lunedì 14 settembre 2015

I commercianti e gli ambulanti di Piscinola, dai ricordi di Luigi Sica (II^ parte)


Continua il racconto di Luigi Sica sui commercianti e gli ambulanti di Piscinola.

Don Eugenio o’ putecaro
Figlio della sorella di mio padre, don Eugenio Ercolano aveva per mio padre (che lui chiamava affettuosamente zio Totonno), una specie d’idolatria...
Egli fu un salumiere a tutto tondo... Viveva solo per quella sua salumeria; aveva  anche un cavallo, chiamato Principino, che trainava un calesse a due ruote, detto ‘o 'riroto’, col quale andava a comprare all’ingrosso ciò che avrebbe poi rivenduto al dettaglio. 
Di tanto in tanto, per la mia felicità, mi faceva montare sul calesse e andavamo a Melito, qualche volta a Giugliano, ad Aversa, a Teverola, e fino a Villa Literno. In questi giri di calesse cominciai a capire che il mondo era molto più grande di quanto immaginassi. 
Per andare a Melito, attaccava il cavallo al carro ed, evitando le strade trafficate, c’inoltravamo nella cupa detta dell’Acquarone, percorrendo strade di campagna che non avrei mai indovinato, quelle che allora tagliavano il territorio di Scampia, per giungere nei pressi della strada detta "Degli Americani", alle porte di Melito. 
Quasi all’altezza dell’attuale municipio del piccolo comune, c’erano dei negozi molto accorsati, dove don Eugenio provvedeva all’acquisto delle derrate: olio d’oliva, di semi, di sansa: mi spiegava che quest’ultimo è un olio meno pregiato, un sottoprodotto proveniente dal processo d’estrazione chimica dell’olio, tratto dai residui della polpa e dai frammenti del nocciolo dell’oliva. 
Comprava olive bianche e nere provenienti dalla Puglia, quelle tonde della Spagna, capperi in salamoia di Pantelleria, grossi pezzi di pane rotondi o fusi, detti ‘palatoni’, aventi delle grosse cavità nella mollica che parevano caverne..., ma che erano indice della ottima lievitazione. Don Eugenio acquistava, ancora, sacchi di farina, sacchi di ceci, di fagioli, di lenticchie, e sacchi di piselli secchi in polvere. Questi ultimi all'epoca tanto richiesti, perché si utilizzavano nella preparazione della minestra di pasta e piselli in polvere. Comprava anche sacchi di granone, di fave secche e anche barattoloni di concentrato di pomodoro, detto ‘o’ buattone’. 
L’arte sublime di don Eugenio era la preparazione del soffritto, tipico piatto nostrano, che ha per base le frattaglie di maiale: pezzi di polmone, di cuore, di trachea, da noi dette ‘coratella di maiale’. Il soffritto una volta preparato si vendeva bene per tutto l’inverno, ma era necessario prepararlo più volte, per l'elevata richiesta. Il soffritto lo preparavano anche i macellai e i cantinieri, ma quello di Eugenio era davvero "n’ata cosa!", era fatto veramente con il cuore, davvero imbattibile!
Dilettandomi di cucina, con modestissimi risultati, vi trasmetto qui la ricetta che ho molte volte sperimentato, valida per 6/8 persone. 
Per cucinare questa zuppa forte de "‘o suffritto", che va bene tanto sugli spaghetti che su tranci di pane raffermo, tostato, è opportuno avere disponibile i seguenti ingredienti:
1500 gr. di coratella di maiale,
600 gr. di prosciutto di maiale (a pezzettini),
250 gr. di salsa di peperoni piccanti,
500 gr. di concentrato di pomodoro,
foglie di alloro secco o verde, salvia, rosmarino, quanto basta,
250 gr. di sugna.
Una pentola di creta o di rame con l’interno ben stagnato. Preparazione: Tagliate e gettate via il grasso in eccesso della coratella. Lavatela più volte. Mettetela in una pentola senz’acqua, sul fuoco, per far asciugare tutti i liquidi che contiene. Scolate la coratella, risciacquatela e lavate anche la pentola. Rimettetela in pentola, insieme al prosciutto a pezzetti e fate rosolare il tutto nella sugna.
Quando sentirete lo "sfrigolio" delle carni in cottura e un buon profumo, aggiungete la salsa di peperoni piccanti, unitevi il concentrato di pomodoro, gli aromi, due bicchieri d’acqua e il sale. Fate cuocere tutto a fuoco lento, fino a rendere denso questo sugo, versatelo poi sugli spaghetti (preparati per l'occasione) o su delle bruschette, sulle quali avrete strofinato energicamente dell’aglio e ... buon appetito, alla memoria d’Eugenio.
In quei tempi, una famiglia di sei, sette, persone si sfamava con una minestra di pasta con polvere di piselli o con un piatto di pasta e fave. Alcune famiglie, meno abbienti, andavano nelle campagne per raccogliere delle cicorie, che poi erano utilizzate in cucina per farne delle zuppe. Andava già bene quando si poteva comprare 20 o 30 lire di soffritto, per non sprecare il pane raffermo... 
Queste vecchie ricette non vanno bene nei nostri tempi di salutari "diete leggere", ma l’ho proposta ugualmente, perché oggi c'è un sostenuto revival della cucina di una volta, quella semplice e genuina, come la nostra, fatta con alimenti poveri, insomma la cucina tipica contadina.
Le prime avvisaglie stanno nel fatto che i grandi chefs dei ristoranti importanti frequentati da vip e uomini del mondo della politica e della alta finanza, stanno elaborando e proponendo il piatto unico, da valere come "antipasto", "primo", "secondo" e "contorno".... 
Carissimo ed inimitabile Eugenio, mi resti eccezionalmente caro come un sapore antico di soffritto, di certe castagne del prete, così buone e mai più mangiate, quelle che solo Tu vendevi a Piscinola. 
Ricordo i Tuoi famosi ‘moscioni’, che così chiamavi, parlo dei fichi secchi di Natale, che erano una varietà pregiata di fichi chiari, asciugati al sole e profumati con foglie d’alloro o scorze di limone e talvolta farciti con gherigli di noci, o mandorle o nocciole. 
Tanta era la devozione per quella tua bottega e, direi, l'amore fluido che stabilivi con i prodotti che promuovevi, come la mortadella che chiamavi prosciuttella: ricordo che mostravi orgoglioso i semi di pistacchio che la profumavano e insaporivano, oppure la bontà dei salami napoletani che tagliavi di sbieco e, ancora, i grani d’Auricchio piccante, che assaporando goloso, offrivi assaggi alla tua clientela per acclararne la bontà che stava già nei tuoi gesti appassionati.
Una volta c’incontrammo in piazza e, parlando del più e del meno, ricordasti una gita in macchina, con una Fiat 128, con la quale ci recammo nella trattoria "da Achille", sita sulla strada che dalla Domitiana mena a Villa Literno. Lì assaporammo un gustosissimo fritto d’anguille, insieme a mio padre. Ricordo che tra anguille, cicorie, noci e vino asprino, tu ascoltavi zio Totonno che filosofeggiava affermando che tutti noi siamo alberi che nascono e muoiono da soli e che, fiori, frutti, foglie e rami sono solo brevi parentesi delle stagioni della vita che gravano pesantemente sul tronco, e che la solitudine, la morte stessa, sono mille volte preferibili alla loro caducità...
Ti vedevo guardare così intensamente e teneramente mio padre, quel tuo caro zio, che per Te era stato padre, mentre, con mirabile maestria, imboccavi l’anguilla intera e ne sfilavi la lunga lisca pulita, poi dicesti: ‘zi Totò nun ce penzamme, pensiamo, piuttosto, alla prossima volta che verremo qui...
Ci ripromettemmo di farci una mangiata a casa mia nelle feste di Natale di quell'anno, previo acquisto di anguille, sia per friggerle sia per farne una zuppetta con cicorie, piatto che avresti preparato con le Tue mani... 
Non è stato possibile, il diabete si portò via la Tua Puppenella e tu, "tronco" privo di fiori, frutti, foglie e rami, e senza di lei, restasti anche privo di radici... Te ne sei andato prima, non ce l’hai fatta a stare da solo!
Il destino ci negò un pranzo natalizio e, credimi, è strano, ma è bellissimo, come se una "sottrazione" s’è fatta quotidiana "addizione" di ricordi e di sentimenti, che restano con te presente nella mia mente, molto, molto caramente.
Luigi Sica 

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