe da disegno che ci minacciano gli occhi, dei pestoni e dei grevi odori; se, poi, qualche sporcaccione approfitta della folla per fare la “mano morta”, c’è quasi sempre un amico che, cavallerescamente, ci si piazza accanto, mandando occhiate di fuoco tutt’intorno. A volte, costrette e isolate in un angoletto, io e Carmela, per passare il tempo in allegria, decidiamo di parlarci esclusivamente in latino oppure utilizzando una sola delle vocali; a chi ci sta intorno sembreremo delle deficienti ma noi ci sganasciamo dalle risate, nella leggera spensieratezza della verde età. Eccoci a Piscinola; man mano, ognuno scende alla sua fermata e, poi, finalmente, il bus arriva in piazza Tafuri; ci si dirige verso casa, chi abbascio Miano, chi o’ cap’a chianca, chi o’ cap’e coppa; una pasta e fagioli fumante, preparata con una sapiente “allacciata” di lardo e da mangiare, magari, con una sfoglia di cipolla a fare da cucchiaio, ci attende sulla tavola. Ciao, amici, a domani!



Concerto musicale presso il campo sportivo di basket in via Cupa Acquarola a Piscinola
P.S.: Ho citato solo alcuni dei giovani frequentatori del mitico 110; erano talmente numerosi che sarebbe stato arduo elencarli tutti; mi sono limitata, pertanto, ad un ristretto campionario. A tutti gli altri compagni di viaggio un affettuoso saluto da

AnnaMaria Montesano


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mercoledì 4 dicembre 2013

Una breve storia della Ferrovia Napoli-Piedimonte d'Alife


Locomotiva a vapore Breda, denominata "Tifata", foto anni '50
Già pensata e progettata nel lontano 1880, la ferrovia "Napoli-Piedimonte d’Alife", dopo alterne vicende storiche, viene finalmente inaugurata il 30 marzo 1913, poco più di cent'anni fa..., nella tratta "Napoli-Santa Maria Capua Vetere - Capua (CE)" e completata nell’anno seguente nella tratta "Biforcazione - Piedimonte d’Alife (CE)".
La società costruttrice e gerente della ferrovia è una compagnia francese, appositamente costituita a Parigi, denominata: “Chemins de Fer du Midi et Italie” (CFMI).
La ferrovia viene suddivisa fin dalle sue origini in due tratte per ragioni costruttive e di esercizio: la tratta cosiddetta “Tratta Bassa”, a scartamento ridotto italiano (950 mm) a trazione elettrica (11000 V e 25 Hz), con partenza da Napoli centro (Piazza Carlo III) e terminale a Capua, passando per i centri popolosi di Secondigliano, Piscinola, Marano, Mugnano, Giugliano, Aversa e Santa Maria Capua Vetere (in quest'ultima con 4 stazioni); mentre, la “Tratta Alta”, anch’essa a scartamento ridotto, ma con trazione a vapore, con partenza da Santa Maria Capua Vetere (Stazione di Biforcazione) e terminale a Piedimonte d’Alife, attraversando i centri rinomati dal punto di vista paesaggistico e culturale, come: S. Angelo in Formis, Caiazzo, Pontelatone, Piana e Alife. 
La "Piedimonte" in un dipinto dal maestro L. Russo
Nell'anno 1923 la ferrovia “passa” sotto la “Gestione Commissariale Governativa, con il titolo di FNP  (Ferrovia Napoli-Piedimonte) e costituisce, fino alla seconda guerra mondiale, un volano di sviluppo socio-economico che favorirà l’accrescimento economico della popolazione e gli scambi commerciali tra i centri manifatturieri di Piedimonte e Capua con la provincia napoletana, allora piana fertilissima, con abbondante produzione di frutta prelibata e colture d’ogni genere.
La seconda guerra mondiale determinerà ingenti danni alla “tratta alta”, tanto che la ferrovia sarà sospesa all’esercizio per quasi venti anni. Solo a partire dal 1963 la “Tratta Alta” viene ricostruita su un nuovo tracciato a scartamento ordinario e collegata alla rete delle Ferrovie dello Stato, nella stazione di Santa Maria Capua Vetere. 
La nuova ferrovia viene esercita con automotrici diesel di costruzione OM (Aln 880, Aln 668, Aln 773).
Copertina del nuovo libro "Comm'era bella 'a Piedimonte!"
Dal 1969 la ferrovia “passa” sotto la gestione “TPN” (Tranvie Provinciali Napoletane), che dopo qualche decennio diventerà “CTP”. Dal 1986 la ferrovia ripassa di nuovo sotto la Gestione Commissariale Governativa, ridiventando FNP, ma chiamandosi di fatto “Ferrovia Alifana”.
Nel frattempo (anni '70), la cittadina di Piedimonte ha mutata la sua denominazione in "Piedimonte Matese". La “Tratta Bassa” sarà esercita notevolmente ridotta nel percorso originario, fino al mese di febbraio 1976, quando per mancanza di manutenzione e per l’accresciuto fabbisogno di utenza dei centri napoletani, che iniziarono a espandersi in maniera vertiginosa, verrà chiusa all’esercizio in attesa della sua riqualificazione generale.
Elettromotrice da manovra, AEG - Thomson Houston
A distanza di 33 anni, nel mese di aprile 2009 è stata inaugurata la prima tratta di questa opera: la "Piscinola-Scampia (Napoli) - Aversa Centro", lunga 10,5 km, con caratteristiche metropolitane, che e’ stata battezzata per le sue caratteristiche “La prima metropolitana interprovinciale d’Italia”.
Gli altri rami di connessione sono in costruzione, in particolare quello per collegare la ferrovia alla costruenda rete di metropolitana regionale: con la linea 1 del metrò di Napoli, fino a Capodichino, (da un lato) e con la stazione di Santa Maria Capua Vetere, (dall’altro lato).
Oggi la ferrovia si chiama "Metrocampania NordEst" e viene cogestita interamente da una società partecipata, insieme alla  ferrovia: "Napoli - Benevento - Cancello".
Salvatore Fioretto
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A sinistra la tratta bassa e a destra quella alta, tratte da
www.lestrade
ferrate.it
 di Rosario Serafino
Stazione di Piscinola della nuova ferrovia MetroCampania NordEst


domenica 1 dicembre 2013

I miei ricordi, tra i personaggi di un tempo...! Di P. di Fenzo



Paesaggio agreste da Capodimonte
Se vi capita di fare l'intero percorso della linea del Metro collinare e scendere al capolinea "Piscinola-Secondigliano", sappiate che proprio dove adesso sorge la moderna stazione di Piscinola si trovava la stazione della ferrovia Alifana (ferrovia Napoli-Piedimonte d'Alife), da noi chiamata "'a Piedimonte". L'edificio sembrava una piccola villetta unifamiliare, dove il capostazione e la sua famiglia vivevano circondati da rose di un profumo così intenso, che quando passo da queste parti mi sembra ancora di inebriarmi il cuore e la mente. Non le narici, purtroppo! Non era raro vedere la moglie o altri familiari del capostazione manovrare gli scambi manualmente, ferri muniti di un anello finale ed inclinati in modo da sembrare dei piccoli omini di metallo, eternamente al lavoro. Forse facevano parte anch'essi della famiglia del ferroviere. Chissà? Il trenino, con una o due carrozze vi sostava per diversi minuti, in attesa dell'interscambio col treno proveniente dalla direzione opposta, la linea era a binario unico e a scartamento ridotto. Inoltre le fermate precedenti e seguenti Piscinola, cioè Miano e Mugnano, non avevano possibilità di scambio. Una sola volta, era il 1974, mi capitò di effettuare l'intero percorso, fino a Santa Maria Capua Vetere: fu interminabile ma non ci si annoiava, il trenino procedeva in quel "Mare verde" delicatamente, come la lama di un coltello, che affonda dolcemente in un'invitante torta di panna. Se adesso da quel posto si guarda verso Scampia, si nota che esiste un dislivello di una decina di metri rispetto alla stazione e al Villaggio di Piscinola (perdonatemi se continuo a chiamarlo così).
Treno della ferrovia Napoli-Piedimonte d'Alife, in una composizione artistica (S. F.)
I grandi cervelloni che ci regalarono questo scempio, non pensarono neanche lontanamente di poter costruire una via di collegamento diretto col centro del paese, né pedonale, né tantomeno carrabile. Cosa di cui usufruivano i contadini di una volta, su carri trainati da muli, asini o cavalli. Faticavano dall'alba al tramonto nei loro campi, immensi, aperti, cioè "scampiati", da cui Scampia. Le donne restavano a casa per le faccende domestiche e per cucinare. Nella tarda mattinata si recavano anch'esse in campagna, a piedi, con ceste colme di vivande, tenute miracolosamente in equilibrio sulla testa, non avevano neanche bisogno delle mani, che usavano per portare fiaschi impagliati con vino "Per''e palummo", tipico della zona. Un dolce ma costante pendio li immetteva ai campi attravero i "lemmeti", il primo dei quali apparteneva ai "Ficaiola" la famiglia della giovane Giuseppina Bianco, di cui è in corso la causa di beatificazione. Fu uccisa nella campagne di Scampia con un colpo di fucile sparato da un soldato di cui non fu mai identificata neanche la nazionalità, durante l'ultima guerra, e sotto gli occhi atterriti della madre e dei fratelli. Il "Lemmeto de' Ficaiola" era l'ultimo ad essere percorso al ritorno, per cui una volta imboccato, quando da lontano si intravedeva la cima del campanile, si era consapevoli di essere quasi giunti a casa. Ecco che, l'espressione tipicamente piscinolese: "...me so' miso int'o lemmeto 'e Ficaiola!", assurge, per traslato, al significato di "...Ho quasi portato a termine il lavoro!", un qualsiasi lavoro. Certo oggi è un'espressione in disuso, solo alcuni anziani se ne ricordano il significato. I lemmeti delimitavano l'intera zona, conosciuta come lo "Smeraldo Verde", in tanti poderi dove per lo più i piscinolesi fungevano da coloni. Le nobili famiglie proprietarie dei fondi si chiamavano Grammatico, De Luna, Del Forno, De Liguori, che diede i natali nella vicina Marianella a S. Alfonso Maria de' Liguori. I campi erano costeggiati da alte vigne e da frutteti che donavano frutti che non si trovavano in nessun altra parte della Campania e forse d'Italia.
Mappa dei casali di Napoli, del secolo XVIII
I contadini piscinolesi erano maestri nell'arte dello '"nzierto": Zi Peppe, colono di Don Mimì Del forno, nonché zio di mia madre, prima di morire fece in tempo a regalare un capolavoro di agronomia a mio padre. "Nzertò" (innestò) una pianta di arance selvatiche, bellissime da vedere, ma amarissime al gusto, buone solo per marmellate. Riuscì ad ottenere un albero di limoni che fioriva e dava frutti tutto l'anno, però con una particolarità: lasciò un unico ramo al di sotto dell'innesto che col tempo arrivò a ergersi, lungo e dritto, fino a sormontare praticamente l'intera pianta, ma continuando però a produrre arance. Un vero miracolo della natura, con frutti gialli e arancioni contemporaneamente sullo stesso albero. Uno spettacolo che mi sono goduto fino a una ventina di anni fa, quando un giardiniere imbecille, a mia insaputa, tagliò quell'unico ramo, che a detta sua toglieva forza alla pianta. Nel giro di pochi mesi quell'alberò morì: "'A pianta s'ha pigliato collera" sentenziò un vecchio contadino che avevo interpellato per cercare di salvare il salvabile. E forse si pigliarono collera pure papà e Zi' Peppe, e fu come dare loro l'addio di nuovo, stavolta definitivamente. Mi è rimasto il rammarico di non avere mai fatto una foto a quella pianta, ma molti dei miei amici se la ricordano ancora. Perché, quando ricevevo una visita, correva l'obbligo mostrare orgogliosamente quell'albero delle meraviglie. Un po’ come fa Luca Cupiello: "Te piace 'o presepio?".
Mio zio Giuseppe,  che chiamavo Zi Peppe, oltre a essere il colono di Don Mimì Del Forno, era anche il suo uomo di fiducia, qualcuno più anziano se lo ricorderà come "Peppe 'o Guardiano". La casa colonica che occupava con la moglie (Zi' Jolanda, quattro figlie femmine e l'unico maschio, Carminiello, mio coetaneo e compagno di giochi) si trovava a meno di cento metri da quella che è oggi il Rudere di epoca Romana che campeggia al centro di Scampia. La "Casa degli spiriti" la chiamavano i grandi, a noi bambini dicevano che fosse infestata dai serpenti, forse per indurci a starne lontano ed evitare rovinose cadute, essendo essa posta a quasi cinque metri sotto il livello stradale. 
Era pure cacciatore, Zi' Peppe, ma non per diletto, per necessità. E per fame. La dieta, rigorosamente vegetariana, veniva interrotta solo in caso contemporaneo di malattia di un membro della famiglia e qualche gallina. La convalescenza dava diritto al brodo di gallina. A patto però che la gallina fosse vecchia e malata: non si poteva sacrificare una fonte di uova, sicura e giornaliera. Una volta Zì Peppe, uccise con un solo colpo e dopo lunghi appostamenti, una volpe e i suoi volpacchiotti che facevano strage delle sue preziose galline e che probabilmente finirono al forno spacciate per coniglio. Le volpi, non le galline. Zi' Peppe, sparava un solo colpo, massimo due. Benché provvedesse personalmente a caricare in economia le cartucce con polvere e pallini, il costo restava sempre elevato. Aspettava che gli uccelli si alzassero a stormo e ne tirava giù a decine alla volta. Ricordo che noi bambini piangevamo per quelle stragi di innocenti (in caso fortunato si trattava di piccioni), ma poi, dimentichi e affamati, partecipavamo comunque al banchetto...
Oggi ne parlo con nostalgia, anche se uno dei problemi di allora era quello di mettere assieme almeno un pasto decente al giorno. E non sempre ci si riusciva...!
La terra bastava da sola con i suoi prodotti a soddisfare i bisogni dell'intera famiglia: verdure, patate, legumi e granaglie non mancavano mai a tavola. Anche i funghi abbondavano sui numerosi pioppi presenti nella zona, e che fungevano da sostegno per le alti viti d'uva Per''e palummo. Il nostro dessert era costituito da fragole selvatiche e da squisite more che crescevano spontanee sui rovi lungo le siepi divisorie tra i vari poderi. Praticamente quel poco che avevamo ci bastava.
Ripensandoci, allora apparentemente non avevamo molto, ma in effetti avevamo tutto quello che ci serviva... Oggi, invece, che abbiamo tutto, ci mancano proprio quelle piccole cose di allora, che avevamo naturalmente, tanto da non capire quanto fossero preziose....!
Pasquale Di Fenzo
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