venerdì 7 febbraio 2020

Donna Rachele de Liguori agli Elisi ... Versi sarcastici di D'Antonio di Gennaro...


E' una composizione di tipo sarcastico, dedicata a un personaggio vissuto nel XVIII secolo, a Marianella, una donna dell'aristocrazia napoletana, appartenuta alla nobile famiglia dei Liguori.  Parliamo della marchesa Rachele de Liguori, che fu prima consorte di don Ercole De Liguori, morta nel 1762. Ercole, era fratello del nostro Alfonso de Liguori e divenuto unico erede della Casata, dopo la rinuncia di Alfonso. 
La cosa che più fece scalpore all'epoca, e che viene esposta nei contenuti sarcastici in questo componimento poetico, è quella che il cavaliere Ercole de Liguori rompette prematuramente lo stretto lutto che si addiceva al suo rango di nobile cavaliere, di antico lignaggio del Sedile di Portanova e, ciononostante, dopo poco prese a conoscere e a frequentare una donna della nobiltà napoletana, molto più giovane di lui... Ercole, dai propositi subito passò ai fatti, chiedendo in sposa la giovane donna. Tale intento fu inizialmente anche ammonito dal fratello Alfonso, grande Santo, ma nonostante tutto Ercole portò a compimento la sua decisione di impalmare la donna. Successivamente la nuova sposa, Donna Marianna Capano Orsini, portò in dote ad Ercole e alla casata dei Liguori, ben tre eredi... Mentre il primo matrimonio di Ercole con Rachele non aveva portato figli. 
Alfonso, dopo aver conosciuta la seconda sposa di Ercole, apprezzò la scelta del fratello e benedisse la nuova famiglia.
La composizione è piacevole e scorrevole, tra il serio e il semiserio, e si può dire che è pressappoco come una parodia della parte iniziale della Divina Commedia di Dante; infatti come sottotitolo dell'opera l'autore, che è Antonio di Gennaro, riporta la frase "Le Piacevoli"!


IL PASSAGGIO AGLI ELISI
Di Donna Rachele di Liguoro
(Opera tratta dalle raccolta "Poesie di D'Antonio di Gennaro, duca di belforte &, tra gli arcadi Licofonte Trezenio - volume IV - Le Piacevoli", ed. a Napoli presso Vincenzo Orsini, anno 1796).

I.
Piangete o Suore del Castalio monte,
Piangi di Delo o faretrato dio:
Pianga ogni spiaggia, ogni foresta, e fonte,
E di lacrime corra il fiume, e il rio:
Mìan pianga, Chiajan, Capodimonte,
Piscinola…… eh perché tal pianto? Oh Dio!
Nel rimenbrarlo sol manco, e m’accoro;
Morta è Donna Rachele di Liguoro.

II.
Morta è donna Rachele, a cui di bella
Il titolo sì ben competeva,
Che a lei vetusta donna, o pur novella
Al pari non andò dal tempo d’Eva.
Ahi troppo sventurata Marianella!
Chi dal sommo de’ mali or di sollieva?
Onde conforto, onde sperar ristoro?
Morta è Donna Rachele di Liguoro.

III.
Dal dì, che la gentil vedova destra
Ella porse al miglior de’ Cavalieri,
Usò la rocca e l’ago da maestra
Passando in tal lavoro giorni interi;
Frequentava le Chiese, e i Monisteri,
Rosari masticava a tutte l’ore,
E non lasciava mai le Quarantore.

IV.
Senno, onestà, decoro, e cortesia
Gentilezza, ed onor splendeano in lei;
Ma benché avesse grazia, e leggiadria
Aborrì mode, conciature, e nei.
Tal poi verso il marito ella nutria
Tenerezza, ed amor, ch’io crederei,
Che fosse paragon debole troppo
Edera intorno al muro, o vite al pioppo.

V.
Ma quest’edera, ohimé, ma questa vite
Recise alfin l’inesorabil Parca!
Giunta l’animo bella in fondo a Dite
Là presso di Caron la nera barca,
Gridò colui (nè fur sue voci udite):
Senza il pronto denar qui non s’imbarca:
Smarrita ella rispose: amico aspetta…
Ma indosso non avea la sua trombetta.

VI.
E’ questa una trombetta di metallo,
Rintorta al par di corno, e al pari acuta,
Che della sordità ripara il fallo,
E dell’offeso orecchio il senso aiuta,
Siccome all’occhio suole il buon cristallo
La vista ritornar, ch’altri ha perduta,
Or quest’ordigno per dimenticanza
Morendo ella lasciò nella sua stanza.

VII.
Onde confusa, e timida in quell’atto,
Che del brutto vecchiardo i gesti vede,
Sebben le voci non ne intenda affatto,
Irresoluta or fassi innanzi, or riede;
Al fin si graffia il volto, come un gatto,
E disperata in sulla ripa siede,
Gridando: Ercole amato ah dove sei!
Perché aita non rechi ai mali miei?

VIII.
So, che per me ti versi amaro pianto
Dagli occhi fuora, e vesti nera saia:
So che gemendo al mio sepolcro accanto
Requie, e Messe mi mandi a centinaia;
Ma qui tua moglie abbandonata intanto
Di tutta esposta trovasi alla baia;
Mandami per pietà la mia trombetta.

IV.
Ve’ tu Caronte come fa del sordo
E accogliermi ricusa entro il tuo legno?
Molto edi mi dice con quel muso lordo,
Ma invano a quel suo dir tendo l’ingegno,
Sebben d’avere inteso or mi ricordo,
Stemmi dei sei Sedili di Napoli
Che chi passar vuol degli Elisi al regno
Deve pagare al traghettiero il nolo;
Or meco io pur non porto un soldo solo.

X.
Deh tu, che sei rimasto e ricco, e grasso
D’ampi poderi; e fertil retaggio,
Grato spedisci un tuo volante a basso
Con quel denar, che basti al mio passaggio.
Che spettacolo ohimè! Si nega il passo
A una Dama d’altissimo lignaggio,
Ed a schiere frattando al suo destino
Passa la plebe vil con un quattrino.

XI.
O infelice Rachele di Liguoro!
Che brutta, e magra vita or qui tu fai?
Guazzasti, è vero, tra l’argento e l’oro,
Ma che pro, se un quattrino or più non hai?
Né ti giova sperar per tuo ristoro,
Che ad Ercole notizia arrivi mai
Del lacrimevol tuo misero stato;
Poiché nessuno è mai lassù tornato.

XII.
Qual di notte l’allocco, o la civetta
Sulla sponda di rauco, e tetro fiume,
O di cadente antico muro in vetta,
Mandando un tristo suon batte le piume;
Così laggiù presso quell’onda infetta,
Che di funesti rai scorre al barlume,
Pietosamente il suo destin crudele
Deplora l’afflittissima Rachele.

XIII.
Ed giungesse il flebile lamento
All’orecchio del vedovo marito!
Oh com’ei spaccerebbe in un momento
Un messo colaggiù snello, e spedito,
Che non un soldo sol, ma cento, e cento
Al nocchier paghi, onde sull’altro lito
Giunta ella alfin più non si lagni, o gema,
E del di lei ritorno ei più non tema.

XV.
E udita la cagion del suo ritardo
Seco la guida nel fatal naviglio;
Il barcajuol la riconosce, e il guardo
Torvo le gira sotto al nero ciglio:
Cacciarnela vorrìa, ma per riguardo
Di chi la mena, al remo da di piglio,
E sentendo sdegnoso la prigr’onda,
Ambi depone in sull’opposta sponda.

Stemma della famiglia Liguori (o Liguoro)
XVI.
Scesa la donna con Mercurio insieme,
Ragionando tra loro vanno per via;
Quel Dio loquace la domanda, e preme
Dond’ella vegna, e di qual patria sia.
Tutto elle narra, e com’Ercole geme
Per lei soggiunge, e va quasi in pazzia;
Mercurio, ch’è ribaldo, in ciò sul viso
Guatolla con sardonico sorriso.

XVII.
E prese a dir…. Ma pria che il suo discorso
Io riferisca, voglio un dubbio sciorre,
Che sul detto fin qui va bene in dorso,
E con ragion mi si potrebbe opporre.
Come privo del fisico soccorso
Potea que’ detti il sordo orecchio accorre?
A dubbio tal con brevità rispondo,
Che fu miracol di quel Dio facondo.

XVIII.
O quanto, (dunque a dir Mercurio prese)
O quanto più mi sei cara, ed accetta
Or che la patria tua fatta palese
M'hai, sovra ogni oltre altro loco a me diletta!
Patria gentil, che la bell'arte apprese,
La di cui privativa a me s'aspetta;
Onde il mio Nume a colà incensi, e voti
Da ladri innumerabili, e devoti.

XIX.
Ivi è quest’arte a tal perfezìone.
Che non si trova più cosa sicura,
Si ruba nella giubba, e nel calzone,
Si ruba in Chiesa, in piazza, e tra le mura,
Si ruba in tribunal, nella prigione,
Si ruba a mezzogiorno, e a notte oscura,
Si ruba il molto, il medìocre, e il poco,
Si ruba in ogni tempo, e in ogni loco.

XX.
D’Antonicco di Laura entro le foglie
Io l’ordinaria fo mia residenza:
Qui, come in proprio asil s’aduna, e accoglie,
Dell’onorato stuol da quintessenza;
Qui piomban tutte le rapite spoglie;
Qui mi chiedono i ladri, ed hanno udienza:
Qui de’ furti maggior cova il tesoro,
Gemme, scatole, mostre, argento, ed oro.

XXI.
Di tale impunità la cagìon vera
Se saper brami, eccola in fonte, ascolta:
La Grecia fu l’origine primiera
Di Partenope vostra; Ora una volta
Stemma del Sedile di Portanova
Quel tor l’altrui, ma per gentil maniera
Sagacità ingegnosa, e disinvolta.
Fu in Grecia riputata, e non delitto,
Legge non lo vietava, e non editto.

XXII.
Bensì severamente era punito
Chi si faceva cogliere in fraganti:
Costui, dicean que’ Saggi, è un scimunito,
Né industria mai, né ingegno sia che vanti.
Coll’Argive colonie all’ vostro lito
Insiem gli usi passar sì varj, e tanti,
E tra questi quel genio ognor rapace,
A cui la roba altri cotanto piace.

XXIII.
Né sol parlo di quei ladri gentili,
Che metton mano nell’altrui scartella.
Persone per lo più misere, e vili,
Che non han cencio indosso, o non gonnella.
Parlo di quelli ancor, che in vari stili
Seguon gl’influssi, e i rai della mia stella,
Gente (il di più si taccia) iniqua, e isporca,
Di cariche non degna, da di forca.

XXIV.
E pur la forca è tra voi rara tanto
Quanto frequenti sono i furti, e gravi;
Ond’è che i ladri han per lor gloria, e vanto
Nel mestiero contar gli avi, e i biavi,
E col molto denar raccolto intanto
Da quelli, e poi da lor, che non ignavi
Sono nell’emularlo, al mondo d’oggi
Danno di signoria stupendi sfoggi.

XXV.
Argementar da ciò puoi facilmente
Quando ben volentieri io là dimori,
Ove ho regno, e poter così eminente,
Ove ho tante accoglienze, e tanti onori;
Onde chi nacque tra sì culta gente
Ragion vuole, che da me si pregi, e onori.
Di Maja il figlio qui si tacque, e al rio
Giunsero del profondo eterno oblio.

XVI.
Da uno imo speco, ov’hanno albergo, e cura
I pigri sonni, ed i notturni augelli
Questa lent’acqua scaturisce, e bruna
Per que’ tufi s’aggira, ed arboscelli;
Finchè il letto maggior s’imbocca, e aduna;
Di lei bevendo avvien, che si cancelli
Ogni passata idea, che in mente uom tenga,
Né di quello, che fu, si risovvenga.

XXVII.
Non tanti attorno alle civette losche
Volano augei, per vagheggiale in tresca,
Non tante pecchie al prato, al mele mosche,
Ai granarì formiche, o pesci all’esca,
Né van tante in Agnan folaghe fosche,
O bruchi in Puglia in sulla spica fresca,
Quant’anime colà dai lati tutti
Corrono a inebrìarsi entro que’ flutti.

XVIII.
Qual s’inginocchia, e tuffa in quello il muso,
Qual coppa fa della sua propria mano,
Distinzion non v’è: s’urta confuso
Col ricco, e il grande, il povero, e il villano.
Girò Donna Rachele il volto in giuso
Da un colle ch’è di là poco lontano:
Vide quel folto ammasso, il piè sospese,
Ed al suo duce la cagion richiede.

XXIX.
La virtù di quel fiume ei non le tacque,
E come nel gustarne ogni obblia
Quanto gli accadde mai dal di che nacque,
Finché prese a calcar l’estrema via:
Bevi, soggiunse poi, bevi quell’acque,
E perderai dell’empia sorte, e ria
L’antica rimembranza…. Ah non son cose
Queste per me, Donna Rachele rispose.

XXX.
Guardimi il ciel, che la memoria oh Dio
Perda dell’idol mio, che tanto amai,
E tuffi ingrata in sempiterno obblio
Chi sparge ora per me gemiti, e lai.
Non si potè frenar quando ciò udìo
Mercurio, ed esclamò: finisci omai
Di lusingarti, o semplice Rachele;
Ercole ha sciolte in altro mar le vele.

XXXI.
E acciò ti quieti alfine, e disinganni,
Sappi, che il tuo fedel consorte amato,
Per riparare i già sofferti danni
Cerca di porsi un ben visino a lato;
Onde Imeneo spiegar giulivo i vanni
Per Marianella io vidi, ivi chiamato
Dalle focose brame, e dai desiri
Di chi è l’oggetto or qui de’ tuoi sospiri.


Campanile di San Lorenzo, stemmi dei sette Sedili di Napoli
XXXII.
A tale inaspettato, e tristo avviso,
A tale dolorosa aspra novella,
La pallid’ombra impallidì nel viso,
E perdè quasi il moto e la favella:
Quale al cader di fulmine improvviso
Resta fuori di se la villanella:
Poi disse (e fu la voce appena intesa)
Così dunque una Dama è vilpesa!

XXXIII.
Disperata indi, e fiera al par di Dido
Quando partì da lei l’ingrato Enea,
Diede un sì forte, e sì possente grido,
Ch’udito Averno il simil non avea.
Esclamò alfine: o disleale, o infido,
Scoverta è già la tua maligna idea:
Dunque davver covasti in sen quel foco,
CH’io stolta allor credea favola, e gioco?

XXXIV.
Finti eran dunque que’ melati vezzi,
Finti i teneri amplessi, e dolci accenti?
Oh labbri ognora ad ingannarmi avvezzi!
Oh promesse fallaci, oh giuramenti!
Or che più non mi temi, or mi disprezzi;
Né l’amor mio, né il tuo dover rammenti:
E vai di Sposa giovinetta in traccia,
Non pigro can nell’amorosa caccia.

XXXV.
Ma il giusti ciel, che i tradimenti ha in ira,
Sempre i disegni tuoi tronchi, e trasformi,
E vana renda ogni tua speme, e mira:
Nè giungano sì presto i lieti giorni
(Come da te si brama, e di sospira)
In cui novella sposa il seno adorni
Delle gemme, e de’ fregi un tempo….a lei
Qui mancò il fiato, e non potè dir miei.

XXXVI.
E oppressa dall’affanno, e dalla bile,
L’inconsolabil ombra a terra svenne:
Ma il Nume, che in bontà non ha simìle,
Pronta le porse aita, e la sostenne;
Poi volò al fiume, e in modo assai gentile
Col cappel d’acqua colmo a lei rivenne,
E tutto all’ombra lo versò nel petto
Che per rabbia languiva, e per dispetto.

XXXVII.
Qual chi per sogno torbido, e funesto
Viene agitati nella fantasia,
Mappa di Napoli, di A. Rizzi Zannoni, 1793 (particolare)
E piange, e grida, se da quello è desto,
La tetra visìon del tutto oblìa:
Così d’ogni pensier cruccioso, e mesto
E d’ogni cura disperata, e ria,
Per la virtù di quell’umore a un tratto
Restò Donna Rachele libera affatto.

XXXVIII.
Perdè d’Ercole suo la rimembranza,
La memoria perdé di Marianella,
Né pianger s’udìo più la mancanza
Della sua trombettina aurata, e bella:
Alfin nella felice Elisia stanza
Passò, qual capriola, agile, e snella:
E il Dio che di guidarla ebbe la gloria,
Ne recò a noi la grazia istoria.

La decisione di proporre nel blog questo componimento, scritto 224 anni fa e dedicato a una persona appartenuta a una nobile famiglia dell'aristocrazia napoletana dell'epoca, è stata presa solo per mostrare all'attenzione del lettore, una composizione che riteniamo originale per il suo genere, un proemio di tipo sarcastico, che può essere considerato un'interessante testimonianza letteraria poco consueta per l'epoca, ma comunque presente nel secolo dei Lumi. E, poi, anche perchè tra le righe dei versi si riesce a estrapolare circostanze e costumi tipici della nostra area e, più in generale, del territorio cittadino della grande capitale del Regno, del secolo XVIII. 
Salvatore Fioretto




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