sabato 26 settembre 2015

Un ricordo d'argento per il più napoletano tra i napoletani....


Un tempo, quando era l'unico napoletano certo ad essere stato acclamato santo, si usava per indicarlo proferire il detto: "Il più santo tra i napoletani e il più napoletano tra i santi", ebbene Sant'Alfonso ha un altro primato imbattuto, è stato il santo ad essere nominato compatrono della città di Napoli in tempo rapidissimo, avvenne infatti l'anno seguente alla sua canonizzazione, nel 1840.
Potrebbe apparire una notizia inverosimile, ma chi promosse e incoraggiò questo riconoscimento fu proprio il Comune di Napoli, nella persona del sindaco dell'epoca, il duca Nazario Sanfelice, il quale, oltre a fornire un cospicuo contributo per le spese occorrenti al processo canonico, a canonizzazione avvenuta, si fece carico, come capo dell'amministrazione comunale, di realizzare una pesante statua d'argento con l'immagine del santo, cesellata e abbellita con gemme, per essere depositata nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, secondo l'antichissima tradizione napoletana. 
Il mensile "S. Alfonso"
Tradizione antica questa, che dal lontano XVI secolo ha visto aumentare fino ad oggi in maniera rilevante il numero dei santi compatroni della città, scelte spesso scaturite dalla crescente richiesta di protezione contro le numerose calamità e necessità materiali che affliggevano il popolo, ma anche per una sorta di prestigio tra le famiglie nobili o tra le confraternite e gli ordini monastici a cui un dato santo era legato. Nessuna città al mondo ha quindi un così alto numero di santi protettori: ad oggi i santi compatroni della città assommano a ben cinquantatré, con le rispettive statue d'argento conservate nella splendida Cappella interna al Duomo e portate in processione nel mese di maggio (dal conto sono esclusi San Gennaro e l'Immacolata); l'ultima ad essere ammessa è stata santa Giovanna Antida Thouret, alcuni anni fa.
La statua di Sant'Alfonso fu fusa e cesellata dal famoso argentiere napoletano Gennaro Russo, maestro attivo tra il 1832 e il 1860, che fu autore di molte opere d'arte in argento, oltre ai busti di santi anche di artistici ostensori e di altri oggetti sacri, conservati in tutta la Regione, da Salerno all'isola d'Ischia. C'è da precisare che il panneggio della statua di Sant'Alfonso è in lamina d'argento incisa a sbalzo, mentre la testa e le mani sono ottenute per fusione, da stampo.
 
Ecco una sintesi della storia dell'evento, raccolta da un articolo pubblicato nel periodico mensile: "Sant'Alfonso", dal titolo "Sant'Alfonso compatrono di Napoli", scritto da Oreste Gregorio:

Statua d'argento di Sant'Alfonso nella Real Cappella del Tesoro di S. Gennaro
"Nel giugno del 1839, appena pochi giorni dopo la canonizzazione proclamata dal Papa Gregorio XVI, il Rev.mo Rettore Maggiore dei Missionari Redentoristi p. Camillo Ripoli (m. 1850), indirizzava al Sindaco di Napoli una lettera in cui esponeva: «Avendo l'altissimo Iddio Sublimato agli onori di essere ascritto nel catalogo de' Santi il B. Alfonso M. de Liguori, vescovo di Sant'Agata de' 'Goti, fondatore della suddetta Congregazione, ed essendo lo stesso Santo cittadino napoletano, ascritto alla prima nobiltà di questa città di Napoli, ed avendo nella città stessa sparsi non pochi sudori per la santità delle anime, ed ora ch'è nel cielo vieppiù ha mostrato la sua benefica protezione ad ottenere a pro di essa grazie senza numero. A renderlo maggiormente propizio al bene spirituale e temporale de' suoi amati concittadini, si brama da tutti i ceti di persone, di renderlo dichiarato Compatrono di questa fedelissima città. E perché ad ottenersi dalla Santa Sede, e dal Re nostro Signore una tale grazia da tutti ardentemente bramata, si richiede prima il voto della città in corpo riunita, perciò il supplicante prega le Signorie loro Eccellentissime volersi benignare di accedere alle ritualità a tal uopo necessarie». 
Il 2 luglio in un'adunanza municipale il Sindaco Nazario Sanfelice, Duca di Bagnoli, presentò la mozione «Se sant'Alfonso de Liguori appartener debba o no alla classe de' santi Patroni».
La discussione civica fu brevissima: nessuno sollevò opposizione.
Immagine di Sant'Alfonso nel convento di Marianella
La proposta accolta con deferenza venne approvata con unanimità di suffragi. Non consta se nel dibattito affiorò il concetto che il Santo nella prima metà del Settecento era stato per un decennio un loro collega quale membro della pubblica amministrazione.
I Decurioni stimando un onore grande per Napoli la santifìcazione di un sì illustre concittadino, deliberarono «dichiararsi sant'Alfonso de Liguori Padrone della città» con l'offerta di 60 ducati annui nella consegna della sua statua alla real cappella di san Gennaro.
Il 23 marzo del 1840 il predetto Sindaco per sollecitare la pratica avviata notificava alla Deputazione del Tesoro di San Gennaro il regio rescritto ricevuto dall'Intendente della Provincia di Napoli: «Sulle premure di Mons. Arcivescovo di Patrasso che a nome della Congregazione del SS. Redentore chiedeva che sant'Alfonso de Liguori fondatore dell'anzidetta Congregazione fosse annoverato fra i santi Patroni di questa città, Sua Maestà nel consiglio ordinario di Stato de' 2 correnti si è degnato impartirvi la sua approvazione. Nel real nome glielo partecipo per l'uso di risulta. Napoli 4 marzo 1840. N. Santangelo».
La piazza di Marianella e il convento con la casa Natale di Sant'Alfonso
Il Card. Arcivescovo Filippo Giudice Caracciolo, esaurite le pratiche preliminari, otteneva il 18 maggio l'assenso del Papa Gregorio XVI sopra la scelta di sant'Alfonso come Patrono.
Previa una deliberazione del 19 luglio, il Sindaco Sanfelice si recava con i componenti del Decurionato al palazzo arcivescovile per concordare le formalità consuete e coronare col rito religioso l'attesa della cittadinanza.Il 8 agosto l'Em.mo Caracciolo comunicava al Presidente della Cappella del tesoro di san Gennaro: «Dovendo aver luogo nel dì 24 del corrente mese la processione dei glorioso sant'Alfonso M. de Liguoro già dichiarato Protettore di questa città giusto il rescritto pontificio del 18 maggio corrente anno ho l'onore riferirle in riscontro al suo foglio del 13 dell'andante che in quanto al trasferimento della statua dalla propria chiesa nella cappella di san Gennaro io approvo, e do il mio consenso a quanto si desidera disporre da cotesta real Deputazione; serbandosi però lo stesso metodo che fu praticato negli anni scorsi per gl'ultimi Santi eletti a Padroni, senza veruna menoma alterazione. La prevengo intervenire anch'io in detto accompagnamento fin dentro al tesoro.
Sant'Alfonso in età giovanile, dipinto celebrativo
Per lo invito fatto agl'Ill.mi e Rev.mi canonici, i medesimi lo gradiranno volentieri per la straordinaria festività».
La processione, come raccontano i cronisti coevi, si snodò in stile sontuoso dalla chiesa di Sant'Antonio a Tarsia, officiata dai Padri Redentoristi, con larga partecipazione di autorità religiose e civili, con squadroni di cavalleria e fanteria e con musica militare.
Attraversate le principali strade, assiepate di popolo festante, raggiunse la cattedrale. I cerimonieri metropolitani registrarono la data della ratifica dell'istrumento avvenuta il 24 agosto 1840: «Sant'Alfonso M. de Liguori dichiarato Compatrono di Napoli. Solenne processione con la partecipazione della nobiltà, delle autorità militari e di molto popolo. Sua Eminenza in duomo: firma l'istrumento alla presenza dell'Ecc.mo corpo di città. La statua entra nella cappella di san Gennaro».
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Per tal via il 24 agosto 1840 sant'Alfonso nel suo busto argenteo entrò nel consesso dei Patroni raccolti nella prodigiosa Cappella di San Gennaro, meta tuttora dei pellegrini di ogni nazione. 
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Nella settimana nazionale di aggiornamento pastorale svolta a Pompei nel 1959 l'Em.mo Card. Castaldo, fragrante di amore per sant'Alfonso, lo propose all'assemblea quale Patrono del centro di orientamento: i congressisti vi aderirono con cordiali applausi, sapendo con quale intensa azione il Liguori visse le sue 4700 giornate episcopali e fece della piccola circoscrizione ecclesiastica di Sant'Agata dei Goti una diocesi pilota. 
La statua d'argento portata in processione a Santa Chiara
Né sfuggì ai napoletani il bicentenario della promozione di sant'Alfonso a vescovo (1762-1962): gli dedicarono una campana del tempio mariano di Capodimonte e una settimana liturgica nella parrocchia dei Vergini, dov'era stato battezzato.
[...]
Per la ricorrenza del I centenario della morte del Liguori (1 agosto 1887) il menzionato Cardinale con un avviso stampato mobilitò tutti i napoletani ad interrompere il lavoro e a recitare tre Gloria Patri, mentre le campane annunziavano il mezzodì. Nel 1896 volle essere presente col Sindaco di Napoli a Marianella, dove si festeggiava il II centenario della nascita del Santo; scoprì la lapide marmorea murata sulla facciata della nuova chiesa. In quella occasione compose un affettuoso epigramma: «Ast ego, qui Alphonso devotus gloriar esse, - quosquqe simul patriae foedere iungit amor, - plectrum tango libens, indoctaque carmina pango, - sunt animi grati quae monumenta mei». 
[...]
Scena della predizione della santità di Alfonso, da parte di San Francesco Geronimo
(Dipinto conservato nella cappella del convento di Marianella)

 Conclusione:
Il Card. Alfonso Capecelatro, uno dei biografi più celebrati del Santo, il 19 giugno 1896 scriveva ai giovani di un circolo romano: «Io credo che voi, studiando profondamente, come solete fare, le storie del reame di Napoli nel secolo XVIII, ci troverete dentro, benché gli scrittori non lo nominino, assai spesso Alfonso de Liguori, e l'efficacia grande della sua pietà, della sua dottrina, de' suoi libri e del suo apostolato non solo religioso, ma altresì civile. Soprattutto troverete il Liguori, fiammeggiante d'amore fraterno, sempre a lato del popolo minuto, che lo consola, lo istruisce, lo mansuefà, lo rende migliore, lo eleva a pensieri e desideri nobilissimi. Nelle strette attinenze tra il Liguori e il popolo napoletano noi potremmo leggere chiaramente la natura particolare di questo popolo tanto immaginoso, scioperatamente lieto, acuto nel giudicare, e ricco di fede, di cuore e di bonomia. Il popolo napoletano tenne sempre sant'Alfonso come un amico suo dilettissimo, e quasi come un altro popolano» .
[...] 
Salvatore Fioretto


In occasione della ricorrenza del giorno natale in terra di Sant'Alfonso M. de Liguori, che avvenne a Marianella, il 27 settembre 1696, la redazione di Piscinolablog porge gli auguri a tutta Marianella e all'intero territorio dell'Area Nord di Napoli.


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N.B.: Le foto riportate in questo post sono state liberamente ricavate da alcuni siti web, ove erano pubblicate. Esse sono state inserite in questa pagina di storia della città, unicamente per la libera divulgazione della cultura, senza alcun secondo fine o scopo di lucro.

venerdì 18 settembre 2015

Disastro tramviario sulla linea di Capodimonte a Napoli...


Il titolo è tra quelli inquietanti che, quando appaiono sulla prima pagina di un giornale, infliggono un certo terrore nell'animo di chi legge la cronaca, immaginando la sorte capitata ai passeggeri e, poi, sicuramente desta dei sentimenti di paura nella mente di familiari e amici delle vittime, ma, per fortuna  nostra,  questa notizia di cronaca risale all'anno 1907, precisamente nella prima decade del mese di maggio. Chi pubblicò la notizia, con un grande disegno a colori in prima pagina, fu un settimanale che oggi non è più presente in edicola, ma che ha fatto la storia della editoria italiana: si chiamava "La Tribuna Illustrata", edito a Roma.



Ecco la cronaca dell'evento, che riportiamo dalla pagina 3 del numero 19 (anno XV), di domenica, 12 maggio 1907.

"Le nostre pagine a colori"
Un accidente tramviario a Napoli
Un  gravissimo incidente  avvenne la settimana scorsa sulla linea tramviaria che serve ai Comuni al nord di Napoli. Il carrozzone n.2-bis discendeva lungo l'erta di Capodimonte, zeppo di viaggiatori. 
Ad un tratto, in un punto pericolosissimo, ove il binario costeggia, in curva assai stretta e in discesa ripidissima, il ciglione di un profondo dirupo, il carrozzone; lo deviava andando dritto contro il parapetto del burrone; lo abbatteva, e per un vero miracolo riusciva a fermarsi sull'orlo.
Il carrozzone sarebbe precipitato dall'altezza di quasi 100 metri sulla sottostante via Nuova di Capodimonte. 
Quello che al momento dell'urto avvenne non si descrive il contraccolpo, sbattè contro le pareti della vettura l'uno contro l'altro i viaggiatori, in modo che moltissimi rimasero feriti, contusi e taluno abbastanza gravemente.
La nostra prima pagina a colori ricostruisce la tragica scena."


La zona dove avvenne l'incidente raccontato è quella che oggi viene comunemente indicata con il toponimo di "Regresso"; il punto del deragliamento lo si può vedere nella foto sottostante, sul lato sinistro, dietro al lampione. Forse la cartolina deve essere proprio di quel periodo, perché c'è proprio un tratto di muretto divelto lì dove avvenne l'incidente... nessuno lo potrà mai confermare...
Ci è piaciuto raccontare di questo episodio del 1907, soprattutto per le semplicità e la sintesi con le quali il giornale descrive l'avvenimento, anche se, considerando il dislivello sul quale la vettura restò in bilico, non fu certo piacevole la brutta esperienza vissuta dai viaggiatori dell'epoca..
Gli incidenti capitati ai tram napoletani, sia a quelli appartenenti alle Tramvie di Capodimonte che a quelli delle Tramvie Provinciali di Napoli un tempo furono numerosi. Un tragico incidente avvenne in quegli anni anche sulla via del Campo, alla Doganella, quando un tram delle Tramvie Provinciali di Napoli ebbe un'avaria all'impianto frenante nella fase di discesa, e subì un deragliamento con conseguenti morti e feriti. 
Salvatore Fioretto




 
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lunedì 14 settembre 2015

I commercianti e gli ambulanti di Piscinola, dai ricordi di Luigi Sica (II^ parte)


Continua il racconto di Luigi Sica sui commercianti e gli ambulanti di Piscinola.

Don Eugenio o’ putecaro
Figlio della sorella di mio padre, don Eugenio Ercolano aveva per mio padre (che lui chiamava affettuosamente zio Totonno), una specie d’idolatria...
Egli fu un salumiere a tutto tondo... Viveva solo per quella sua salumeria; aveva  anche un cavallo, chiamato Principino, che trainava un calesse a due ruote, detto ‘o 'riroto’, col quale andava a comprare all’ingrosso ciò che avrebbe poi rivenduto al dettaglio. 
Di tanto in tanto, per la mia felicità, mi faceva montare sul calesse e andavamo a Melito, qualche volta a Giugliano, ad Aversa, a Teverola, e fino a Villa Literno. In questi giri di calesse cominciai a capire che il mondo era molto più grande di quanto immaginassi. 
Per andare a Melito, attaccava il cavallo al carro ed, evitando le strade trafficate, c’inoltravamo nella cupa detta dell’Acquarone, percorrendo strade di campagna che non avrei mai indovinato, quelle che allora tagliavano il territorio di Scampia, per giungere nei pressi della strada detta "Degli Americani", alle porte di Melito. 
Quasi all’altezza dell’attuale municipio del piccolo comune, c’erano dei negozi molto accorsati, dove don Eugenio provvedeva all’acquisto delle derrate: olio d’oliva, di semi, di sansa: mi spiegava che quest’ultimo è un olio meno pregiato, un sottoprodotto proveniente dal processo d’estrazione chimica dell’olio, tratto dai residui della polpa e dai frammenti del nocciolo dell’oliva. 
Comprava olive bianche e nere provenienti dalla Puglia, quelle tonde della Spagna, capperi in salamoia di Pantelleria, grossi pezzi di pane rotondi o fusi, detti ‘palatoni’, aventi delle grosse cavità nella mollica che parevano caverne..., ma che erano indice della ottima lievitazione. Don Eugenio acquistava, ancora, sacchi di farina, sacchi di ceci, di fagioli, di lenticchie, e sacchi di piselli secchi in polvere. Questi ultimi all'epoca tanto richiesti, perché si utilizzavano nella preparazione della minestra di pasta e piselli in polvere. Comprava anche sacchi di granone, di fave secche e anche barattoloni di concentrato di pomodoro, detto ‘o’ buattone’. 
L’arte sublime di don Eugenio era la preparazione del soffritto, tipico piatto nostrano, che ha per base le frattaglie di maiale: pezzi di polmone, di cuore, di trachea, da noi dette ‘coratella di maiale’. Il soffritto una volta preparato si vendeva bene per tutto l’inverno, ma era necessario prepararlo più volte, per l'elevata richiesta. Il soffritto lo preparavano anche i macellai e i cantinieri, ma quello di Eugenio era davvero "n’ata cosa!", era fatto veramente con il cuore, davvero imbattibile!
Dilettandomi di cucina, con modestissimi risultati, vi trasmetto qui la ricetta che ho molte volte sperimentato, valida per 6/8 persone. 
Per cucinare questa zuppa forte de "‘o suffritto", che va bene tanto sugli spaghetti che su tranci di pane raffermo, tostato, è opportuno avere disponibile i seguenti ingredienti:
1500 gr. di coratella di maiale,
600 gr. di prosciutto di maiale (a pezzettini),
250 gr. di salsa di peperoni piccanti,
500 gr. di concentrato di pomodoro,
foglie di alloro secco o verde, salvia, rosmarino, quanto basta,
250 gr. di sugna.
Una pentola di creta o di rame con l’interno ben stagnato. Preparazione: Tagliate e gettate via il grasso in eccesso della coratella. Lavatela più volte. Mettetela in una pentola senz’acqua, sul fuoco, per far asciugare tutti i liquidi che contiene. Scolate la coratella, risciacquatela e lavate anche la pentola. Rimettetela in pentola, insieme al prosciutto a pezzetti e fate rosolare il tutto nella sugna.
Quando sentirete lo "sfrigolio" delle carni in cottura e un buon profumo, aggiungete la salsa di peperoni piccanti, unitevi il concentrato di pomodoro, gli aromi, due bicchieri d’acqua e il sale. Fate cuocere tutto a fuoco lento, fino a rendere denso questo sugo, versatelo poi sugli spaghetti (preparati per l'occasione) o su delle bruschette, sulle quali avrete strofinato energicamente dell’aglio e ... buon appetito, alla memoria d’Eugenio.
In quei tempi, una famiglia di sei, sette, persone si sfamava con una minestra di pasta con polvere di piselli o con un piatto di pasta e fave. Alcune famiglie, meno abbienti, andavano nelle campagne per raccogliere delle cicorie, che poi erano utilizzate in cucina per farne delle zuppe. Andava già bene quando si poteva comprare 20 o 30 lire di soffritto, per non sprecare il pane raffermo... 
Queste vecchie ricette non vanno bene nei nostri tempi di salutari "diete leggere", ma l’ho proposta ugualmente, perché oggi c'è un sostenuto revival della cucina di una volta, quella semplice e genuina, come la nostra, fatta con alimenti poveri, insomma la cucina tipica contadina.
Le prime avvisaglie stanno nel fatto che i grandi chefs dei ristoranti importanti frequentati da vip e uomini del mondo della politica e della alta finanza, stanno elaborando e proponendo il piatto unico, da valere come "antipasto", "primo", "secondo" e "contorno".... 
Carissimo ed inimitabile Eugenio, mi resti eccezionalmente caro come un sapore antico di soffritto, di certe castagne del prete, così buone e mai più mangiate, quelle che solo Tu vendevi a Piscinola. 
Ricordo i Tuoi famosi ‘moscioni’, che così chiamavi, parlo dei fichi secchi di Natale, che erano una varietà pregiata di fichi chiari, asciugati al sole e profumati con foglie d’alloro o scorze di limone e talvolta farciti con gherigli di noci, o mandorle o nocciole. 
Tanta era la devozione per quella tua bottega e, direi, l'amore fluido che stabilivi con i prodotti che promuovevi, come la mortadella che chiamavi prosciuttella: ricordo che mostravi orgoglioso i semi di pistacchio che la profumavano e insaporivano, oppure la bontà dei salami napoletani che tagliavi di sbieco e, ancora, i grani d’Auricchio piccante, che assaporando goloso, offrivi assaggi alla tua clientela per acclararne la bontà che stava già nei tuoi gesti appassionati.
Una volta c’incontrammo in piazza e, parlando del più e del meno, ricordasti una gita in macchina, con una Fiat 128, con la quale ci recammo nella trattoria "da Achille", sita sulla strada che dalla Domitiana mena a Villa Literno. Lì assaporammo un gustosissimo fritto d’anguille, insieme a mio padre. Ricordo che tra anguille, cicorie, noci e vino asprino, tu ascoltavi zio Totonno che filosofeggiava affermando che tutti noi siamo alberi che nascono e muoiono da soli e che, fiori, frutti, foglie e rami sono solo brevi parentesi delle stagioni della vita che gravano pesantemente sul tronco, e che la solitudine, la morte stessa, sono mille volte preferibili alla loro caducità...
Ti vedevo guardare così intensamente e teneramente mio padre, quel tuo caro zio, che per Te era stato padre, mentre, con mirabile maestria, imboccavi l’anguilla intera e ne sfilavi la lunga lisca pulita, poi dicesti: ‘zi Totò nun ce penzamme, pensiamo, piuttosto, alla prossima volta che verremo qui...
Ci ripromettemmo di farci una mangiata a casa mia nelle feste di Natale di quell'anno, previo acquisto di anguille, sia per friggerle sia per farne una zuppetta con cicorie, piatto che avresti preparato con le Tue mani... 
Non è stato possibile, il diabete si portò via la Tua Puppenella e tu, "tronco" privo di fiori, frutti, foglie e rami, e senza di lei, restasti anche privo di radici... Te ne sei andato prima, non ce l’hai fatta a stare da solo!
Il destino ci negò un pranzo natalizio e, credimi, è strano, ma è bellissimo, come se una "sottrazione" s’è fatta quotidiana "addizione" di ricordi e di sentimenti, che restano con te presente nella mia mente, molto, molto caramente.
Luigi Sica 

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