venerdì 7 novembre 2025

La conservazione della frutta per la stagione invernale... una tecnica dei tempi passati!



Con l'avvento degli elettrodomestici la vita è stata completamente rivoluzionata, tante lavorazioni sono state modificate come la conservazione dei cibi e delle vivande. In passato avere la frutta fresca disponibile nel periodo invernale era un privilegio concesso a pochissimi. La massa della popolazione si era "ingegnata" a superare questa limitazione escogitando alcune tecniche di conservazione e soprattutto selezionando il tipo di frutta disponibile a superarare il periodo invernale. Gli antichi usavano quindi conservare la frutta appendendola ancora legata ai rami, sulle pareti  sommitali dei balconi, oppure sotto pergolati, volte e mansarde ("suppigni") delle proprie abitazioni, purchè questi ambienti si presentassero asciutti e ben ventilati. Ancora oggi non è raro osservare dei balconi allestiti con questo tipo di frutta appesa.
La varierà di frutta maggiormente utilizzata, oltre a essere quella tipica della stagione autunnale, doveva essere integra e raccolta in maniera precoce rispetto alla maturazione; tra queste troviamo i cachi, i meloni, l'uva da tavola e i sorbi. Tra le qualità di cachi (il nome botanico è "Diospyros", da cui "Diospiro"), c'era la varietà detta "a vaniglia" e, ancora, una varietà che producevano frutti minuscoli, addensati a grappoli, posti all'estremità dei rami. Di questa tipologia si appendeva un ramo intero, che conteneva almeno dieci-quindici piccoli frutti (detto "frasca"). 
I meloni maggiormente utilizzati era quelli chiamati "mellune 'e pane", a superficie ruvida, di colore verde scuro, ma si utilizzavano anche quelli di colore giallo, chiamati "Cantalupo" o anche "Capuaniello".
I sorbi (dette "Sovere") erano tra le qualità di frutta più ricercate. C'era la varietà locale chiamata "Natalina", perche i frutti completavano l'"ammezzimento" e quindi potevano essere gustati, a partire dal Natale seguente.

Tipico balconcino napoletano, foto di F. Kaiser

Per l'uva da tavola, si utilizzava la qualità "Pizzutello" o "Zizza 'e vacca" (Zibibbo), perché i chicchi erano più consistenti e duri delle altre qualità e duravano più a lungo. Ma c'era anche chi appendeva uva "Fragola" nera, e l'uva da vino per ricavarne dell'"uva passa" (uva sultanina) da utilizzare in cucina: allo scopo si sceglievano  le pigne più belle e integre. Tra le varierà di uva locale utilizzate troviamo: "Perepalummo" (Piedirosso) e "Mangiaguerra", ma c'era anche chi appendeva altre varietà di uva, come: "Falanghina", "Uva rosa", "Catalanesca" e la varietà bianca, detta "Francese".

Non era raro vedere tra la frutta appesa anche dei mazzetti di melograni e di mele.
Anche alcuni ortaggi erano conservati "a pennoli" (ossia appesi tramite una cordicella), tra questi i pomodori. Le varietà di pomodoro più utilizzate erano quelle che oggi chiamiamo "vesuviane", che un tempo qui si chiamavano "pummarole cu 'o pizzutiello", esse venivano prodotte negli orti e nelle campagne piscinolesi e anche nei dintorni. 

Avevano la prerogativa di essere molto più saporite delle attuali, perché erano coltivate in terreni con assenza di irrigazione artificiale, ma ricevendo l'acqua solo attraverso il microclima locale, che consentiva brevi ma intense precipitazioni piovose, ben cadenzate nei mesi di coltivazione. E poi venivano concimate con dello stellatico proveniente dalle stalle locali.
Gli altri ortaggi che venivano appesi "a piennoli", troviamo: le cipolle, gli agli, i peperoncini piccanti e il mais. Caratteristiche erano le forme date agli agli per essere appesi a grappoli, infatti essi venivano assiemati eseguendo una sorta di treccia, unendo le estremità delle foglie rinsecchite. I peperoncini, invece, potevano essere appesi ancora attaccati ai loro rami oppure si realizzavano delle specie di collane, cucendo con filo di cotone le loro estremità.
Tra le spezie troviamo: i mazzetti di origano locale, l'alloro e il rosmarino. 
 
Ringraziamo il fotografo Ferdinando Kaiser per averci trasmesso la foto che è stata inserita in questo post.
 
Salvatore Fioretto 

 

sabato 1 novembre 2025

La cucina nella tradizione contadina del quartiere di Piscinola... Buon appetito! (Seconda parte)

(segue dalla prima parte)

Le insalate ed i piatti estivi

Insalata patate, origano e pomodori

L'insalata, regina delle tavole in estate, era quella preparata con patate lesse, pomodori affettati, origano e cipolle. Per preparare questa pietanza si bollivano le patate in una pentola provvista di un coperchio. A cottura avvenuta, si sbucciavano e tagliavano a fette le patate. Poi si ponevano in una zuppiera, assieme ai pomodori e alle cipolle bianche, opportunamente tagliate a fettine. Si aggiungevano anche due o tre peperoncini verdi, detti di "Sciummo" e alcuni dadini di sedano. Tutto il preparato era, infine, condito con olio, origano e sale.
Precisiamo che l'origano, utilizzato per condire questa insalata era però di una tipologia selvatica (diremo autoctona, perchè si riproduceva in maniera spontanea nel nostro territorio), meno piccante e più digeribile di quella che siamo abituati a comprare nelle spezierie e nei supermercati e veniva anche utilizzata per condire molte altre pietanze.  

Insalata di patate al limone

Questo piatto si preparava ugualmente all’insalata precedente, ma senza pomodori e altri ortaggi e aromi, ma con l’aggiunta di succo di limone.

Insalata di patate e fagiolini

Si facevano bollire le patate ed i fagiolini in due pentole separate. A cottura avvenuta, dopo aver sbucciato e tagliato a fette le patate, si univano questi ai fagiolini in una zuppiera, aggiungendo alcuni spicchi d’aglio e condendo con olio, limone e sale.

Insalata di fagiolini

Questo piatto si preparava ugualmente all’insalata precedente, ma senza le patate. I fagiolini potevano essere anche conditi con aceto, al posto del limone.

“‘A fresella cu’ ‘e pummarole”

La “fresella“ era la regina dei piatti estivi e possiamo dire che lo è ancora tutt’oggi. Da sempre, infatti, è utilizzata in cucina per la sua semplicità e per l’estrema velocità di preparazione. Si bagnavano (spugnavano) le “freselle” in poca acqua, fino ai primi segni di rammollimento. 
Si poneva poi ogni “fresella” in un piatto piano e si aggiungevano dei pomodori poco maturi, tagliati a quattro spicchi, lasciandoli ancora uniti. Si condiva infine il tutto con origano, sale, olio e uno spicchio di aglio tagliuzzato a pezzettini. La “fresella” spesso era preparata senza i pomodori, ma solo con olio, sale e una “spolverata” abbondante di origano.

 “‘A zuppa e fasule“ (zuppa di fagioli) 

Per preparare questa zuppa si usavano dei fagioli bianchi, possibilmente dei “cannellini giganti”. I fagioli erano cotti a lungo in acqua. Dopo la cottura, si versavano sopra delle fette di pane raffermo o “freselle”, poste in un piatto piano, versando sopra anche il brodo di cottura. La portata era, infine, condita con olio, sale, aglio e origano.

La trippa al limone

La trippa lessa condita con il limone (‘o call’ ‘e trippa) era venduta da un venditore ambulante (‘o carnacuttaro) e si serviva con sale e limone. Sul banchetto del venditore si trovavano anche zampette di capretto, “centopelle” e il classico “pêre ’e ‘o musso”, ossia la zampa ed il muso del maiale, lessi e conditi con sale e limone: una vera leccornia di un tempo che fu…!

I tortini ed i piatti rustici

“Zeppulelle ‘e pasta cresciute” e “zeppulelle cu’ ‘e sciurille ‘e cucuzzielle”

Innanzitutto si doveva preparare l’impasto. Il lievito era sciolto in poca acqua calda, aggiungendo della farina, fino ad ottenere la consistenza richiesta. Il composto ottenuto veniva poi messo a lievitare sotto un panno caldo, per un certo tempo. Dopo la lievitazione, si preparavano con le mani delle pastelle e si friggevano in una padella piena di olio bollente. Quando le “zeppulelle” diventavano dorate, si toglievano dall’olio, si mettevano ad asciugare su della carta assorbente (carta spessa gialla), aggiungendo del sale. All’occorrenza si soleva inserire nelle pastelle anche fiori di zucca o di zucchine (sciurille) e addirittura per i palati più esigenti, melanzane ridotte a fettine e alghe marine.

“‘A pizza ’e farenella” (rustica)

Per preparare la pizza “’e farenella”, si portava a bollore la farina di mais in un poco di latte. Dopo aver cotto per mezz’ora l’impasto, si aggiungevano dei pezzettini di “cicole”, del salame, dello strutto e del formaggio e si sistemava il tutto in una teglia, aggiungendo un pizzico di sale. Si infornava e si cuoceva a fuoco lento; poi si serviva, tagliata a spicchi come una focaccia.

“’A Pizza ‘e scarole”

Era la pizza (focaccia) tipica di Natale, di Pasqua e delle gite “fuori porta”; si può dire, senza retorica, che la pizza di scarole era la “regina” delle scampagnate.
Per preparare la pizza si scioglieva il lievito di pane (‘o criscito) o un pezzetto di “lievito di birra” in acqua tiepida salata, aggiungendo la farina e impastando il tutto, fino ad ottenere un panetto morbido. Ottenuto l’impasto, si lasciava lievitare per qualche ora, coprendo il “panetto” con un pulitissimo tovagliolo da cucina. Si prendeva una teglia e si ungeva la superficie interna con olio o strutto. Poi si stendeva metà dell’impasto sul fondo del tegame, fino a coprire l’intera superficie. Le scarole, che nel frattempo erano state lessate, venivano distribuite sopra lo strato di pasta, aggiungendovi acciughe salate, pinoli, uvetta passa, sale e olio.  Alla fine si copriva il tutto con l’altra metà di impasto di pane. La pizza era messa a cuocere in forno a giusta temperatura e, poi, servita, ancora calda.

“‘E scagluozzi”

Si presentavano al termine della frittura, come dei tronchetti dorati a forma di piccoli triangoli, composti dall’impasto di farina di granoturco e uova, a cui veniva aggiunto del formaggio e un pizzico di sale e di pepe.

“Taralli alla sugna”

Erano dei rustici serviti durante le feste organizzate in famiglia, come il ricevimento di nozze o in altre rare ricorrenze. Venivano preparati dall’impasto di farina amalgamata con della sugna, a cui si aggiungeva un pizzico di sale e di pepe.

Le altre specialità importate dalla cucina tradizionale partenopea

“Mulignane ‘a fungetielle” (Melanzane fritte con sugo di pomodoro)

Le melanzane venivano lavate e tagliate a cubetti con tutta la buccia. Si mettevano i dadini in acqua e sale e si lasciavano riposare per circa mezz’ora o anche di più. Successivamente si premevano con le mani per favorire la fuoriuscita del loro liquido e si versavano in una padella con olio già ben caldo. L’olio doveva essere, precedentemente, insaporito con aglio. Quando le melanzane iniziavano a diventare dorate, si aggiungevano dei pomodorini freschi ricavati dai “pennoli”, che venivano intanto tagliati a filetti; poi si lasciava cuocere il tutto ancora per venti minuti, girando spesso il contenuto nella padella. Le melanzane così preparate si servivano a tavola cosparse di formaggio grattugiato, con qualche foglia di basilico fresco e, sovente, anche con una spruzzatina di pepe.

“Strangulaprieveti” (Gnocchi di patate)

Per preparare gli “strangulaprieveti” fatti in casa si iniziava con l’impastare, con un poco di acqua bollente, un chilo di farina, aggiungendo tre patate sbollentate, due uova intere e un pizzico di sale. Dopo aver amalgamato il tutto, si continuava a impastare il composto per renderlo omogeneo e morbido. Successivamente si tagliava l’impasto in piccoli pezzi.
Ogni pezzo era lavorato a mano sulla superficie di un tavolo. Ogni tanto si aggiungeva una spolverata di farina. Si formavano dei “grissini” di pasta che, poi, venivano tagliati con il coltello a forma di dadini. I dadini erano modellati con l’aiuto delle dita, in modo da farli assumere la caratteristica forma “arricciata”. Tutto l’impasto si lasciava riposare su di un tavolo per circa due ore, aggiungendo una spolverata di farina e coprendo con un telo asciutto. Gli “strangulaprieveti” erano, infine, cotti in acqua. Essi venivano versati nella pentola, al manifestarsi del primo bollore dell’acqua. Dopo la cottura erano posti in una zuppiera e conditi con il sugo del ragù. Una vera delizia per il palato!!!

“‘A brasciola”

La “brasciola” era il tocco di classe al ragù della domenica. Possiamo dire che essa non ha conosciuto decadenza ed è ancora in auge nella “nostra” cucina odierna.
Veniva preparata usando grosse fette di carne di mucca o vitellone. Una volta sistemate tutte le fette di carne su un supporto di legno piano, si aggiungevano aglio e prezzemolo spezzettati, uva passa e pinoli, scaglie di formaggio e pepe. Poi tutte le “braciole”, erano singolarmente arrotolate, in modo che il ripieno capitasse al “centro” di ognuna, legate con filo di cotone bianco e messe a cuocere nel sugo del ragù.

“Mulignane alla scarpone”

Si tagliavano le melanzane in due metà e si estraeva la parte interna, realizzando una sorta di “scarpone”, da cui l’origine del nome dell’antica ricetta. La parte intera asportata veniva ridotta a dadini e fritta in olio, insieme ad olive, capperi, pane grattato e un pizzico di sale. Alla fine della frittura, si eseguiva il riempimento degli “scarponi”. Poi tutti gli “scarponi”, così riempiti, venivano sistemati in una teglia, infornati e lasciati cuocere a fuoco lento.

Trippa al sugo di pomodoro

A differenza della trippa al limone, quella venduta dai venditori ambulanti, la trippa al pomodoro era cucinata in casa e si preparava con la conserva di pomodoro. Spesso s’accompagnava con del pane e si mangiava anche durante i lavori nei campi (‘a marenna).

“‘O bror’‘e purpo” (brodo di polipo)


Il brodo di polipo era anch’essa una pietanza consumata durante l’inverno. Si ricavava dalla cottura del polipo, in acqua pepata. Il brodo si serviva bollente in giare di vetro o tazze di porcellana.

“Broccoli ‘e rape al limone”

Dopo la cottura in acqua, i broccoli o le rape lesse si condivano con olio, limone, aglio e sale.

Gli altri “piatti” tipici o “adottati” dalla “Terra del Salvatore”, ancora oggi preparati, sono:

“Peperoni fritti con olive e capperi”

“Gateau ‘e patate e panzarotti” (Pizza di patate al forno e crocchè di patate fritte)

“Alici ‘ndorate ‘e fritte”

“Minestra ‘mmaritata” (Minestra insaporita con il brodo ricavato dal grasso di pollo ruspante)

“Peperoncini ‘e sciummo cu’ pummarulelle ‘e piennuli(Peperoncini verdi fritti, conditi con sugo di pomodoro e basilico)

“‘E fave e pesielli” (Fave e piselli)

“Pizza ‘e farenella” (Dolce tipico di Carnevale)

“Frittata ‘e cipolle”

“Zuppa di cipolle”

“Alici ‘nturtiere” (Alici con aceto)

“‘A parmigiana” (Melanzane fritte, finite al forno con ragù e formaggio)

“Cucuzzielli alla scapece” (Zucchine fritte condite con aceto)

“Friarielli”, oppure “Vvruoccoli avutati” (Broccoli o rape “saltati” in olio e aglio).

Salvatore Fioretto  

 

Zeppulelle con i fiori di zucchini

sabato 25 ottobre 2025

La cucina nella tradizione contadina del quartiere di Piscinola... Buon appetito! (Prima parte)


Quello che pubblichiamo in questo post è l'intero capitolo contenuto nel libro "Piscinola la terra del Salvatore - Una terra, la sua gente, le sue tradizioni" 2010 ed. The Boopen, dedicato alle pietanze tipiche e tradizionali del quartiere di Piscinola; molte non sono ricette esclusive del luogo, mentre alcune appartengono alla tradizione locale, con delle varianti particolari che sono state tramandate dalle generazioni passate. 
Buona lettura. 

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“‘A ciambotta” (minestrone estivo)

Non si può iniziare questo capitolo senza parlare del piatto contadino per eccellenza, cioè “’a Ciambotta”. Per preparare la “ciambotta” si utilizzavano i seguenti ingredienti: 2 melanzane, 1 cipolla, 3 zucchine, 1 peperone, 4 patate, peperoncini di fiume (di sciummo), pochi pomodori, olio, sale ed acqua. Occorreva ridurre a dadini le melanzane, in quattro parti le patate, a fette le zucchine, a listelli il peperone e in due parti i peperoncini “’e sciummo”. Dopo aver fatto soffriggere la cipolla nell’olio extravergine di oliva, si aggiungeva un poco d’acqua nel tegame e quindi si versavano tutti gli ingredienti insieme. Dopo aver aggiunto ancora un poco d’olio e un pizzico di sale, si lasciava cuocere per un’ora circa a fuoco lento.

“‘A cagliata” (formaggio fresco)

La “cagliata” era un formaggio tenero come la ricotta, che veniva prodotta nelle nostre masserie in maniera molto artigianale. L’ingrediente principale era il latte vaccino, che si faceva cuocere a fuoco lento, aggiungendovi il caglio. Il caglio era ed è un aggregante naturale, ricavato dall’intestino di capra, che veniva comprato in farmacia o in drogheria.  Alcuni contadini sostituivano il caglio col “latte” di fico (‘e ficucielle). 
Dopo aver tenuto il latte sul fuoco per un certo tempo, si iniziava a girare il liquido con un mestolo di legno. Man mano che trascorreva il tempo, il latte incominciava a espellere il siero ed a coagulare, da qui il termine “cagliata”. La parte rappresa veniva quindi raccolta e premuta in un panno e conservata in credenza, adagiata in un contenitore di legno o di vimini. La “cagliata” era consumata di solito assieme al pane fresco, durante la colazione.

Pane e cipolla

Era una ricetta semplicissima e antica. Consisteva nel mangiare una cipolla cruda, alternandola con un pezzo di pane duro, meglio se integrale (pane ‘e ‘rane) ed era accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso.

“Pane cuotto”

Pane, olio e alloro era una pietanza povera, che si preparava aggiungendo all’acqua in ebollizione, contenuta in una pentola, sale, olio, foglie di alloro e pepe. Dopo la cottura si otteneva un brodo, che si versava su del pane secco o su ”freselle”, sistemate in piatti fondi (accupputi). 
Spesso le fette di pane erano gustate a merenda, condendole solo con un filo di olio di oliva.

‘E patane sotto ‘a cennère (patate cotte sotto la cenere)

Questo modo tradizionale di cuocere le patate è rimasto indelebile nel ricordo di molti anziani di Piscinola, soprattutto per la fraganza e l’aroma emanato dalle patate dopo la cottura. Cottura fatta in maniera estremamente semplice ed economica. Per cuocere le patate si utilizzava la cenere ardente del camino.  Si praticavano uno o due fori nella cenere, possibilmente sotto la legna accesa. La cenere doveva essere priva di tizzoni ardenti. Si pulivano le patate, eliminando le eventuali radici e si ponevano direttamente sotto la cenere. Trascorsa una mezz’ora si controllava la cottura. A cottura ultimata, dopo averle fatte raffreddare, venivano pulite con un panno pulito e private della “pellicina”. Si aggiungeva un poco di sale e, a volte, anche un po’ di pepe e si gustavano con un buon bicchiere di vino, in compagnia di amici o semplicemente in famiglia. Era una pietanza genuina e saporita e veniva consumata specie durante le fredde serate di inverno. 
E' opportuno precisare che le patate erano messe a cuocere sotto la cenere senza l'ausilio di carta argentata. 

“‘E nnòglie” (insaccato con interiora di maiale)

Le “nnòglie” si producevano utilizzando, innanzitutto, frattaglie del maiale, tagliate “a punta di coltello” in parti piccolissime e, successivamente, messe sotto sale per circa due ore. Indi pulite dal sale, vi si aggiungeva un poco d’aglio, del peperoncino piccante e un pizzico di pepe. Con il composto ottenuto si procedeva ad insaccare degli intestini di maiale. Gli intestini, che un tempo erano venduti in macelleria, dovevano essere preventivamente messi in ammollo (‘a spugnare) in acqua e sale.  Dopo il riempimento, le “nnòglie” prodotte dovevano essere legate con spago e messe a stagionare, prima vicino al camino e dopo in un luogo fresco e ventilato. Un tempo si preparava un’affumicatura in aperta campagna, bruciando le foglie secche e rametti di viti. Dopo tre mesi di stagionatura, si potevano consumare. Erano utilizzate prevalentemente nelle minestre di verdure.

“‘E cicole”

Abbiamo già descritto in altro punto del libro come erano prodotte le “cicole”. Le “cicole” erano consumate come antipasto, oppure come “spassatiempo” nelle fredde serate d’inverno. Le “cicole” erano anche utilizzate per realizzare delle focacce.

“Puparuoli ‘mbuttunate” (Peperoni imbottiti)

Questo piatto, come già detto, veniva preparato dalle nostre nonne e mamme, in occasione della festività del protettore di Piscinola, il SS. Salvatore. Si pulivano i peperoni con uno strofinaccio inumidito e poi si mettevano ad arrostire su una griglia a fuoco lento. Dopo la cottura si asportava la “pellicina” bruciata, il gambo e gli interni con i semi. 
Quindi si preparava il ripieno, mediante un impasto composto da: del pane bagnato, un uovo intero, del formaggio, del prosciutto a dadini, un po’ di carne macinata, delle olive nere, un pizzico di sale e di pepe e, infine, un filo d’olio. Si inseriva la farcitura all’interno dei peperoni e poi si chiudevano “cucendoli”, con ago e filo di cotone! Si ponevano i peperoni in una teglia, precedentemente unta con olio di oliva e si infornava, cuocendo il tutto a fuoco lento. In passato i peperoni, scelti nelle varietà gialle o rosse, venivano messi ad arrostire direttamente sulle “carbonelle” ardenti.

“Gallina (‘o pullastro) ‘mbuttunata”

Per la preparazione di questo piatto, considerato molto importante nella nostra cucina, si iniziava con la preparazione della gallina, asportando le interiora ed eliminando anche il collo e le zampe. Poi si passava a preparare il ripieno, composto dalle interiora della stessa gallina, che erano fritte in olio, con l’aggiunta di un uovo, di formaggio ”romano”, di pezzetti di salame, della mollica di pane bagnato, di un po' di prosciutto, di un po’ di carne macinata e di un pizzico di pepe e di sale. Questo ripieno si inseriva nel ventre della gallina, tutto amalgamato e, poi, si cuciva la zona del taglio con ago e filo. La gallina, così preparata, si poneva in una teglia, aggiungendo un filo d’olio e del sale e si adagiava nel forno, per il tempo necessario alla sua cottura.

“Lengua ‘e  vacca cu’ ‘o limone(lingua di vacca lessa al limone)

La lingua di vacca veniva bollita a fuoco lento, fino a cottura. Si eliminava la “pelle”, si tagliava a pezzettini e veniva condita con sale e limone per essere così servita. Spesso, per preparare questo piatto, si utilizzava anche la lingua del maiale.

“Ragù, cu’ ‘e tracchiulelle, lengua e zizza ’e vacca” (Ragù con tracchie e mammelle di mucca)

Il ragù era il piatto base della domenica. Si iniziava a prepararlo di buon mattino in un “pignatiello” di terracotta, facendolo cuocere a fuoco lento, perché si diceva che doveva “pippettare” e “addensarsi“ lentamente, fino a raggiungere la densità stabilita. Alla base del ragù c’era la conserva di pomodori, diluita con un poco d’acqua, poi un pezzo di lardo, una cipolla tagliata a fettine sottili, un pizzico di sale e un pezzo di manzo sezionato in più parti. 
A questi ingredienti si aggiungevano spesso anche pezzi di tracchiole di maiale (tracchiulelle), parti di lingua e parti di mammella di mucca (‘a lengua e ‘a zizza ‘e vacca). Sovente, si mettevano a cuocere nel sugo del ragù anche delle cotiche di maiale (‘a cotene). Per evitare che il ragù bruciasse sul fondo del tegame (pigliare sotto), si doveva rigirarlo più volte, con un cucchiaio di legno (cucchiarella). Con il ragù si condiva la pasta proveniente da Gragnano, tipo “ziti” o “mezzani” o i casarecci “strangulaprieveti” ed era portata a tavola in “zuppiere” fumanti. Fino agli anni ’50, i maccheroni erano venduti “sfusi”, adagiati in una carta azzurra, chiamata, appunto, la “carta dei maccheroni”. Al tempo dei bombardamenti del 1943, la carta azzurra della pasta si usava per oscurare le finestre delle case; addirittura qualche anziano ci ha riferito che essa veniva utilizzata anche per oscurare i fanali anteriori dei tram.

“Baccalà scaurato” (baccala bollito, condito con limone)

In un tegame si metteva a cuocere il baccalà tagliato a pezzi grossi, unito ad abbondante quantità d’acqua. Al termine della cottura si versavano i pezzi di baccalà nei piatti, aggiungendo un po’ di acqua di cottura e condendo con olio extravergine di oliva e con sale, limone e aglio.

“Stocco e curuniello scaurati” (stoccafisso e coronello lessi, conditi con limone)

Il procedimento era uguale a quello descritto per il baccalà.


“Fegatielle ‘e puorce” (fegatini di maiale fritti)

Il fegato di maiale si riduceva a pezzettini e si avvolgeva con quella parte d’interiora che era chiamata “‘a rezza”, insieme a una foglia di alloro. Si friggeva in olio bollente e si serviva a tavola caldo con un pizzico di sale.

Involtini di agnello o di gallina (“‘e stentenielli ‘e pucuriello”)

Si preparavano avvolgendo le interiora di agnello (intestini, opportunamente aperti e lavati in acqua corrente), attorno a rametti di prezzemolo, al cui interno, talvolta, si inserivano anche spicchi d’aglio e un pizzico di sale e di pepe; il tutto era poi legato con filo di cotone. Gli involtini così preparati erano messi a cuocere nel sugo del ragù domenicale. Sovente si utilizzavano per questa ricetta anche le interiora di gallina."

Casatiello di Soffritto
Molto probabilmente anche il tortano rustico, preparato utilizzando come riempimento il soffritto di maiale, risulterebbe essere un piatto tipico di Piscinola, anche se è stato completamente dimenticato. 
Nell'anno 2015, nel "sito web" di Luciano Pignataro fu pubblicato la foto di un tortino rustico, denominato "Casatiello di soffritto di Piscinola", con tanto di ricetta. Il curatore del sito sostenne di aver riprodotto un rustico molto antico, a base di soffritto, ciccioli (cicole) di maiale e altri ingredienti, tipico del quartiere di Piscinola. Sarebbe interessante ricevere dai lettori una conferma di questa correlazione culinaria.

"Casatiello di soffritto di Piscinola"

(segue nella 2^ parte)

Salvatore Fioretto 

mercoledì 24 settembre 2025

1939... Centenario della canonizzazione di Sant'Alfonso, un "villino" inaugurato a Marianella...

In occasione della ricorrenza della nascita di Sant'Alfonso Maria dei Liguori, che capita il 27 settembre prossimo, pubblichiamo questa bella testimonianza che decrive la cerimonia di inaugurazione dello spazio attrezzato adiacente alla casa natale di Sant'Alfonso a Marianella, denominata "Villa S. Alfonso", avvenuto il 2 luglio 1939, con l'erezione di una statua in marmo a mezzo busto del Santo sul portale d'ingresso del piazzale. 
Il racconto è stato tratto dal periodico mensile: “S. Alfonso”, del 2 luglio 1939, anno X, n.7 - pagg. 128-129):

 

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"Per le feste centenarie di S. Alfonso M. dei Liguori

Marianella.

Cento anni or sono, il 26 maggio 1839 la S. Chiesa coronava la fulgida fronte di S. Alfonso M. dei Liguori, il Santo della Preghiera, il Dottore incomparabile, l’Illustre Fondatore di una Congregazione di Missionari, della più splendida gloria che si possa dare ad un uomo, della corona della Canonizzazione. E Marianella, ridente borgata della bellissima Napoli, non doveva essere l’ultima a festeggiare il glorioso centenario del grande avvenimento, anzi la prima, mentre essa il 27 settembre del 1696 aveva la gloria di fargli i natali, come canta bellamente una canzonetta popolare:

Venturosa Marianella
Che la culla gli donò.

Per iniziativa del solerte Superiore P. Egidio M. Centrella si è voluto iniziare la ricorrenza del sì bel Centenario con la inaugurazione di un villino dedicato proprio a S. Alfonso, villino che non solo abbellisce questo raro cimelio alfonsiano, ma serve ancora a bonificare alquanto la zona circostante la Culla del glorioso nostro Santo Fondatore.
Si è detto che Marianella doveva essere la prima, ed essa infatti ha anticipato di un mese l’inizio delle feste centenarie.
Il 26 aprile, giorno sacro alla Madonna del Buon Consiglio, si inaugurava la Villa S. Alfonso. A rendere più solenne la inaugurazione vi prendeva parte il M. R. Provinciale P. Biagio Parlato, nonché la massima parte della Comunità di Napoli; il Superiore, P. Jacovino, P. Javarone, P. Carioti, P. Romano e diversi Fratelli laici. Alla festa gentile veniva ancora invitata un’eletta schiera di nostri amici e devoti di S. Alfonso specie quelli con loro contributo avevano cooperato all’erezione del Villino.
Notavasi fra essi il carissimo Ingegnere Di Maro che più di tutti si era cooperato con i suoi consigli e con la sua direzione, e tutto l’aveva fatto per divozione a S. Alfonso. Ci onorò della sua presenza il Console Cuoco che più munifico era stato nella sua offerta, e con lui il Dott. Landi, Cuozzo, Lambo, Cristiano, Ciccarelli, Errichiello, Saetta. Anche la Direttrice Magliano, circondata da un’eletta schiera di Insegnanti, come la Di Maro, Cristiano, Lambo
 (la prof.ssa Marzia Magliano era la direttrice scolastica della scuola "Torquato Tasso" di Piscinola e quindi anche il corpo docenti menzionati sono della scuola di Piscinola, che a quei tempi ospitava anche gli studenti residenti a Marianella - n.d.r.), non volle mancare a rendere con la sua presenza un tributo di ossequio e di venerazione a S. Alfonso. Intervenne anche la rappresentanza della Stampa e vi parteciparono i corrispondenti locali del “Mattino” e del “Popolo di Roma”.
La cerimonia ebbe inizio con la benedizione delle due statue, una della Madonna istallata nell’edicoletta interna del giardinetto e rappresentate la Immacolata Concezione, la seconda un mezzo busto marmoreo di S. Alfonso, posto sull’arco d’ingresso. La benedizione liturgica fu data dal M. Rev. P. Superiore Centrella e il sacro rito fu accompagnato da cantici spirituali eseguiti dalla Schola Cantorum diretta dal Prof. Saetta. A seguito della Benedizione vi furono poche parole di circostanza dette dal Rev. P. Di Chio. Con grande soddisfazione ed approvazione degli uditori il Padre, con parola disinvolta e molto appropriata, esordendo con dire che la presente cerimonia era come una dolce parentesi alla vita movimentata del mondo e alla psicosi di guerra che tutti pervade, aggiunse che era dovere dei Redentoristi ringraziare quanti avevano loro procurato questo sollievo spirituale e in primo luogo S. Alfonso, che con la sua vita santa, aveva meritato tanta gloria essenziale ed accidentale; in secondo luogo gl’invitati che con la loro offerta avevano cooperato all’erezione della Statua e del villino; in terzo luogo il P. Centrella che con sacrifici e stenti aveva ideato ed attuato il progetto.

Lapide marmorea posta sulla facciata del palazzo 
di Marianella che appartenne alla famiglia Liguori

La festicciola fu conchiusa con un rito sacro; fu cantato il Te Deum  e data la Benedizione col SS. Sacramento.
Le feste centenarie iniziatesi con tanta solennità si sono continuate e continueranno ancora per tutto l’anno: e l’ultima domenica di Maggio come la più prossima al 26, data precisa della Santificazione di S. Alfonso si è cantata una Messa solenne con Comunione generale, a cui hanno preso parte le Associazioni della Madonna del Perpetuo Soccorso e di S. Alfonso.
Fidenti dell’aiuto del Buon Dio ci auguriamo che dette feste così bene  iniziatesi possono seguire e completare con ogni solennità a profitto delle anime nostre e ad onore del gran Servo di Dio e Dottore della Chiesa universale: S. Alfonso M. dei Liguori."

Salvatore Fioretto 


Cappella del Tesoro di San Gennaro, statua reliquario d'argento raffigurante Sant'Alfonso M. dei Liguori