mercoledì 30 marzo 2016

"I ruderi di via Tancredi Galimberti", di Salvatore Tofano


Se vi trovate a passare per via Tancredi Galimberti, nel popoloso e bistrattato quartiere di Scampia, e vedete dei vecchi ruderi, sappiate che non si tratta di “quattro pietre” ammucchiate lì per caso, ma di cimeli antichi ricchi di storia, anzi di storie, a volte anche raccapriccianti, crudeli, di puro orrore, che fanno raggelare il sangue.
Non sono i resti della cisterna di un antico acquedotto romano, come si è creduto per lungo tempo, ma molto più probabilmente quel che resta di una villa rustica, una sorta di masseria, abitata dai coloni tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, se non addirittura di una casa romana di censo agiato.
Una mia amica, che ha insegnato in un liceo di zona, mi ha raccontato di una ricerca effettuata con i suoi studenti, durante la quale ha raccolto alcune leggende, confrontandosi con un bel po’ di studiosi locali, e in particolare con Salvatore Fioretto, autore di un ottimo testo sulla storia del territorio dal titolo “Piscinola, la terra del Salvatore”, edito da The Boopen.
“Prima dello sconvolgimento del territorio, interamente agricolo, – le ha spiegato il Fioretto – si  poteva incontrare questo manufatto, pervenutoci dall'antichità, lungo la strada di campagna detta “del Cancello”, che collegava l’antico Casale di Piscinola alla strada consolare proveniente da Capua”.
La sistemazione attuale risalirebbe alla costruzione del sistema viario del nuovo quartiere di Scampia, avvenuta alla fine degli anni ’70.
“Alcune testimonianze raccontano – le ha spiegato ancora il Fioretto – che durante la costruzione del “Rione 167 di Secondigliano” (così allora si chiamava Scampia), proprio nell’area di fronte al sito in parola, sarebbero stati rinvenuti altri resti antichi e molte tombe di una vasta necropoli osco-romana, con la presenza di alcuni resti di assi viari”.
E, ha tenuto a sottolineare, che queste fonti orali non sono state purtroppo mai confermate dal ritrovamento di relazioni scritte o da foto; e che, nonostante alcuni circoli culturali del tempo avessero organizzato ronde di ispezione e di sorveglianza archeologica nel territorio, per prevenire scempi e depredazioni, il risultato sia stato sostanzialmente negativo. Difatti, molte furono le effrazioni e le asportazioni compiute notte tempo a opera degli immancabili tombaroli.
Non poche sono le leggende che circolano su questi ruderi.
Una, ad esempio, è quella riportata da Luigi Sica nel suo libro “Il borgo perduto”, edito da Marotta&Cafiero. Narra di un cacciatore, che improvvisamente perde di vista il suo cane e si mette a cercarlo e a chiamarlo. Il cane, alla voce del suo padrone, comincia ad abbaiare. Il cacciatore, chiedendosi cosa mai impedisse al suo fido di recarsi da lui, si dirige verso il luogo dal quale provengono i guaiti. Scopre così che il cane era finito in una ripida e profonda cavità. Chiama in suo aiuto alcuni contadini, che insistono nei dintorni, e si fa calare nell’anfratto, legato a una robusta corda di canapa. Giunto in fondo alla cavità, scopre che quella non è una cunicolo qualsiasi, ma una antica cisterna con le pareti realizzate in muro di opus reticolatum. Denuncia la scoperta alle autorità, che subito provvedono a inventariare il rudere, inserendolo in una mappa col nome di “casa vecchia”.
Un’altra leggenda, invece, riportata dal Fioretto nel suo libro, vuole che questo rudere fosse detto “la casa dei serpenti” per la presenza al suo interno di rovi e tane di serpenti. Si racconta anche di un serpente, forse un cobra, che aveva strani poteri, come quello di calamitare le persone tramite lo sguardo, rendendole incapaci di qualsiasi più piccolo movimento. La gente – ricorda Pasquale di Fenzo, un abitante del luogo – lo chiamava ‘o serpente cu ‘a calamita ed  era convinta che portasse gli occhiali.
Altri testimoni riportano che durante la prima guerra mondiale la cavità si trasformò in rifugio per quei giovani chiamati alle armi, che disertavano, e che per questo erano pressati dai carabinieri.
Uno studente della mia amica le ha riferito che suo nonno, quando era ancora bambino, abitava in una masseria poco distante dai resti della cisterna o villa che sia e che specie di notte era terrorizzato da lugubri lamenti che si levavano nell’aria e che attribuiva alla presenza di fantasmi.
Incuriosito, ho chiesto alla mia amica se non fosse il caso di intervistare questo signore.
“Perché no?” ha fatto lei.
E la domenica successiva ci siamo recati da lui.
Davanti a noi un vecchietto di novantadue anni compiuti, dal viso solcato da rughe profonde, simile a una prugna passita, calvo al centro del cranio, con rivoli di capelli innevati dal tempo, che gli scendevano lungo le tempie e sul collo, fortemente incurvato dal peso degli anni, con le mani dalle dita scarnite e nodose, che si appoggiava a un bastone di legno, gli occhietti ancora vivi che ti penetravano come due punte di spillo.
“Benvenuti!” ci disse, accogliendoci con un largo sorriso.
“Grazie, signor Cerruti, e ci scusi per l’intrusione…”
“Mio nipote mi ha detto che siete qui per la vecchia cisterna…”
“Sì – disse la mia amica – anche se qualcuno afferma che non si tratta proprio di una cisterna, ma di un’antica villa romana…”.
“I resti di queste rovine hanno da sempre dato forza a ipotesi e teorie contrastanti, si è fatto riferimento ad esempio alla presenza di un piccolo ambiente termale, ma anche agli avanzi di un possibile acquedotto romano o di un’opera idraulica dell’antichità ancora tutta da scoprire, come pure si è fatto riferimento ai resti di una villa di gente agiata. La sola cosa certa è che Scampia non è, come si racconta. un quartiere senza storia”.
“Lei sembra molto innamorato di questa terra” azzardai.
“Ci sono nato, quando qui era ancora tutta campagna e la gente ci veniva per le vacanze o anche solo per respirare un po’ di aria buona; le sono affezionato, anche se ora è solo un intricato agglomerato di case su case, giganteschi scatoloni di ferro e cemento, che come novelle torri di Babele sfidano il cielo. Io, quando ascolto “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano, mi ritrovo, e non mi vergogno a dirlo, con un lacrimuccia che mi scivola giù…”
E, senza darci il tempo di interloquire, si mise a canticchiare: “Là dove c'era l'erba ora c'è / una città, / e quella casa in mezzo al verde ormai / dove sarà? / Aha-ah!”.
Aspettammo che terminasse, senza osare interromperlo.
“Beh, disse lui, torniamo alla cisterna. Cosa volete sapere di particolare?”
“Suo nipote ci ha parlato di lamenti, che si levavano nell’aria nella notte, di fantasmi…”
“Beh, sì – disse, divertito, il vecchio – qualcuno un tempo ha creduto davvero che fossero gli spiriti. Noi allora non li chiamavamo fantasmi, ma spiriti, perché pensavamo alle anime dannate, che non ne volevano sapere di lasciare questo nostro mondo e vagavano nelle notti insonni, lamentandosi e piangendo. Ma la sostanza non cambia, spiriti o fantasmi che siano, comunque pensavamo a misteriose e oscure entità, prive di materia. Io stesso, ma ero ancora un bambino, ne ero convinto e, quando udivo quegli strani lamenti, ero preso dal terrore e correvo a nascondermi in casa. In realtà, si trattava di cani randagi o con sospetta rabbia, gettati lì nella cavità, che prima di morire, trafitti dai morsi della sete e della fame, ululavano e abbaiavano per giorni interi”.
“Una fine orrenda!...” dissi.
“Sì, davvero una fine orrenda!” concordò lui.
“Chi era che gettava i cani nella cavità?” gli chiesi.
“Soprattutto, i pastori, perché i cani randagi assalivano le loro greggi…”
“Quindi, i grandi sapevano che i lamenti erano dei cani?”
“La gran parte sì…”
“Se lo sapevano, perché dicevano che a lamentarsi erano gli spiriti?”
“Non è che tutti sapessero dei cani, ma quelli che ne erano a conoscenza spesso si servivano degli spiriti per spaventare noi bambini e costringerci all’obbedienza…”
“Anche suo padre?”“In un primo momento sì, ma poi cominciò a dire che gli spiriti non esistono e che quello che udivamo era un uomo lupo, che si aggirava per le campagne, ululando nelle notti di luna piena”
“Perché cambiò versione?”
“Voleva che in casa ci sentissimo sicuri: un fantasma, volendo, in casa ci può entrare anche se la porta è sprangata, un licantropo no!”
Quella notte feci dei sogni strani, anche se in realtà ogni sogno al risveglio appare un po’ strano, perché si sa, quando sogniamo, sogniamo a intervalli, un po’ dormiamo e un po’ sogniamo, così, quando ci svegliamo e cerchiamo di ricordare, mettiamo insieme i vari pezzi, che spesso sono composti da pezzi di sogni diversi, quel che vien fuori è un film un po’ demenziale, con vuoti, incongruenze, discordanze.
Ma, se ogni sogno è un po’ strano, questo lo era davvero.
Nel sogno mi rivedo bambino e sono nel mio letto, ma non a casa mia, bensì nella masseria del signor Cerruti, improvvisamente una serie di ululati e di guaiti mi svegliano, spaventato mi porto le lenzuola sul capo e mi ci seppellisco sotto. Ecco la scena seguente: mi porto presso la cavità, ma ora non sono più io, è il signor Cerruti da piccolo che si sporge nel vuoto per vedere chi c’è di sotto. Un vuoto, una sorta di buco nero, ed ecco che torno io il protagonista, sono caduto in fondo alla cavità e mi trovo tra rovi e nidi di serpenti, uno di essi che sembra abbia gli occhiali mi si para davanti in posizione eretta, molto probabilmente il cobra di cui mi aveva parlato la mia amica, mi fissa. Non parla, ma avverto chiaramente ciò che mi chiede: “Avvicinati, avvicinati!”.
Un ulteriore vuoto, i serpenti sono svaniti nel nulla, mi trovo in un cunicolo buio avvolto dalle tenebre, cerco di farmi luce con una piccola torcia, che ho in tasca, ora vedo le pareti di reticolo, sono ricche di mosaici e affreschi, inciampo in un otre…
Mi sveglio, sono madido di sudore, spaventato.
Se quei ruderi danno sensazioni così forti, che premono dall’inconscio e riemergono nel sogno, credo che abbia ragione Salvatore Fioretto, lo studioso col quale si è confrontata la mia amica, quando scrive nel testo su menzionato: “Siamo del parere che i resti della villa rustica romana dovrebbero essere adottati quale simbolo del nuovo rione Scampia che rinasce dalle ceneri del vecchio quartiere, perché essi rappresentano un legame storico con il passato e un caposaldo generazionale che resiste e sopravvive alle avversità del tempo e degli uomini!”.
Salvatore Tofano

Tutte le vignette inserite in questo post sono create da Salvatore Tofano.

Ringrazio lo scrittore Salvatore Tofano per aver consegnato questo racconto per "Piscinolablog" e per aver attinto dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore" spunti letterari per il suo bel racconto, unendoli con il racconto contenuto nel bel libro "Il Borgo perduto", di Luigi Sica
Come indicato, la mia fonte è stata l'amico Pasquale di Fenzo. 

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I ruderi della villa romana, in via Galimberti (foto S. Fioretto, anno 2014)

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