domenica 1 dicembre 2013

I miei ricordi, tra i personaggi di un tempo...! Di P. di Fenzo



Paesaggio agreste da Capodimonte
Se vi capita di fare l'intero percorso della linea del Metro collinare e scendere al capolinea "Piscinola-Secondigliano", sappiate che proprio dove adesso sorge la moderna stazione di Piscinola si trovava la stazione della ferrovia Alifana (ferrovia Napoli-Piedimonte d'Alife), da noi chiamata "'a Piedimonte". L'edificio sembrava una piccola villetta unifamiliare, dove il capostazione e la sua famiglia vivevano circondati da rose di un profumo così intenso, che quando passo da queste parti mi sembra ancora di inebriarmi il cuore e la mente. Non le narici, purtroppo! Non era raro vedere la moglie o altri familiari del capostazione manovrare gli scambi manualmente, ferri muniti di un anello finale ed inclinati in modo da sembrare dei piccoli omini di metallo, eternamente al lavoro. Forse facevano parte anch'essi della famiglia del ferroviere. Chissà? Il trenino, con una o due carrozze vi sostava per diversi minuti, in attesa dell'interscambio col treno proveniente dalla direzione opposta, la linea era a binario unico e a scartamento ridotto. Inoltre le fermate precedenti e seguenti Piscinola, cioè Miano e Mugnano, non avevano possibilità di scambio. Una sola volta, era il 1974, mi capitò di effettuare l'intero percorso, fino a Santa Maria Capua Vetere: fu interminabile ma non ci si annoiava, il trenino procedeva in quel "Mare verde" delicatamente, come la lama di un coltello, che affonda dolcemente in un'invitante torta di panna. Se adesso da quel posto si guarda verso Scampia, si nota che esiste un dislivello di una decina di metri rispetto alla stazione e al Villaggio di Piscinola (perdonatemi se continuo a chiamarlo così).
Treno della ferrovia Napoli-Piedimonte d'Alife, in una composizione artistica (S. F.)
I grandi cervelloni che ci regalarono questo scempio, non pensarono neanche lontanamente di poter costruire una via di collegamento diretto col centro del paese, né pedonale, né tantomeno carrabile. Cosa di cui usufruivano i contadini di una volta, su carri trainati da muli, asini o cavalli. Faticavano dall'alba al tramonto nei loro campi, immensi, aperti, cioè "scampiati", da cui Scampia. Le donne restavano a casa per le faccende domestiche e per cucinare. Nella tarda mattinata si recavano anch'esse in campagna, a piedi, con ceste colme di vivande, tenute miracolosamente in equilibrio sulla testa, non avevano neanche bisogno delle mani, che usavano per portare fiaschi impagliati con vino "Per''e palummo", tipico della zona. Un dolce ma costante pendio li immetteva ai campi attravero i "lemmeti", il primo dei quali apparteneva ai "Ficaiola" la famiglia della giovane Giuseppina Bianco, di cui è in corso la causa di beatificazione. Fu uccisa nella campagne di Scampia con un colpo di fucile sparato da un soldato di cui non fu mai identificata neanche la nazionalità, durante l'ultima guerra, e sotto gli occhi atterriti della madre e dei fratelli. Il "Lemmeto de' Ficaiola" era l'ultimo ad essere percorso al ritorno, per cui una volta imboccato, quando da lontano si intravedeva la cima del campanile, si era consapevoli di essere quasi giunti a casa. Ecco che, l'espressione tipicamente piscinolese: "...me so' miso int'o lemmeto 'e Ficaiola!", assurge, per traslato, al significato di "...Ho quasi portato a termine il lavoro!", un qualsiasi lavoro. Certo oggi è un'espressione in disuso, solo alcuni anziani se ne ricordano il significato. I lemmeti delimitavano l'intera zona, conosciuta come lo "Smeraldo Verde", in tanti poderi dove per lo più i piscinolesi fungevano da coloni. Le nobili famiglie proprietarie dei fondi si chiamavano Grammatico, De Luna, Del Forno, De Liguori, che diede i natali nella vicina Marianella a S. Alfonso Maria de' Liguori. I campi erano costeggiati da alte vigne e da frutteti che donavano frutti che non si trovavano in nessun altra parte della Campania e forse d'Italia.
Mappa dei casali di Napoli, del secolo XVIII
I contadini piscinolesi erano maestri nell'arte dello '"nzierto": Zi Peppe, colono di Don Mimì Del forno, nonché zio di mia madre, prima di morire fece in tempo a regalare un capolavoro di agronomia a mio padre. "Nzertò" (innestò) una pianta di arance selvatiche, bellissime da vedere, ma amarissime al gusto, buone solo per marmellate. Riuscì ad ottenere un albero di limoni che fioriva e dava frutti tutto l'anno, però con una particolarità: lasciò un unico ramo al di sotto dell'innesto che col tempo arrivò a ergersi, lungo e dritto, fino a sormontare praticamente l'intera pianta, ma continuando però a produrre arance. Un vero miracolo della natura, con frutti gialli e arancioni contemporaneamente sullo stesso albero. Uno spettacolo che mi sono goduto fino a una ventina di anni fa, quando un giardiniere imbecille, a mia insaputa, tagliò quell'unico ramo, che a detta sua toglieva forza alla pianta. Nel giro di pochi mesi quell'alberò morì: "'A pianta s'ha pigliato collera" sentenziò un vecchio contadino che avevo interpellato per cercare di salvare il salvabile. E forse si pigliarono collera pure papà e Zi' Peppe, e fu come dare loro l'addio di nuovo, stavolta definitivamente. Mi è rimasto il rammarico di non avere mai fatto una foto a quella pianta, ma molti dei miei amici se la ricordano ancora. Perché, quando ricevevo una visita, correva l'obbligo mostrare orgogliosamente quell'albero delle meraviglie. Un po’ come fa Luca Cupiello: "Te piace 'o presepio?".
Mio zio Giuseppe,  che chiamavo Zi Peppe, oltre a essere il colono di Don Mimì Del Forno, era anche il suo uomo di fiducia, qualcuno più anziano se lo ricorderà come "Peppe 'o Guardiano". La casa colonica che occupava con la moglie (Zi' Jolanda, quattro figlie femmine e l'unico maschio, Carminiello, mio coetaneo e compagno di giochi) si trovava a meno di cento metri da quella che è oggi il Rudere di epoca Romana che campeggia al centro di Scampia. La "Casa degli spiriti" la chiamavano i grandi, a noi bambini dicevano che fosse infestata dai serpenti, forse per indurci a starne lontano ed evitare rovinose cadute, essendo essa posta a quasi cinque metri sotto il livello stradale. 
Era pure cacciatore, Zi' Peppe, ma non per diletto, per necessità. E per fame. La dieta, rigorosamente vegetariana, veniva interrotta solo in caso contemporaneo di malattia di un membro della famiglia e qualche gallina. La convalescenza dava diritto al brodo di gallina. A patto però che la gallina fosse vecchia e malata: non si poteva sacrificare una fonte di uova, sicura e giornaliera. Una volta Zì Peppe, uccise con un solo colpo e dopo lunghi appostamenti, una volpe e i suoi volpacchiotti che facevano strage delle sue preziose galline e che probabilmente finirono al forno spacciate per coniglio. Le volpi, non le galline. Zi' Peppe, sparava un solo colpo, massimo due. Benché provvedesse personalmente a caricare in economia le cartucce con polvere e pallini, il costo restava sempre elevato. Aspettava che gli uccelli si alzassero a stormo e ne tirava giù a decine alla volta. Ricordo che noi bambini piangevamo per quelle stragi di innocenti (in caso fortunato si trattava di piccioni), ma poi, dimentichi e affamati, partecipavamo comunque al banchetto...
Oggi ne parlo con nostalgia, anche se uno dei problemi di allora era quello di mettere assieme almeno un pasto decente al giorno. E non sempre ci si riusciva...!
La terra bastava da sola con i suoi prodotti a soddisfare i bisogni dell'intera famiglia: verdure, patate, legumi e granaglie non mancavano mai a tavola. Anche i funghi abbondavano sui numerosi pioppi presenti nella zona, e che fungevano da sostegno per le alti viti d'uva Per''e palummo. Il nostro dessert era costituito da fragole selvatiche e da squisite more che crescevano spontanee sui rovi lungo le siepi divisorie tra i vari poderi. Praticamente quel poco che avevamo ci bastava.
Ripensandoci, allora apparentemente non avevamo molto, ma in effetti avevamo tutto quello che ci serviva... Oggi, invece, che abbiamo tutto, ci mancano proprio quelle piccole cose di allora, che avevamo naturalmente, tanto da non capire quanto fossero preziose....!
Pasquale Di Fenzo
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)
  


4 commenti:

  1. Ringrazio ancora Salvatore Fioretto, bravissimo a tirare fuori i migliori ricordi da ognuno di noi.
    Pasquale Di Fenzo.

    RispondiElimina
  2. Caro Pasquale, grazie principalmente a te e agli amici come te; senza di voi non avremmo mai potuto scrivere e far niente..., siete voi la nostra memoria storica!

    RispondiElimina
  3. Caro Pasquale, ho trovato veramente piacevolissimo il tuo racconto che propone ricordi di prima mano, non riscritture di vecchie cronache, e, perciò, commuove e coinvolge. AnnaMaria Montesano.

    RispondiElimina
  4. Grandioso questo scritto di vita vissuta, con un tuffo nel passato che fu, e solo nei ricordi di fanciulli di allora, oggi uomini possono essere un volano di spinta per la conoscenza dei luoghi a molti di noi assai cari, Non ti nascondo Pasquale che si e' rabbrividita la pelle complimenti saluti Massimo De Stefano

    RispondiElimina