venerdì 23 luglio 2021

1-2 agosto 1787... Una folla incontenibile a Pagani, per salutare il Santo di Marianella...!

In occasione del "Dies Natalis" di Sant'Alfonso, ovvero della Sua nascita al cielo (ricordiamo che Alfonso morì a Pagani di Nocera, il giorno 1 agosto del 1787), abbiano pensato di ricordare per questa ricorrenza, gli imponenti e straordinari funerali che furono celebrati a Pagani, per l'amato padre fondatore dei Redentoristi. Per tale compito abbiamo scelto la cronaca molto dettagliata, contenuta nella biografia, che porta il titolo: "Compendio della vita di S. Alfonso Maria de Liguori, estratto dai processi giuridici di sua causa dal Sacerdote Giacinto Amici, Torino, anno 1839". Il Giacinto fu il difensore durante il processo canonico, che portò all'elevazione di Alfonso agli onori degli altari. Al termine del racconto è riportato anche il miracolo del bambino, che avvenne quando erano ancora in corso i funerali. Ecco la parte estratta dal testo:

"Gran commozione e concorso del popolo ai solenni suoi funerali.

Il suono lugubre della campana annunziò alla città di Nocera esser morto il gran Servo di Dio, l'insigne operaio evangelico, il padre de' poveri, il consolator degli afflitti. Tali in vero furono le voci che in quell'istante rimbombar si udirono per le contrade tutte della città. Non vi fu persona, che abbandonata ad un tratto la casa, e gl'interessi, non si portasse a dar segni di grata riconoscenza e venerazione a quegli che avendo in vita beneficato tutti, sperar si doveva ugualmente propenso ad interceder da Dio grazie per tutti. Intanto da padri della Congregazione, e da altri pii sacerdoti processionalmente si calò il corpo del Santo Vescovo nella gran cappella dedicata all'Immacolata Concezione di Maria nel piano di quel collegio di S. Michele; ove fu elevato in eminente tumulo circondato da lumi.
Si fé tosto un pio tumulto di popolo, non che nella cappella, ma ancor nel collegio e nelle vicine contrade. Giacché canonici, parrochi, regolari, sacerdoti, cavalieri, gentildonne, mercanti, artieri, e tutti gli ordini e classi de' cittadini eran colà concorsi per venerare a gara quel venerabile Corpo. Onde per impedire l'indiscreta divozione del popolo fu d'uopo apporre le guardie della regia cavalleria situata in Nocera. Mentre da' sacerdoti si cantava l'uffizio di requie, la recita del quale fu successivamente continuata da tutti gli ordini regolari della città sino all’un'ora di notte, facendo forza il popolo di salire sul tumulo per toccare il Corpo con fazzoletti ed abitini, e corone, fu commessa a' sacerdoti la cura di soddisfare il comun desiderio.

Cappella San Gennaro, Statua d'argento di S. Alfonso

Gareggiavan altri per ispargere sopra quel Corpo de’ vaghi fiori per indi ritrarli in conto di preziose reliquie. Come più dilatavasi la novella della di lui preziosa morte per i casali, terre, e città circonvicine vieppiù a dismisura cresceva il concorso del popolo.
Giunto appena il primo albore del seguente giorno due agosto, si vide la città di Nocera piena e ridondante di gente. Tanto era il numero de' forestieri concorsi da più lontani luoghi per render paga la lor divozione. Furono decorate l'esequie di quanto avea di più ragguardevole la città. Imperocchè radunatisi ivi il capitolo della cattedrale, il clero secolare, e tutti gli ordini regolari fu trasferito il Santo Corpo con funebre pompa della chiesa di S. Michele Arcangelo di quel Collegio, e fu posto sopra un catafalco alto più di palmi dieci, attorno a cui giravano lunghe e folte file di cere 'ardenti.
Appena colla forza armata reprimer si poteva il popolar tumulto, che ad ogni momento cresceva attorno al feretro per aver reliquie, per sparger fiori, per approssimarvi rosari e corone, e per togliere, non potendo aver altro, financo le stille e gocce di cera che cadevano dalle torce. Supplichevoli si prostravano ginocchioni avanti il sacro Corpo le persone non che plebee, ma le più ragguardevoli per dottrina, carattere, e dignità. Chi colle lagrime, e chi colla voce faceva ciascuno a gara di rammentare le di lui virtù, e tessere elogi alle gloriose sue operazioni.
Recitatosi intanto dal capitolo della Cattedrale l'ufficio si cantò la gran messa coll'assistenza dello zelante vescovo di Nocera monsignor Sanfelice, del menzionato capitolo e seminario dell'uno e dell'altro clero, e del magistrato della città. Decorò poi la sacra funzione una ben intesa e dotta orazione funebre recitata dal signor D. Fortunato Pinto allora canonico della Metropolitana di Salerno, indi vescovo di Tricarico.

La più antica immagine, conservata nella chiesa di Marianella

Ma già pervenuto l'avviso della di lui morte ai luoghi e città più lontane concorrevano ad ogni ora nuove torme di popolo. Per la qual cosa fu duopo sospendere la sepoltura di quel benedetto Corpo sino alla sera. Era in vero cosa di gran meraviglia il vedere colà accorsa gente financo da Napoli, dalla Torre, da Sarno, dalla Cava, da Salerno, e da molte altre, benché rimote città. Né lo straniero concorso composto era di persone volgari soltanto, ma ben anche di canonici, sacerdoti, e regolari. Vennero ancora fra gli altri a rendere uffici di onore e venerazione al Santo, i monaci di Monte Vergine, i Cassinesi della Cava, i Camaldolesi che si trovavano fuori dei loro eremi, l'abbate coll'intera sua religiosa famiglia del monastero di Materdomini, e tanti altri personaggi per carattere e nobiltà ragguardevoli.
Ammirava ognuno il bell'aspetto di quel Corpo, che appariva risplendente e giocondo a somiglianza di chi riposa, e piano saziar si sapeva di quella vista. Sembrava che la morte stessa ardito non avesse indurre sopra quel volto il consueto pallore, e che fuori del moto le prerogative ancor ritenesse di un corpo animato. Sopravvenuto infatti da Napoli circa l'ora di vespero un ritrattista, avendo questi nel ritirare dalla venerabil faccia il cavo di gesso scorticata la parte destra del naso, ne uscì vivissimo sangue; che anzi quel volto per molte ore in appresso comparve rubicondo oltremodo ed acceso. Durò fino a notte la folla del popolo, che sempre più si aumentava; né appagar si poteva la brama di tutti, che a gara chiedevano pezzetti di cose usate da lui per conservarli come reliquie.
Nella sera finalmente dello stesso giorno due agosto, chiuse a stento coll'aiuto de' soldati le porte della chiesa, si stimò opportuno tumulare il Corpo, acciò nel seguente giorno non crescesse a dismisura la folla. Nel calar che si fece dal catafalco quel corpo si ammirò, non che il di lui volto candido e bello, ma altresì le carni morbide, e ciascuna membra flessibile. Indi circa le ore due della notte chiuso entro due casse, la prima delle quali era laminata di piombo, alla presenza del Vicario Generale, coll'intervento ancora del Governatore della città, e di altre persone nobili, ed ecclesiastiche, fu riposto sotterra a "cornu epistolae" dell'altar maggiore nella menzionata chiesa di S. Michele. Si coprì poi l'avello con pietra, in cui scolpito era il suo nome.
Mentre gli uomini tanti onori rendevano al corpo del Santo, si compiacque il Signore palesare con grazie e prodigi la gloria che quella grand'anima godeva nel cielo. Uno soltanto ne riferisco per compimento di questo capitolo. Tormentava da gran tempo Giuseppe Maria Fasco, fanciullino di un anno e poco più, una cocentissima febbre e diarrea. Disperavasi già di sua salute ai due di agosto, giorno delle solenni esequie del Santo Vescovo, quando la zia, contro il parer de’ domestici, presosi sulle braccia il moribondo fanciullo il condusse alla chiesa di S. Michele, e lo fè approssimare al sacro Corpo. Ed oh meraviglia! al contatto di questi risanò immantinente il fanciullo che spiritoso e vivace fu da' sacerdoti restituito alla zia. Ciascun comprende qual fosse lo stupore che recò al folto popolo sì repentino miracolo. Ma non ebbero qui termine i prodigi. Imperocchè ricondotto a casa il sanato fanciullo, avendogli nel seguente giorno tre agosto mostrato il suo zio sacerdote D. Gaetano Fusco un'immagine del Santo, la bacia teneramente il fanciullo, e se la pone alla fronte. Quindi, sebbene per l'età sciolto ancora non avesse la lingua, rimasto ad un tratto estatico e fuori di sè, con una manina tenendo l'immagine, e coll'altra indicando il cielo fortemente esclama : Alfonso in cielo, Alfonso in cielo. Inarcarono i domestici per lo stupore le ciglia in sentire quelle prime ben sensate parole che proferiva il fanciullo, e molto più si meravigliavano, che chiamasse il Santo col proprio nome a lui affatto incognito. Ed ecco che nuovamente il fanciullo festoso e giulivo replica: Alfonso il santo, Alfonso il santo; ed indicando altra volta l'immagine, alzate ambedue le mani e gli occhi al cielo, ripete: il Santo in cielo, il Santo in cielo. Non potendo a se stessi credere i domestici per meraviglia tornano nel seguente giorno a mostrare l'immagine a quel fanciullo ed esso nuovamente la bacia, e con gli occhi in alto rivolti esclama: il Santo in cielo. Allora il pio sacerdote suo zio gli fè togliere dalle manine l'immagine, al che montò egli in collera, e si disciolse in dirottissimo pianto.
Gli presentò per quietarlo altra immagine simile nella grandezza e figura alla prima; ma il fanciullo da se rigettandola, no, ripete, non è. Per la qual cosa, acciò più non si straziasse col pianto, gli fu restituita l'immagine del Santo, e ad un tratto rasserenato il volto, la baciò, e se la pose sul capo. Laonde conchiusero i domestici, che contestarono con giuramento negli atti il prodigio, che Dio, il quale servir si suole della lingua innocente de' fanciulli per manifestare la santità de' suoi servi, sciolto avesse la lingua di quel fanciullino per dimostrare in terra la gloria che S. Alfonso godeva nel cielo.


Portenti operati in vita dal Santo. 
Noi non potremo dirli tutti a causa del troppo gran numero. Si manifestano nei processi della beatificazione più di cento miracoli, che il nostro Santo ha operato durante il suo vivere. Altri che non sono specificati negli atti dei processi, ma che dietro le informazioni che furono prese potrebbero contarsi in maggior numero.
È stato provato che in tutte le volte che egli sortiva a piedi o in carrozza, si mettevano lungo la strada degli ammalati d'ogni età, e soprattutto de' fanciulli infermi."

Basilica di Pagani (SA): Statua reliquario di gesso che contiene l'urna con le ossa del Santo

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NdR. Nella trascrizione della cronaca dei funerali di Sant'Alfonso, abbiamo preferito utilizzare la parola "corpo", in sostituzione del termine arcaico usato dallo scrittore biografo, poco incline a una lettura attualizzata, per il nostro racconto storico.

In occasione della solennità di Sant'Alfonso, la redazione di "Piscinolablog" porge gli auguri a tutti i lettori che portano il suo nome e a Marianella, sua cara terra di nascita.

Salvatore Fioretto 


Cappella di Sant'Alfonso nella Basilica di Pagani. Altare con la statua reliquiario di Sant'Alfonso

venerdì 25 giugno 2021

Il mio ricordo di Padre Bianco...

Questo racconto è stato scritto in occasione del Convegno indetto per la commemorazione di Padre Francesco Bianco, che fu celebrato il 25 ottobre 2014, nella Chiesa del SS. Salvatore. La manifestazione si concluse il giorno 26 successivo, con la cerimonia dello scoprimento della lapide di ricordo, in piazza Bernardino Tafuri.
Furono in tanti, in quella circostanza, a scrivere, un ricordo, un pensiero, in dedica allo scomparso caro sacerdote, diversi furono anche letti sull'altare. Questi scritti furono successivamente raccolti in un testo, a cura del dott. Biagio Franco Sica, diacono della parrocchia del SS. Salvatore in Piscinola e distribuiti a tanti parrocchiani; tra questi scritti ci fu anche il mio racconto, che mi piace pubblicare oggi in questo blog, in ricordo del caro Padre Bianco. 
 
"Ricordo che eravamo nei primi mesi dell'estate 1984; di quella che fu un'estate particolarmente calda, ma di più ricordo quel particolare incontro, avvenuto un po' per caso o forse perché già predestinato, che ha segnato direi positivamente la mia giovinezza.
Avevo allora 20 anni e stavo studiando per i "concorsi di assunzione", dopo aver conseguito il diploma di maturità.

Era da tempo che non frequentavo più la Parrocchia. Non ricordo bene come accadde, ma fu una persona che conoscevo ad invitarmi a partecipare ai "Vespri" che si recitavano il pomeriggio nella Chiesa del Salvatore; anche una mia zia mi spronò, dicendo, "Vacci pure tu, fanno tante cose belle i giovani in parrocchia!". Non me lo feci ripetere due volte!

Mi recai un pomeriggio in chiesa e presi posto negli scanni del locale dell'Azione Cattolica, che si trova ancora oggi a sinistra, dopo il portone d'ingresso. Fui subito colpito dall'accoglienza festevole che mi fecero tanti giovani, gran parte miei coetanei, ma anche più piccoli e più grandi di me, i quali, senza conoscermi, mi salutarono fraternamente, come se stavano ad aspettarmi, chissà da quanti anni... Ma ancora di più fui colpito quando nella sala entrò, in modo silenzioso e discreto, come per passare inosservato, una figura di sacerdote, alto e snello, con un aspetto apparentemente severo. Vestiva con un abito normale, ma di colore scuro... Era proprio Padre Bianco, allora viceparroco della Chiesa del Salvatore! Di quel primo incontro ne fui subito colpito. Da un lato ero quasi intimorito dal suo aspetto, un po' severo, ma di contro ero però affascinato dal personaggio singolare, specialmente dal modo con cui subito dopo egli si aprì all'assemblea dei ragazzi, dal commento che fece alle scritture del giorno e dal tono paterno che usò con tutti.
Tutti restarono in silenzio, assorti ad ascoltare le sue parole. Aveva un modo tutto suo di parlare, solenne da un lato, ma molto semplice e chiaro dall'altro. Non cercava parole complesse per arricchire quel che diceva. Lui era semplice, essenziale, sempre chiaro e diretto. Poi gli fui presentato. Non ricordo cosa dicemmo, ma non posso dimenticare il commento che fece in quell'istante una ragazzina dell'ACR di 6-7 anni, che sedeva sullo stesso scanno a fianco del Padre, che subito esclamò con gioia: "Padre Bianco... è arrivato un altro fratellino!". Continuai da allora a frequentare il pomeriggio la Parrocchia e, presto, divenni anch'io un giovane "seguace" di Padre Bianco...!
Ricordo quella volta quando l'accompagnammo per celebrare la messa alla masseria, detta "Ciucciaro", dove abitavano dei suoi parenti; percorremmo con lui, a piedi, la stretta e polverosa strada, detta "Cupa del Perillo". Fu quello come un corteo festoso, dove si rideva e si scherzava tutti insieme, come in una bella e grande famiglia... Sembrava come rivivere l'"Oratorio di don Bosco", quando il buon salesiano conduceva i suoi ragazzi in giro per le contrade torinesi. La messa fu celebrata nell'aia della masseria, su un tavolo apparecchiato per l'occasione e noi si occupammo di eseguire i canti previsti nella celebrazione.
Dopo la messa ci fu una bella festa, perché tutti gli abitanti della masseria ci offrirono dolci di ogni genere, cotti nel forno a legna: non posso dimenticare le buonissime e fragranti "mmuniache" piscinolesi! Oggi, a distanza di tempo, rievocando questi ricordi, ho la bella sensazione di aver vissuto quel periodo della mia giovinezza con grande spensieratezza e serenità.
Qualche mese dopo ebbi modo di partecipare a un ritiro ad Eboli, e poi, ancora, nei mesi seguenti ad altre celebrazioni ed incontri comunitari, come alla Veglia di Fine Anno, che lui organizzava ogni anno in chiesa. Furono per me delle belle esperienze che ricordo ancora oggi con gran affetto.
Devo dire che più di tutto allora mi affascinava ascoltare i discorsi che teneva Padre Bianco e il suo modo di porsi ai giovani. Un modo non comune a quell'epoca, perché avveniva fuori dagli schemi. Aveva una maniera tutta nuova di fare il sacerdote, che molti però non comprendevano appieno e devo confessare che anch'io certe volte, non l'ho capito fino in fondo.

Chiesa SS. Salvatore. Convegno dedicato alla figura di Padre Bianco, ottobre 2014 (foto Fabio Sasso)

Padre Bianco viveva per i suoi ragazzi. I giovani erano il suo sale, la sua energia, lo scopo della sua vita. Quando stava insieme ai noi giovani, abbandonava quell'aspetto apparentemente severo e burbero e diventava estremamente gioviale, allegro e scherzoso. E' stato una guida spirituale esemplare. Ricordo una sera, mentre sostavo in raccoglimento in chiesa, egli si sedette al mio fianco e mi sussurrò queste parole: "Salvatore, fai bene, il Signore ti apprezza molto quando vieni a trovarlo, cerca di farlo spesso..."
Credo che i miei comportamenti non sempre siano stati rispondenti alle aspettative che egli forse nutriva nella mia persona e sicuramente l'avrò deluso, anche perché negli anni seguenti non fui costante nel frequentare la comunità, come pure non ho mai partecipato agli incontri sul Taburno e nemmeno a quelli a Rimini e a volte non condividevo alcune iniziative comunitarie. Purtroppo solo con la maturità ho capito appieno il vero messaggio di vita divulgato da Padre Bianco: che era quello di essere essenziali, semplici e diretti in tutto...!
Nel 1986, da neoassunto, dovetti abbandonare Napoli per lavoro. Fui spedito nella "grigia" Piacenza e da quel momento dovetti dedicarmi a tempo pieno alla nuova esperienza di vita, che si prospettava attraverso il mio primo importante impegno lavorativo; cosa che continuai a fare ritornando a Napoli. Da allora mi allontanai dalla Parrocchia e non frequentai più la comunità a tempo pieno.
Dopo molti anni, a seguito di un lutto in famiglia, mi ritrovai a incontrare padre Bianco per organizzare le funzioni di rito. Egli mi accolse come un figliol prodigo. Non ha mai fatto pesare le mie mancanze, mai un cenno. E quando un giorno gli chiesi: "Padre Bianco mi avete perdonato?" Lui mi rispose: "Ma io non mi ricordo nemmeno tu che mi hai fatto...!" Capì che volutamente aveva nascosto il suo rammarico e mi aveva perdonato veramente. Mi sentii in quel momento come sollevato e leggero.
Continuai da allora a frequentarlo. Ogni tanto, la sera era piacevole per me fare una tappa in chiesa, per salutarlo. L'ho fatto per quasi cinque anni. Lo trovavo sempre seduto, al solito posto, dietro una piccola scrivania, con un orologio che sgranocchiava tra le dita.
Spesso prendeva in giro i ragazzi dell'oratorio, che in tanti passavano a salutarlo, commentando con loro qualche partita del Napoli, di cui era un accesissimo tifoso.

"Pace e bene" era il suo saluto... Parlavamo di un po' di tutto. Spesso parlavamo di sant'Alfonso, di cui lui era un grande ammiratore, e di tanto altro ancora. Mi prendeva spesso bonariamente in giro, chiamandomi "'O studioso", riferendosi alla mia passione per la ricerca storica.
Quando fu pubblicato il mio libro: "Piscinola, la terra del Salvatore", decisi che il primo a vederlo doveva essere Padre Bianco. Non lo posso dimenticare, era la mattina del 6 gennaio 2011, padre Bianco nel suo studiolo lo sfogliò attentamente, davanti a me e ad altri parrocchiani, commentando tutte le foto che vedeva. Ricordava tutti gli avvenimenti e tutti i nomi delle persone ritratte nelle foto. Poi mi disse che il libro andava annunciato in chiesa, davanti a tutta la comunità, al termine della messa comunitaria di mezzogiorno. Così fu fatto. E' stata la soddisfazione più grande che ho ricevuto per quel progetto. Non lo dimenticherò mai più!
Ho continuato a frequentarlo fino a gli ultimi mesi della sua vita, certo, andavo a trovarlo quanto potevo... Gli portavo spesso i frutti raccolti nel mio giardino, che lui gradiva molto.
Ai suoi funerali, c'era tantissima gente. Non ho mai visto tanta gente assieparsi in chiesa come in quell'occasione. Una folla indescrivibile, che colmava anche nella piazza antistante alla chiesa. Tante persone che non avevo mai visto, tutte raccolte in silenzio, con gli occhi lucidi, attente a partecipare alla messa.
Non nascondo che a distanza di quasi un anno dalla sua scomparsa, ho un vuoto incredibile dentro di me. Mi mancano quelle chiacchierate serali che facevo con lui. Provo un grande rammarico per i futili motivi per i quali lasciai la Parrocchia, privandomi per tanto tempo della sua cara presenza.
Grazie di tutto, Padre Bianco!"
Salvatore Fioretto

giovedì 17 giugno 2021

Dalla leggenda del "Lupemannaro", ai casi reali di Rabbia e di Idrofobia...

Da tempo immemorabile, una delle tante figure leggendarie dell'inventario collettivo, nel territorio meridionale e campano, quindi anche a Napoli e nel suo Circondario, era il cosiddetto “Lupemannaro”, ossia l’”uomo-lupo”. La credenza popolare sosteneva che il Lupemannaro apparisse sempre in occasione del plenilunio, quando era costretto ad uscire allo scoperto ed a emettere, per la forza esercitata dalla Luna, dei singulti simili ai latrati di un lupo... Alcuni anziani raccontano che anche dalle nostre parti, a Piscinola, c'erano diversi personaggi che avevano queste manifestazioni; questi, a notte fonda, accorrevano nel loro girovagare vicino a fontanine pubbliche, per ristorarsi e provare a placare il loro stato di sete, ma senza riuscirvi... Dei casi, in passato, pare che furono osservati in via SS. Salvatore e in via Vittorio Emanuele …
Oggi siamo in grado di sfatare questa leggenda, con il contributo della storia e della scienza, perché entrambe hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, che queste persone, veramente esistite, erano invece affette dai sintomi della malattia riconducibile alla Rabbia e ai conseguenti stati di idrofobia e di aerofobia. Questa malattia comportava anche degli attacchi spasmodici di asma. Strano a dirsi, ma in passato, soprattutto a causa dell’ignoranza popolare, a questi malcapitati veniva invece attribuito uno stato paranormale e dei veri e propri poteri sovrannaturali...!
Purtroppo, come vedremo nel seguito del racconto, a Piscinola e nel territorio napoletano, tra la fine dell'800 e la prima metà del '900, furono registrati diversi casi di Rabbia conclamata, con conseguenti decessi, come avvenne per il povero ragazzo piscinolese, Cuozzo Sabatino, di appena 20 anni, del quale narreremo nel seguito le tristi vicende. Ecco la descrizione dello stato della ricerca scientifica sui casi conclamati di Rabbia, riferita all'anno 1895, e la descrizione del caso clinico:

(da “La Riforma Medica: giornale internazionale quotidiano di medicina, chirurgia farmacia, veterinaria e scienze affini”, direttore Gaetano Rummo. Anno VIII, 1892. Volume III. Edizione 151-225. Pag. 795):

"Lavori e Lezioni Originali

(1) Clinica Medica di Napoli. Istituto Antirabico, (Prof. Cantani) Sulla guarigione della Rabbia sviluppata. Osservazioni ed esperimenti pel dott. Giuseppe Zagari, coadiutore.

Lo scienziato Louis Pasteur

Nello scorcio di questo ultimo semestre, in breve volgere di tempo, si sono presentati all’Istituto 4 individui colpiti da idrofobia, Veramente nei primi tempi, in cui si era qui stabilito l’esercizio delle inoculazioni profilattiche, non molto raramente capitavano simili casi, ma poi a poco a poco divennero più rari, ed ormai erano trascorsi circa tre anni dacché altri individui, con la rabbia sviluppata, non si erano a noi presentati: sia questo perché grazie al trattamento Pasteuirano i casi di rabbia sono nelle nostre provincie generalmente diminuiti e sia perché i medici, ai quali in provincia toccava di osservare i primi sintomi della idrofobia, giustamente non consigliavano di inviare gli infermi all’ospedale o in qualsiasi altro istituto, consci come erano, che, quando la rabbia si è già manifestata, non resta pur troppo altro da fare, che rimanere spettatori di fenomeni gravi i quali inesorabilmente ed in breve tempo menano alla morte.
Se non che lo importante annuncio dato testé dai dottori Novi e Poppi di una guarigione di rabbia già sviluppata, ottenuta nell’istituto antirabico di Bologna, si è in breve diffuso da per tutto ed ha fatto il dovere ai medici, che osservano i primi sintomi della malattia, di non lasciare perire senza alcun aiuti gli arrabbiati, ed agli istituti Antirabici di applicare il metodo tenuto dai fortunati ed arditi sperimentatori bolognesi.
Già è uopo convenire che il risveglio nello studio della rabbia, destato in questi ultimi anni dai geniali lavori di Pasteur, e con il contributo venutogli da tante parti, arricchito di fatti sperimentali importanti la storia di questa grave malattia: così possiamo dire di avere nozioni abbastanza complete sulla sede di azione del virus e sulla maniera di diffondersi tanto nell’organismo, quanto fuori dell’organismo, sulle proprietà e maniera di reagire agli agenti esterni, ecc. e possediamo anche, grazie al genio del Pasteur, un metodo col quale si impedisce, nel maggior numero dei casi, lo sviluppo della malattia.

Particolare mappa del Duca di Noja, zona Capodimonte
Ma, ovecché questo non riesca o non vi si ricorra in tempo, una volta insediata la malattia, non vi è mezzo che giunga ad arrestarla. Ad onta quindi di tutti questi studi e di tanti progressi, noi non troviamo nella letteratura nessun tentativo fondato e razionale per combattere la rabbia sviluppata; e dalla generalità dei terapisti, disperando quasi di poter debellare un morbo sì grave, vennero proposti solo dei mezzi per calmare qualcuno dei sintomi più imponenti.
Ma gli orizzonti testé apertisi alla scienza con le cognizioni sul modo di agire dei germi patogeni, sul potere che i prodotti da loro segregati possiedono per nuocere a loro medesimi, hanno destato nuove speranze ed incoraggiato a far dei tentativi di cura anche della rabbia sviluppata.
Cosi, come abbiamo accennato, Novi e Poppi in un giovane morsicato, al quale appena espletato il trattamento profilattico si manifestarono sintomi di idrofobia, ebbero l’idea di sperimentare una cura di midolli attenuati che esprimesse un grado più energico della cura Pasteur iniettando direttamente nelle vene le emulsioni dei midolli più virulenti dell’età di 5-4-3 giorni, e riferiscono di aver cosi “guarito prima volta un casi avanzato di rabbia nell’uomo”.

Tenendo presente questo felicissimo risultato con la più grande speranza di strappare alla morte un disgraziato, e col desiderio di confermare, col suffragio di altri casi, il fatto messo in evidenza dagli sperimentatori bolognesi, capitatoci un idrofobo, lo abbiamo sottomesso ad un trattamento energico, iniettando nel torrente circolatorio i midolli attenuati col metodo Pasteur di 5-4-3 giorni.

1^ Osservazione. - […]

2^ Osservazione. - Sabatino Cuozzo di anni 20 da Piscinola, morsicato 40 giorni prima da un cane di cui non si ebbe più notizia, all'anulare della mano destra stette bene fino al 1 giugno (1892), quando fu colto da febbre con brivido e da dolore al braccio destro e paresi del medesimo, i quali non gli permettevano di elevare Il braccio. L'inferno sentendosi inabile al lavoro si ritirò a casa; ed il giorno dopo ritornò alla campagna; ma dopo poco, fu costretto a sospendere di nuovo il lavoro per la stanchezza. Notava abbattimento ed inappetenza, e cercando di bere un po'di acqua, s'accorse di non poterla ingoiare. Oltre a questi fenomeni, l'infermo non avvertiva nulla e poté recarsi a un paese vicino. Senonché la sera notò che il vento gli faceva male, tanto che, giunto a casa, bisognò chiudere la finestra.
Il 3 giugno, si recò dal dottore N. di questa città, il quale gli prescrisse delle cartine aggiungendo che, ove con quelle non si fosse sentito bene, avrebbe dovuto sottoporsi alla cura antirabica! Intanto non poteva mangiare, né bere e, per soddisfare a questo ultimo bisogno, riuscì con un tubicino, senza guardare l'acqua, a trangugiarne: ma la sera del medesimo giorno ripeté lo stesso tentativo, ma non vi riuscì.
In Clinica è stato condotto il 4 giugno alle ore 11 a. m. e i sintomi spiccatissimi di aerofobia e di idrofobia, che presentava, non lasciavano in nessuno il dubbio sulla natura della malattia; che anzi, per lo stadio inoltrato della medesima, tutti quelli che lo osservarono ebbero ad emettere, con noi, un prognostico dei più infausti. Ad onta di ciò, abbiamo tuttavia creduto, per dovere umanitario, non negare a quest'altro il beneficio del nuovo metodo di cura; tanto più che non restava a fare altro di meglio.
Naturalmente dal momento in cui aveva avvertito il dolore e la paresi al braccio a questo stadio, in cui a noi si era presentato, il virus doveva essere abbastanza progredito luogo le vie nervose centrali, da poter sperare che con iniezioni endovenose, fatte 2 volte al giorno, si potesse neutralizzarlo. Quindi urgeva il bisogno di farle ripetute, nel più breve tempo possibile. Si sono adoperati 3 cc. di emulsioni depositate; periniezioni, endovenose, come indica il quadro:

-ore 12,30 pom: M10 - M9

-ore 1 pom: M8 - M7

-ore 7 pom: M6 - M5

I fenomeni classici dell’Idrofobia si fanno sempre più gravi la malattia segue fatalmente il suo corso. Alle 7 ¼ subentra il delirio in preda al quale muore alle 11,15. [...]"

  ------------- o -------------

Dal periodico "Notizia Internazionale d'Igiene" (Pagina 296-297) apprendiamo che i casi di Rabbia, di pazienti provenienti da Piscinola, furono due:

"Il dott. R. Serafino del nostro ufficio d'Igiene (Statistica medica) a sua volta mi riferiva che sopra 7 persone morte di rabbia in Napoli dal giugno a tutto settembre 1892, 3 provenivano da Afragola, Portici e Marigliano, 1 da Santa Maria di Capua, 1 fu morsicata in città e 2 nel villaggio di Piscinola. Il Dott. Zagari ebbe notizia di 2 altri morti di rabbia nella provincia di Napoli. [...]".

Mentre l'amministrazione Comunale emanava adeguati provvedimenti di sanità e prevenzione pubblica:
[...] "Intanto, il Sindaco mentre teneva informato con nota il Prefetto della Provincia, acciò la razzia dei cani vaganti si facesse contemporaneamente nel resto della Provincia, resultando che i primi casi di morsicatura e di vera idrofobia si erano avverati nei villaggi del Vomero e di Piscinola - ordinava a tutti i proprietari di cani di munirli di musoliera, volendoli tenere nei cortili o per via, e di avvertire l'autorità di ogni caso di cane od altro animale domestico che presentassero (dei sintomi) [...]. (La notizia si riferisce a casi di Rabbia canina)."

Fortunatamente, in Italia, gli ultimi casi di Rabbia conclamata, letali per le persone, sono stati registrati alla fine degli anni '60 del secolo scorso e oggi, grazie soprattutto alla ricerca medica, alla prevenzione, alla vaccinazione dei cani e di altri animali domestici potenziali serbatoi del virus (obbligatoria nelle zone geografiche a rischio), nonché ai vaccini e agli antitodi ad uso umano, si può considerare la malattia sotto controllo, anche se non del tutto debellata in Occidente.  Nei paesi sottosviluppati e del Terzo Mondo, invece, assistiamo, purtroppo, ad un elevato numero di casi di mortalità tra la popolazione, in quanto in mancanza di una tempestiva profilassi, instaurata subito dopo il contagio, non esiste ancora una cura per gli stati avanzati della malattia (55.000 casi di morte all'anno, di cui il 99% in Africa e Asia , fonte OMS).
Ritornando alla storia iniziale, il termine di "Lupemannaro" è rimasto solamente come una sorta di termine figurativo, per indicare una persona che avrebbe delle sembianze o dei comportamenti similmente canini oppure come personaggio soggetto dei racconti fiabeschi per bambini.

Salvatore Fioretto

sabato 12 giugno 2021

'O Barone e Migne Migne... Una bella storia di amore puro... di Luigi Sica

Nei tanti racconti su Piscinola di un tempo, più volte è stato menzionato il "Barone", personaggio che è passato nell'inventario collettivo per la sua forza straordinaria, ma anche per la sua bontà d'animo. Per raccontare questo particolare personaggio siamo ricorsi questa volta al bel libro scritto dall'amico Luigi Sica, "Il Borgo Perduto", edito da "Marotta&Cafiero" nell'anno 2013.
Ecco il brano.

"Nonostante l’improprio titolo nobiliare, o’ barone era un poveraccio, che non aveva un lavoro o un mestiere. La moglie o compagna era Migne Migne, una donna bruttissima, magra, bassa di statura con capelli crespi e mai pettinati che non parlava mai. Pare che avesse una sorella ma non ne sono sicuro perché l’ho visto sempre solo, timido se non vergognoso, di poche parole, molto schivo. Era un uomo di media statura ma di corporatura possente, aveva un volto brutto, dai tratti marcati: da ominide che la voce cavernosa rendeva troglodita. Sia d’inverno sia d’estate andava sempre in giro con un pesante cappotto. Veniva da o’cap’e’coppa, ma non ho mai saputo, dove abitasse precisamente, i più informati dicevano che vivesse in un sottoscala; negli orari di bassa affluenza lo intravedevo mangiare qualche piatto di minestra nella cantina di don Lurenzo o in quella dei Sarnacchiaro. Sicuramente si guadagnava da vivere eseguendo lavori saltuari che richiedevano un’enorme forza fisica, infatti, ogni qualvolta c’era da scaricare sacchi di sale da un quintale ciascuno, miracolosamente appariva o’ Barone e mentre i facchini s’affannavano in due o tre per scaricare quei sacchi dal carro, il nostro li agguantava, li trascinava sul bordo di scarico, si girava lentamente e senza sforzo apparente caricava il sacco in spalla, entrava in tabaccheria e depositava il sacco sull’apposita pedana di legno e ripeteva l’operazione quattro o cinque volte. Mio padre gli dava un pacchetto di Alfa e con discrezione gli metteva una carta da cinque lire in tasca; altre volte don Lurenzo gli faceva lavare le botti da trecento litri, 'o barone le spingeva sulle guide dal piano interrato a quello stradale, le portava fuori, le riempiva d’acqua per metà e facendole beccheggiare procedeva a diversi lavaggi sino a quando non ne fuoriusciva acqua limpida.
Donna Nunziatina gli faceva scaricare i carri di sacchi di farina e la legna per il forno e quello dei legumi e così faceva anche Eugenio Ercolano, probabilmente o’ barone si guadagnava da vivere eseguendo questi lavori saltuari per tutti i commercianti che glieli affidavano proprio per non mortificarne la dignità.
Più di tutto m’impressionava la sua profonda solitudine, raramente lo vedevo parlare con qualcuno e quando lo faceva, lo interpretavo come signorilità trovandogli confacente quel titolo nobiliare. La prematura morte di Migne Migne lo rese ancora più solo e taciturno tanto da indurmi a pensare che se due persone brutte possano trovarsi reciprocamente gradevoli, per una sola la bruttezza della solitudine dev’essere insopportabile. Molto tempo dopo seppi che era morto, lasciando nel suo materasso un’incredibile quantità di soldi. M'addolorò non tanto l’epilogo, ma quella sua vita da eremita, mi turbava il pensiero che l’avesse vissuta interamente come figlio di un dio minore, condannato a pagare pegno per quella bruttezza fisica che celava una nobiltà d’animo, una delicatezza d’educazione: sembrerà un eufemismo ma era veramente una bella persona. Ancora oggi, quando ripenso alla persona del barone, mi chiedo se riuscirò mai a immaginare di quanto amore avrà amato la sua Migne Migne, con quanta pena sarà stato forse segretamente innamorato di un’altra donna, quanta sofferenza nella non corresponsione.  Mi chiedo se dopo la scomparsa della compagna è mai più stato con un’altra donna, magari anche con una puttana.
Da quando ho saputo che è sepolto nell’ossario comunale del cimitero di Miano, non manco mai di rivolgergli un saluto e di ricordare con quanta dignità si può vivere e con quanta spontaneità si lascia un buon ricordo; mi consolo pensando che là, in quella terra nera avrà ritrovato la sua Migne Migne e con altri poveri sfortunati, la sua pace. Quando ho raccontato questo fatterello a qualche amico, ha ironizzato dicendo: "ma come un barone nella fossa comunale", non ha colto lo spirito del mio piccolo racconto ed io ho respinto la sua stupida ironia, ma gli ho risposto che per lasciare imperitura memoria della polvere che saremo, basta solo un po’ di dignità e un pizzico d’umanità."

Di Luigi Sica

(Racconto integralmente tratto dal libro: "Il Borgo Perduto - Storia di una via Gluk napoletana", Marotta & Cafiero Editori, anno 2013 - pagg.72-74.)