sabato 27 settembre 2014

Quando la bionda nasceva in collina...a Miano!




Veduta dall'alto dello stabilimento, con panoramica sull'abitato di Miano

Napoli vanta un'antica tradizione nella produzione della birra: è stata un importante centro di produzione della famosa "bionda", forse tra i più antichi d'Italia...
Inizialmente gli impianti esistenti erano di dimensioni modeste e limitati ad alcuni monasteri e piccole imprese a conduzione familiare, anche per la difficoltà di creare e conservare il "freddo", importantissimo per la produzione della birra su scala industriale.
Veduta dall'alto della vecchia birreria a Capodimonte. In alto a destra s'intravede la Reggia di Capodimonte

Fu la famiglia Peroni a impiantare un primo stabilimento italiano di produzione della birra a carattere industriale, a Vigevano nell'anno 1846, ma la svolta produttiva si ebbe nel 1905, quando i fratelli Giovanni e Cesare Peroni, dopo attenti studi ed esperienze intraprese oltralpe, in particolare presso gli esperti maestri birrai tedeschi, introdussero in Italia l'arte di fare birra "a bassa fermentazione". 
Foto notturna interna allo stabilimento di Miano
Negli anni che seguirono i Peroni ebbero un notevole successo, fino ad acquisire diverse piccole realtà produttive italiane, come le preesistenti "Birrerie Meridionali di Napoli", che a partire dal 1930 furono rinominate in "Birra Peroni Meridionale". La sede dello stabilimento napoletano era impiantata a Capodimonte, al corso Amedeo di Savoia, nel luogo dove oggi sorge un grosso condominio di abitazioni private. Ma lo stabilimento di Capodimonte si mostrò subito insufficiente per la aumentata richiesta di produzione di birra, anche perché non consentiva la possibilità di una espansione produttiva.
Corso A. Di Savoia con a lato il muro del vecchio stabilimento
Si decise quindi per la delocalizzazione dello stabilimento. Fu Franco Peroni a far costruire a Miano il birrificio più moderno dell’epoca, che fu completato e inaugurato, a distanza di pochi anni, nel 1953. La zona era allora ancora una parte periferica della città di Napoli dedita prevalentemente all'agricoltura.
Lo stabilimento napoletano era avveneristico per l'epoca, perché dotato di ampi e moderni locali e capannoni, impianti di produzione e di imbottigliamento a ciclo continuo e ben quattro pozzi di notevoli profondità, che lo rendevano autonomo per il fabbisogno di acqua. In ricordo del fondatore, Franco Peroni, nei giardini del bel parco interno allo stabilimento fu realizzata una bella fontana artistica.
Stabilimento di Miano in costruzione, vasca di fermentazione
In prossimità dell'ingresso principale fu costruita la "Terrazza Peroni": un locale pizzeria/birreria, con una vasta terrazza all'aperto, dove era possibile gustare, in ogni periodo dell'anno, la birra "alla spina" prodotta nel vicino stabilimento. La Terrazza Peroni ebbe un grande successo, moltissimi infatti erano gli avventori che provenivano da ogni parte della città e anche da fuori provincia, giunti in questo locale per trascorrere una serata spensierata tra amici e parenti, all'insegna della buona birra italiana.
Edificio con le vasche di fermentazione della birra
A pochi anni di distanza furono inaugurati in Italia altri tre importanti stabilimenti: nel 1963 a Bari, nel 1971 a Roma e nel 1973 a Padova. Nel 1963 la "Birra Peroni" ebbe un grosso salto di qualità, con la creazione, nel proprio ambito industriale, del marchio "Nastro Azzurro": una qualità di birra che riscosse subito un grande successo in Italia ed all'estero.
Gli anni ‘70-’80 registrarono la crescita delle esportazioni e l'affermazione della birra italiana sui mercati esteri, fino a raggiungere gli Stati Uniti d'America.
Nell'ultimo ventennio del secolo scorso lo scenario europeo e mondiale è cambiato notevolmente a causa del mercato globale, che impone sostenute forme di concorrenza, specie con i nascenti mercati asiatici...
Reparto di imbottigliamento di Miano, foto anni '60
Nel 1984, per reggere il passo, furono chiusi diversi depositi e stabilimenti italiani della Peroni, come quello di Livorno, mentre la produzione restava concentrata solo negli stabilimenti di Roma, Napoli, Bari e Padova.
Arriva, infine, il tempo delle "multinazionali" anche nel campo della produzione birraia in Italia...! Nel 2003, l'ultima discendente della famiglia Peroni vende la maggioranza delle azioni a una multinazionale sudafricana. 
Nel 2005 chiude lo stabilimento di Miano, giudicato dai dirigenti poco strategico per gli obiettivi industriali e commerciali del nascente gruppo.
Veduta dall'alto dello stabilimento di Miano


La chiusura dello stabilimento di Miano segna, purtroppo, la fine dell'unica realtà produttiva di grande respiro esistente nel territorio a nord di Napoli, che forniva lavoro a oltre 150 dipendenti, con grandi ripercussioni anche su un vasto indotto, esteso a tutta l'area napoletana.
A distanza di tempo, l'area dell'ex fabbrica di Miano attende la conclusione dell'intervento di ristrutturazione urbanistica, allo stato messo in cantiere, che prevede la realizzazione di un albergo, di civili abitazioni, di un centro commerciale, di una scuola, di una palestra e di un parco pubblico.  

Salvatore Fioretto 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente) 
 
                                                     Cartoline d'epoca con la vedute dall'alto dello stabilimento e di Miano
 



N.B.: Le foto riportate in questo post sono state liberamente ricavate da alcuni siti web, ove erano pubblicate. Esse sono state inserite in questa pagina di storia della città, unicamente per la libera divulgazione della cultura, senza alcun secondo fine o scopo di lucro.

domenica 21 settembre 2014

Il brigante partigiano, Alfonso Cerullo....



La storia, come è noto, la scrivono i vincitori e così molti combattenti e partigiani, pur avendo sacrificato la loro vita o pagato un alto prezzo per il loro sacrificio, sono oggi ignorati e lasciati nell'oblio del dimenticatoio, solo perché hanno combattuto dalla parte sbagliata... 
Disegno di brigante con famiglia
In questo post desidero ricordare il partigiano Alfonso Cerullo e tanti altri combattenti, che perseguirono il loro ideale patriottico, quando il re Francesco II di Borbone si arrese all'esercito piemontese e riparò nella vicina città di Roma. 
Anche Alfonso Cerullo, che fu caporale della gendarmeria dell'esercito borbonico, con stanziamento negli Abruzzi,  preferì essere fedele fino in fondo al suo Re, piuttosto che subire le condizioni di una resa disonorevole, imposte da parte dell'invasore piemontese o, peggio ancora, combattere per un diverso ideale, non sentito proprio.
Alfonso Cerullo era nato nella vicina cittadina di Marano di Napoli, nell'anno 1837. Della sua infanzia e giovinezza sappiamo purtroppo ben poco; quando si disputava l'ultima battaglia a Gaeta, contro l'esercito piemontese, aveva soli 23 anni. Dopo la disfatta di Gaeta, avvenuta il 13 febbraio 1861, si rifugiò dapprima a Roma e poi fece ritorno nella sua cittadina natale, trovando rifugio nella Masseria del Castagneto, luogo ove lavorava il suo caro padre.
Disegno di brigante
Intanto, firmata la resa, l’esercito borbonico si sciolse. Molti soldati furono imprigionati o deportati su tutto il territorio nazionale o addirittura segregati nei lager sabaudi, come in quello famoso di Fenestrelle: si dice che qui furono massacrati molti prigionieri per evitare una possibile ricostituzione dell'esercito avversario...
Erano anche molti coloro che fuggendo o dandosi alla macchia, cercavano di trovare un punto di riferimento, ma rimasero dei poveri sbandati, tentando solo di ritornare alle proprie case. 
In quei mesi tanti ex soldati filo-borbonici o semplici simpatizzanti alla corona, cercarono di riunirsi in bande da essi organizzate alla meglio. Questi ex soldati, giurando fedeltà incondizionata alla reale casa borbonica, sfidavano la gendarmeria piemontese, riparando nelle masserie in cerca di cibo e di vettovaglie. Poi assalivano i presidi militati nei Casali, per eliminare i simboli del "nuovo conquistatore". In tanti erano coloro che finanziavano questi gruppi di rivoltosi, che potremmo chiamare "partigiani", passati invece alla storia con l'infame nome di "briganti".
I luoghi di rifugio preferiti dai rivoltosi erano senz’altro i boschi, visto che la conformazione del territorio di allora lo permetteva tranquillamente: dai Camaldoli al Lago Patria, da Piscinola a Chiaiano e a Marano, le bande di briganti agivano attraversando chilometri e chilometri di selve e poderi agricoli, riparandosi la notte tra i ruderi di masserie abbandonate o pagliai. Anche nelle grotte della Selva di Chiaiano c'erano molti loro nascondigli, tant'è che ancora oggi una di queste grotte è chiamata Grotta del Brigante.
Foto di donna brigantessa
Visto il crescente numero di bande, Vittorio Emanuele ordinò al generale Cialdini una massiccia loro repressione. La caccia ai cosiddetti briganti fu spietata, il governo piemontese mise in campo circa cinquemila uomini per stanarli, oltre alle forze locali e ai Carabinieri, che nel 1861 furono stanziati nei Comuni del Circondario di Napoli e dintorni.
Alfonso Cerullo riuscì, in un primo momento, a fuggire a un tentativo di  accerchiamento da parte dei piemontesi, che erano giunti sulle sue tracce, a causa di una vile soffiata di suoi conoscenti. Si rifugiò, quindi, nelle campagne tra Chiaiano e Marianella, dandosi alla macchia nei boschi e nei castagneti della Selva.
Insieme ad altri reduci del deposto esercito borbonico, organizzò, poi, una piccola banda di partigiani, che era tra l'altro sostenuta dai proprietari di alcuni fondi e dai contadini del posto, i quali rifornivano il gruppo di vettovaglie e di viveri necessari. Alfonso venne, dopo poco, eletto capobanda, per la padronanza che dimostrava nella scrittura, nel leggere e anche nell'organizzare azioni di guerriglia.
Foto di brigante
Si narra che una grande bandiera bianca con lo stemma borbonico, confezionata dalle abili mani di alcune tessitrici di Mugnano, fu consegnata al maranese mentre si trovava a passare in detto Casale e che il vessillo fu innalzato su di un alto albero nel bosco della collina dell’Eremo dei Camaldoli, risultante visibile da molti paesi sottostanti. 
Con il passare di poco tempo la banda del Cerullo divenne alquanto numerosa,  per l'aggregarsi di altri sbandati, compiendo numerose scorrerie e saccheggi e raggiungendo le postazioni della Guardia Nazionale. Il gruppo rastrellava fucili e munizioni, abbatteva gli stemmi sabaudi sulle caserme e distruggeva i ritratti dei nuovi sovrani conquistatori. 
Ma in quel periodo erano numerose le bande di briganti operanti nell'intero comprensorio a nord di Napoli, in particolare a Mugnano, a Marano, a Marianella, a Polvica e nella stressa Piscinola. In una testimonianza rinvenuta nella pubblicazione: "Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato", Volume 1 dell'anno 1863, si legge: "La sottopretura di Casoria fa presente la necessità di istituire in Piscinola una stazione di Carabinieri contro il pericolo rappresentato da una banda di Briganti in via di organizzazione".
La situazione divenne presto preoccupante e i piemontesi istituirono dei presidi con guarnigioni del corpo dei Regi Carabinieri, già trasformati in Arma nell'anno 1861.
Ci furono molte operazioni di rastrellamento nella zona a nord di Napoli e principalmente tra Marano e Chiaiano, dove interi reparti di soldati della Guardia Nazionale, dei Carabinieri e dei Bersaglieri operarono in maniera coordinata.

Foto di brigante
Alla Banda del Cerullo furono attributi dai piemontesi diverse rappresaglie, con uccisione di alcuni soldati del neo costituito esercito sabaudo, come a Qualiano e a Giugliano, nel 1863. Accuse che Cerullo e compagni respinsero sempre energicamente.
C'è da ricordare che questi combattenti era incoraggiati a proseguire il loro operato patriottico da molti sostenitori del deposto Regno, tra i quali un certo Macedonio Di Maria, che fu sarto in Marano. Questo sostenitore riforniva gli insurrezionisti di armi e di vettovaglie. In molti erano anche coloro che esortavano i rivoltosi a resistere per l'ormai imminente ritorno di Francesco II sul trono di Napoli.
La compagnia di cui aveva il comando il Cerullo in breve tempo fu composta da circa cinquanta persone: tra i quali una decina provenienti da Mugnano, alcuni da Villaricca, altri da Giugliano, da Napoli e un significativo numero originario di Marano. 
Stanco delle solite rappresaglie e saccheggi e forse deluso del mancato ritorno del Monarca borbonico, Cerullo si dimise da capobanda e ritornò a vagare da solo nei boschi di Marano; poi ebbe modo di rifugiarsi in un piccolo locale messo a disposizione della sorella. Consigliato da alcuni falsi amici a non rimanere in quel luogo, perché esponeva anche la famiglia alle rappresaglie dei soldati, meditò di fuggire per Roma.
Il giorno 26 novembre del 1864 un certo Lucchesi Michele, presentatosi presso la Questura di Napoli, informò i militari di come e dove potevano rintracciare il ricercato. Infatti lo arrestarono al posto di Dogana, sulla strada Santa Maria a Cubito, nella località del Frullone (nei pressi della Taverna del Portone) e fu rinchiuso in Castel Capuano. Sottoposto a perquisizione, gli trovano addosso un fucile, una pistola, le munizioni e un coltello da caccia.

Disegno di brigante
Ecco uno stralcio dell’interrogatorio del Cerullo, tratto dall’opera di Domenico Barberi “Il Brigantaggio post-unitario a Nord di Napoli”, in cui si spiegano i motivi dell’appartenenza alla sua compagnia di alcuni adepti, e la richiesta di cibo nelle scorribande, operata solo per il proprio sostentamento..: «…la differenza consisteva in ciò che quelli non avevano nessun altro motivo che li spingeva alla campagna e fare i Briganti, fuorché quello di rubare, e mentre esso invece ed altri suoi compagni erano obbligati stare alla campagna perché, soldati sbandati, e disertori e ricercati dalla forza pubblica, e quindi mentre i primi avrebbero voluto fare bottini essi tendevano soltanto a procurarsi il proprio sostentamento…»..

Alfonso Cerullo, dopo aver scontato una pena di 25 anni di prigione, morì a Marano il 29 marzo del 1890, all’età di 53 anni. 


Alla Sua memoria, come ad altri combattenti, non è stato dedicato nessun monumento o epigrafe civica.
Salvatore Fioretto
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

La Grotta del Brigante nella Selva di Chiaiano


N.B.: Le foto riportate in questo post sono state liberamente ricavate da alcuni siti web, ove erano pubblicate. Esse sono state inserite in questa pagina di storia della città, unicamente per la libera divulgazione della cultura, senza alcun secondo fine o scopo di lucro.