venerdì 7 febbraio 2020

Donna Rachele de Liguori agli Elisi ... Versi sarcastici di D'Antonio di Gennaro...


E' una composizione di tipo sarcastico, dedicata a un personaggio vissuto nel XVIII secolo, a Marianella, una donna dell'aristocrazia napoletana, appartenuta alla nobile famiglia dei Liguori.  Parliamo della marchesa Rachele de Liguori, che fu prima consorte di don Ercole De Liguori, morta nel 1762. Ercole, era fratello del nostro Alfonso de Liguori e divenuto unico erede della Casata, dopo la rinuncia di Alfonso. 
La cosa che più fece scalpore all'epoca, e che viene esposta nei contenuti sarcastici in questo componimento poetico, è quella che il cavaliere Ercole de Liguori rompette prematuramente lo stretto lutto che si addiceva al suo rango di nobile cavaliere, di antico lignaggio del Sedile di Portanova e, ciononostante, dopo poco prese a conoscere e a frequentare una donna della nobiltà napoletana, molto più giovane di lui... Ercole, dai propositi subito passò ai fatti, chiedendo in sposa la giovane donna. Tale intento fu inizialmente anche ammonito dal fratello Alfonso, grande Santo, ma nonostante tutto Ercole portò a compimento la sua decisione di impalmare la donna. Successivamente la nuova sposa, Donna Marianna Capano Orsini, portò in dote ad Ercole e alla casata dei Liguori, ben tre eredi... Mentre il primo matrimonio di Ercole con Rachele non aveva portato figli. 
Alfonso, dopo aver conosciuta la seconda sposa di Ercole, apprezzò la scelta del fratello e benedisse la nuova famiglia.
La composizione è piacevole e scorrevole, tra il serio e il semiserio, e si può dire che è pressappoco come una parodia della parte iniziale della Divina Commedia di Dante; infatti come sottotitolo dell'opera l'autore, che è Antonio di Gennaro, riporta la frase "Le Piacevoli"!


IL PASSAGGIO AGLI ELISI
Di Donna Rachele di Liguoro
(Opera tratta dalle raccolta "Poesie di D'Antonio di Gennaro, duca di belforte &, tra gli arcadi Licofonte Trezenio - volume IV - Le Piacevoli", ed. a Napoli presso Vincenzo Orsini, anno 1796).

I.
Piangete o Suore del Castalio monte,
Piangi di Delo o faretrato dio:
Pianga ogni spiaggia, ogni foresta, e fonte,
E di lacrime corra il fiume, e il rio:
Mìan pianga, Chiajan, Capodimonte,
Piscinola…… eh perché tal pianto? Oh Dio!
Nel rimenbrarlo sol manco, e m’accoro;
Morta è Donna Rachele di Liguoro.

II.
Morta è donna Rachele, a cui di bella
Il titolo sì ben competeva,
Che a lei vetusta donna, o pur novella
Al pari non andò dal tempo d’Eva.
Ahi troppo sventurata Marianella!
Chi dal sommo de’ mali or di sollieva?
Onde conforto, onde sperar ristoro?
Morta è Donna Rachele di Liguoro.

III.
Dal dì, che la gentil vedova destra
Ella porse al miglior de’ Cavalieri,
Usò la rocca e l’ago da maestra
Passando in tal lavoro giorni interi;
Frequentava le Chiese, e i Monisteri,
Rosari masticava a tutte l’ore,
E non lasciava mai le Quarantore.

IV.
Senno, onestà, decoro, e cortesia
Gentilezza, ed onor splendeano in lei;
Ma benché avesse grazia, e leggiadria
Aborrì mode, conciature, e nei.
Tal poi verso il marito ella nutria
Tenerezza, ed amor, ch’io crederei,
Che fosse paragon debole troppo
Edera intorno al muro, o vite al pioppo.

V.
Ma quest’edera, ohimé, ma questa vite
Recise alfin l’inesorabil Parca!
Giunta l’animo bella in fondo a Dite
Là presso di Caron la nera barca,
Gridò colui (nè fur sue voci udite):
Senza il pronto denar qui non s’imbarca:
Smarrita ella rispose: amico aspetta…
Ma indosso non avea la sua trombetta.

VI.
E’ questa una trombetta di metallo,
Rintorta al par di corno, e al pari acuta,
Che della sordità ripara il fallo,
E dell’offeso orecchio il senso aiuta,
Siccome all’occhio suole il buon cristallo
La vista ritornar, ch’altri ha perduta,
Or quest’ordigno per dimenticanza
Morendo ella lasciò nella sua stanza.

VII.
Onde confusa, e timida in quell’atto,
Che del brutto vecchiardo i gesti vede,
Sebben le voci non ne intenda affatto,
Irresoluta or fassi innanzi, or riede;
Al fin si graffia il volto, come un gatto,
E disperata in sulla ripa siede,
Gridando: Ercole amato ah dove sei!
Perché aita non rechi ai mali miei?

VIII.
So, che per me ti versi amaro pianto
Dagli occhi fuora, e vesti nera saia:
So che gemendo al mio sepolcro accanto
Requie, e Messe mi mandi a centinaia;
Ma qui tua moglie abbandonata intanto
Di tutta esposta trovasi alla baia;
Mandami per pietà la mia trombetta.

IV.
Ve’ tu Caronte come fa del sordo
E accogliermi ricusa entro il tuo legno?
Molto edi mi dice con quel muso lordo,
Ma invano a quel suo dir tendo l’ingegno,
Sebben d’avere inteso or mi ricordo,
Stemmi dei sei Sedili di Napoli
Che chi passar vuol degli Elisi al regno
Deve pagare al traghettiero il nolo;
Or meco io pur non porto un soldo solo.

X.
Deh tu, che sei rimasto e ricco, e grasso
D’ampi poderi; e fertil retaggio,
Grato spedisci un tuo volante a basso
Con quel denar, che basti al mio passaggio.
Che spettacolo ohimè! Si nega il passo
A una Dama d’altissimo lignaggio,
Ed a schiere frattando al suo destino
Passa la plebe vil con un quattrino.

XI.
O infelice Rachele di Liguoro!
Che brutta, e magra vita or qui tu fai?
Guazzasti, è vero, tra l’argento e l’oro,
Ma che pro, se un quattrino or più non hai?
Né ti giova sperar per tuo ristoro,
Che ad Ercole notizia arrivi mai
Del lacrimevol tuo misero stato;
Poiché nessuno è mai lassù tornato.

XII.
Qual di notte l’allocco, o la civetta
Sulla sponda di rauco, e tetro fiume,
O di cadente antico muro in vetta,
Mandando un tristo suon batte le piume;
Così laggiù presso quell’onda infetta,
Che di funesti rai scorre al barlume,
Pietosamente il suo destin crudele
Deplora l’afflittissima Rachele.

XIII.
Ed giungesse il flebile lamento
All’orecchio del vedovo marito!
Oh com’ei spaccerebbe in un momento
Un messo colaggiù snello, e spedito,
Che non un soldo sol, ma cento, e cento
Al nocchier paghi, onde sull’altro lito
Giunta ella alfin più non si lagni, o gema,
E del di lei ritorno ei più non tema.

XV.
E udita la cagion del suo ritardo
Seco la guida nel fatal naviglio;
Il barcajuol la riconosce, e il guardo
Torvo le gira sotto al nero ciglio:
Cacciarnela vorrìa, ma per riguardo
Di chi la mena, al remo da di piglio,
E sentendo sdegnoso la prigr’onda,
Ambi depone in sull’opposta sponda.

Stemma della famiglia Liguori (o Liguoro)
XVI.
Scesa la donna con Mercurio insieme,
Ragionando tra loro vanno per via;
Quel Dio loquace la domanda, e preme
Dond’ella vegna, e di qual patria sia.
Tutto elle narra, e com’Ercole geme
Per lei soggiunge, e va quasi in pazzia;
Mercurio, ch’è ribaldo, in ciò sul viso
Guatolla con sardonico sorriso.

XVII.
E prese a dir…. Ma pria che il suo discorso
Io riferisca, voglio un dubbio sciorre,
Che sul detto fin qui va bene in dorso,
E con ragion mi si potrebbe opporre.
Come privo del fisico soccorso
Potea que’ detti il sordo orecchio accorre?
A dubbio tal con brevità rispondo,
Che fu miracol di quel Dio facondo.

XVIII.
O quanto, (dunque a dir Mercurio prese)
O quanto più mi sei cara, ed accetta
Or che la patria tua fatta palese
M'hai, sovra ogni oltre altro loco a me diletta!
Patria gentil, che la bell'arte apprese,
La di cui privativa a me s'aspetta;
Onde il mio Nume a colà incensi, e voti
Da ladri innumerabili, e devoti.

XIX.
Ivi è quest’arte a tal perfezìone.
Che non si trova più cosa sicura,
Si ruba nella giubba, e nel calzone,
Si ruba in Chiesa, in piazza, e tra le mura,
Si ruba in tribunal, nella prigione,
Si ruba a mezzogiorno, e a notte oscura,
Si ruba il molto, il medìocre, e il poco,
Si ruba in ogni tempo, e in ogni loco.

XX.
D’Antonicco di Laura entro le foglie
Io l’ordinaria fo mia residenza:
Qui, come in proprio asil s’aduna, e accoglie,
Dell’onorato stuol da quintessenza;
Qui piomban tutte le rapite spoglie;
Qui mi chiedono i ladri, ed hanno udienza:
Qui de’ furti maggior cova il tesoro,
Gemme, scatole, mostre, argento, ed oro.

XXI.
Di tale impunità la cagìon vera
Se saper brami, eccola in fonte, ascolta:
La Grecia fu l’origine primiera
Di Partenope vostra; Ora una volta
Stemma del Sedile di Portanova
Quel tor l’altrui, ma per gentil maniera
Sagacità ingegnosa, e disinvolta.
Fu in Grecia riputata, e non delitto,
Legge non lo vietava, e non editto.

XXII.
Bensì severamente era punito
Chi si faceva cogliere in fraganti:
Costui, dicean que’ Saggi, è un scimunito,
Né industria mai, né ingegno sia che vanti.
Coll’Argive colonie all’ vostro lito
Insiem gli usi passar sì varj, e tanti,
E tra questi quel genio ognor rapace,
A cui la roba altri cotanto piace.

XXIII.
Né sol parlo di quei ladri gentili,
Che metton mano nell’altrui scartella.
Persone per lo più misere, e vili,
Che non han cencio indosso, o non gonnella.
Parlo di quelli ancor, che in vari stili
Seguon gl’influssi, e i rai della mia stella,
Gente (il di più si taccia) iniqua, e isporca,
Di cariche non degna, da di forca.

XXIV.
E pur la forca è tra voi rara tanto
Quanto frequenti sono i furti, e gravi;
Ond’è che i ladri han per lor gloria, e vanto
Nel mestiero contar gli avi, e i biavi,
E col molto denar raccolto intanto
Da quelli, e poi da lor, che non ignavi
Sono nell’emularlo, al mondo d’oggi
Danno di signoria stupendi sfoggi.

XXV.
Argementar da ciò puoi facilmente
Quando ben volentieri io là dimori,
Ove ho regno, e poter così eminente,
Ove ho tante accoglienze, e tanti onori;
Onde chi nacque tra sì culta gente
Ragion vuole, che da me si pregi, e onori.
Di Maja il figlio qui si tacque, e al rio
Giunsero del profondo eterno oblio.

XVI.
Da uno imo speco, ov’hanno albergo, e cura
I pigri sonni, ed i notturni augelli
Questa lent’acqua scaturisce, e bruna
Per que’ tufi s’aggira, ed arboscelli;
Finchè il letto maggior s’imbocca, e aduna;
Di lei bevendo avvien, che si cancelli
Ogni passata idea, che in mente uom tenga,
Né di quello, che fu, si risovvenga.

XXVII.
Non tanti attorno alle civette losche
Volano augei, per vagheggiale in tresca,
Non tante pecchie al prato, al mele mosche,
Ai granarì formiche, o pesci all’esca,
Né van tante in Agnan folaghe fosche,
O bruchi in Puglia in sulla spica fresca,
Quant’anime colà dai lati tutti
Corrono a inebrìarsi entro que’ flutti.

XVIII.
Qual s’inginocchia, e tuffa in quello il muso,
Qual coppa fa della sua propria mano,
Distinzion non v’è: s’urta confuso
Col ricco, e il grande, il povero, e il villano.
Girò Donna Rachele il volto in giuso
Da un colle ch’è di là poco lontano:
Vide quel folto ammasso, il piè sospese,
Ed al suo duce la cagion richiede.

XXIX.
La virtù di quel fiume ei non le tacque,
E come nel gustarne ogni obblia
Quanto gli accadde mai dal di che nacque,
Finché prese a calcar l’estrema via:
Bevi, soggiunse poi, bevi quell’acque,
E perderai dell’empia sorte, e ria
L’antica rimembranza…. Ah non son cose
Queste per me, Donna Rachele rispose.

XXX.
Guardimi il ciel, che la memoria oh Dio
Perda dell’idol mio, che tanto amai,
E tuffi ingrata in sempiterno obblio
Chi sparge ora per me gemiti, e lai.
Non si potè frenar quando ciò udìo
Mercurio, ed esclamò: finisci omai
Di lusingarti, o semplice Rachele;
Ercole ha sciolte in altro mar le vele.

XXXI.
E acciò ti quieti alfine, e disinganni,
Sappi, che il tuo fedel consorte amato,
Per riparare i già sofferti danni
Cerca di porsi un ben visino a lato;
Onde Imeneo spiegar giulivo i vanni
Per Marianella io vidi, ivi chiamato
Dalle focose brame, e dai desiri
Di chi è l’oggetto or qui de’ tuoi sospiri.


Campanile di San Lorenzo, stemmi dei sette Sedili di Napoli
XXXII.
A tale inaspettato, e tristo avviso,
A tale dolorosa aspra novella,
La pallid’ombra impallidì nel viso,
E perdè quasi il moto e la favella:
Quale al cader di fulmine improvviso
Resta fuori di se la villanella:
Poi disse (e fu la voce appena intesa)
Così dunque una Dama è vilpesa!

XXXIII.
Disperata indi, e fiera al par di Dido
Quando partì da lei l’ingrato Enea,
Diede un sì forte, e sì possente grido,
Ch’udito Averno il simil non avea.
Esclamò alfine: o disleale, o infido,
Scoverta è già la tua maligna idea:
Dunque davver covasti in sen quel foco,
CH’io stolta allor credea favola, e gioco?

XXXIV.
Finti eran dunque que’ melati vezzi,
Finti i teneri amplessi, e dolci accenti?
Oh labbri ognora ad ingannarmi avvezzi!
Oh promesse fallaci, oh giuramenti!
Or che più non mi temi, or mi disprezzi;
Né l’amor mio, né il tuo dover rammenti:
E vai di Sposa giovinetta in traccia,
Non pigro can nell’amorosa caccia.

XXXV.
Ma il giusti ciel, che i tradimenti ha in ira,
Sempre i disegni tuoi tronchi, e trasformi,
E vana renda ogni tua speme, e mira:
Nè giungano sì presto i lieti giorni
(Come da te si brama, e di sospira)
In cui novella sposa il seno adorni
Delle gemme, e de’ fregi un tempo….a lei
Qui mancò il fiato, e non potè dir miei.

XXXVI.
E oppressa dall’affanno, e dalla bile,
L’inconsolabil ombra a terra svenne:
Ma il Nume, che in bontà non ha simìle,
Pronta le porse aita, e la sostenne;
Poi volò al fiume, e in modo assai gentile
Col cappel d’acqua colmo a lei rivenne,
E tutto all’ombra lo versò nel petto
Che per rabbia languiva, e per dispetto.

XXXVII.
Qual chi per sogno torbido, e funesto
Viene agitati nella fantasia,
Mappa di Napoli, di A. Rizzi Zannoni, 1793 (particolare)
E piange, e grida, se da quello è desto,
La tetra visìon del tutto oblìa:
Così d’ogni pensier cruccioso, e mesto
E d’ogni cura disperata, e ria,
Per la virtù di quell’umore a un tratto
Restò Donna Rachele libera affatto.

XXXVIII.
Perdè d’Ercole suo la rimembranza,
La memoria perdé di Marianella,
Né pianger s’udìo più la mancanza
Della sua trombettina aurata, e bella:
Alfin nella felice Elisia stanza
Passò, qual capriola, agile, e snella:
E il Dio che di guidarla ebbe la gloria,
Ne recò a noi la grazia istoria.

La decisione di proporre nel blog questo componimento, scritto 224 anni fa e dedicato a una persona appartenuta a una nobile famiglia dell'aristocrazia napoletana dell'epoca, è stata presa solo per mostrare all'attenzione del lettore, una composizione che riteniamo originale per il suo genere, un proemio di tipo sarcastico, che può essere considerato un'interessante testimonianza letteraria poco consueta per l'epoca, ma comunque presente nel secolo dei Lumi. E, poi, anche perchè tra le righe dei versi si riesce a estrapolare circostanze e costumi tipici della nostra area e, più in generale, del territorio cittadino della grande capitale del Regno, del secolo XVIII. 
Salvatore Fioretto




sabato 1 febbraio 2020

Una terra di santi... poeti, giuristi e navigatori.: il barone avv. Giambattista Gallotti (V parte)

Continuando la serie delle biografie riguardanti i personaggi che sono nati o hanno trascorso una parte della loro esistenza nell'antico Casale di Piscinola, ricordiamo in questo post la figura del Barone Giambattista Gallotti, che fu celebre giureconsulto del Regno e nominato dal Re Ferdinando I, Soprintendente della Chiesa Parrocchiale del SS. Salvatore in Piscinola.
Il tribunale della Vicaria a Napoli
Del barone Gallotti già avemmo modo di accennare alla sua presenza e alla sua attività a Piscinola, quando descrivemmo la vita del pittore Francesco De Mura e del notaio Michele Valenzia.
Giambattista Gallotti ebbe i natali nel comune di Battaglia, in provincia di Salerno, nell'anno 1718. Suo padre, Carlo, che fu barone dei feudi di Battaglia e di Casaletto, si mostrò sempre un uomo integerrimo e di nobili costumi. 
Dotato fin dalla tenerissima età di grande ingegno, Giambattista si mostrò precocemente sveglio e arguto nell'apprendimento, oltre a essere dotato di carità religiosa nel far del bene; tali doti precoci fecero subito accendere nei genitori la speranza di un fulgido futuro, a lui riservato. 
All'età di venti anni, i genitori concordarono nel trasferire Giambattista nella capitale del Regno e di affidarlo alle cure del cugino, Tommaso Benevento, che era affermato avvocato del foro di Napoli. Anche l'avvocato Tommaso, si distingueva per la sobrietà dello stile di vita e la rigida condotta: cose che destarono forte emulazione nel giovane e contribuirono a plasmare il suo carattere. Dall'avvocato Benevento, Giambattista apprese i primi rudimenti del diritto. Oltre allo studio delle opere più famose degli scrittori greci e latini, il suo interesse si estese, poi, alle opere degli scrittori e poeti della letteratura italiana antica. 
Ritratto del barone Giambattista Gallotti in età senile
Studiò la filosofia, le scienze naturali conosciute nella sua epoca e, quindi, le materie di giurisprudenza. Il diritto naturale, con le istituzioni di Eineccio, gli scritti di Burlemachio, i doveri dell'uomo e del cittadino trattati da Pussendorfio, il diritto della guerra e della pace di Ugon Grozio, il diritto delle genti del Wattel, nonché i trattati giuritici di Seldeni, di Coccei e di Tomasii. Seguirono gli studi del diritto romano, ovvero dello spirito di legislazione di quelli che furono i conquistatori del mondo. Dopo le istituzioni di Giustiniano, affrontò la lettura dei commenti del Vinnio, del Cujaceo, del Perezio, del Goveano, di Noodt, di Brunemanno, di Duareno, di Fabron, di Domat, di Giaconzo e di Dionisio Gotofredi. Continuò con le opere dei giuristi del diritto patrio antico: di Matteo d'Afflitto, di Andrea d'Isernia, Andrea di Capua, di Carlo Tapia, di Rovito, di Marinis e del De Franchis. Studiò il diritto criminale.
Studiò le opere di Anton Mattei, di Beon, di Beccheria e di Romagnosi.
Studiò diritto canonico, immergendosi nello studio e nell'apprendimento attraverso le opere di  Vanespen, Florente, Barbosa, Aluiso, Boemero e Tomasio.
Passò quindi a sperimentare il terreno pratico dell'attività forense, per mettere in pratica l'erudizione appresa nello studio.
"Ed eccolo nell'arido terreno sparso di bronchi e di spine, in cui non di rado l'impostura il cavillo e la mediocrità rapiscono il premio al vero merito e i buoni talenti non possono fare a meno di vedersi trasandati e avviliti ....". (cit.)
Piscinola, Piazza Municipio (oggi piazza B, Tafuri), part. da cartolina d'epoca
Il nostro Gallotti, entrato, per così dire, in quel mare immisurabile dell'attività del Foro, pieno di nobili idee e di coraggio, non si smarrì, ben sapeva che la conquista della fama di "Principe del Foro" dipendeva dalle capacità dell'intelletto e da altri nobili qualità, che non appartengono al resto degli uomini, sapendo che la più essenziale delle cognizioni dell'avvocato doveva essere la conoscenza dello spirito e del cuore umano.
Era convinto, infatti, che il primo dovere dell'avvocato era quello di saper conoscere gli uomini, essere istruito delle loro virtù, dei loro vizi, delle loro debolezze;  essere dotato della più vasta intelligenza, del più facile discernimento e della capacità di conoscere e saper applicare le regole e i principi legali ai casi particolari. Per quanto concerne le virtù del cuore, l'avvocato, per il Gallotti, doveva essere pronto a sacrificare con generosità la propria libertà, essere disposto a sormontare gli ostacoli che possono presentarsi, avere uno zelo ardente nel difendere l'infelice e l'innocente e, ancora, avere una nobile franchezza, saper coltivare il linguaggio della verità e, non ultimo, avere un disinteresse a tutta prova: tutto questo doveva contribuire a non alterare la grandezza di animo che deve caratterizzare il giureconsulto.
La Sua vasta conoscenza e l'intelligenza gli avvalsero la stima dei più ragguardevoli magistrati del Foro, dei colleghi e di quanti lo conobbero e lo frequentarono. Tale statura mantenne negli anni, sempre privo di lusinghe, d'ipocrisia, di sfrenato orgoglio, anche quando gli affidarono importati cause per controversie di natura feudali, ecclesiastiche, "fedecommessarie" e "consuetudinarie".
Nell'intendo di servire con umiltà la sua Patria, egli, privatamente, nella sua casa, offriva lezioni di diritto, con amore e passione, a una schiera di giovani allievi, bramosi di apprendere la nobile materia del diritto, della quale, Gallotti, ne era depositario e cultore.
A tutti destava ammirazione vedere il precettore essere attorniato da giovani studenti, che seguivano il maestro con interesse e questo li ripagava di limpidissima e chiara esposizione, li illuminava, li arricchiva e li temprava... Dai sui studenti uscirono giureconsulti di grande fama, tra cui: Vincenzo Aloi e Giuseppe Cappelli, quest'ultimo già consigliere della Suprema Corte di Giustizia.
La Sua notorietà talmente che si diffuse e fu apprezzata che il sovrano Ferdinando I, lo nominò, a giusto vedere, giudice della Gran Camera della Vicaria. Ma egli, sempre di animo modesto, ringraziò il monarca per l'onore concesso e rinunciò alla carica, preferendo dedicare tutto il suo tempo alla difesa dei diritti sacri dell'uomo, a difendere i suoi clienti e a guidare i suoi studenti.
Chiesa del SS. Salvatore parte absidale
Ciononostante, lo stesso re, Ferdinando I, lo assegnò al governo del Banco di San Giacomo e, poco dopo, lo nominò soprintendente della Chiesa Parrocchiale del SS. Salvatore in Piscinola. E per quest'ultimo tempio, il Gallotti si prodigò non poco, e ci riuscì, a condurre a termine il suo restauro, dato che al momento della sua investitura la chiesa si presentava praticamente nello stato cadente. C'è da aggiungere che, contrariamente ai tanti, che pur prodigandosi per risolvere i problemi, chiedono in cambio compensi o favori, il Gallotti non solo rifiutò i compensi spettanti, ma addirittura ci rimise anche del denaro dalla propria tasca...!
Fu amico del notaio Michele Valenzia di Piscinola e del celebre pittore Francesco de Mura. Fu, quindi, nominato dal De Mura esecutore del legato che egli concesse, con testamento, alla chiesa del SS. SalvatoreNel testo estrapolato dal testamento, che qui riportiamo in parte, si noti la ricorrente menzione dell’avvocato Giambattista Gallotti, dichiarato dal De Mura, suo "carissimo amico e compadre”... ecco il testo:
…Ogni dubbio si debba sciogliere e, dichiarare dal suddetto Sig.r Avvocato D. Gio: Battista Gallotti a chi ho comunicata tutta la mia volontà, e che mi ha consigliato nel presente mio Testamento, e la dichiarazione facienda dal medesimo, si abbia come parte del presente mio Testamento, e si debba ad unguem osservare ed eseguire dal detto mio Erede, atteso così è mia volontà. 
Piscinola Lì undici Ottobre millesettecento ottanta. Io Francesco di Mura ho disposto come sopra.
Il barone Salvatore Gallotti
Il pittore Francesco De Mura tanto apprezzava le qualità umane e spirituali del barone Gallotti, che gli volle regalare il crocifisso conservato nella sua casa, con questa disposizione: “Ed oltre a ciò Lego a beneficio dello stesso avvocato Sig.r Gio: Battista Gallotti il mio Crocifisso, che conservo in uno Scarabatto nella stanza del mio Letto, unito collo stesso Scarabatto ed altro di suo ornamento, acciò si ricordi dell’Anima mia”. Risultano aggiunti poi altri codicilli al testamento, il 16 luglio 1782. 
Le ultime volontà del pittore, sempre menzionando Gallotti, concludono, dicendo: “Lascio Esecutori di questo mio ultimo testamento L’ill.re Marchese Presidente della regia Camera della Sommaria, Sig.r Don Angelo Granito, L’Ill.re Marchesino D. Giovanni Granito e L’Avv. Sig.re D. Gio: Battista Gallotti.
Non sappiamo quanti figli ebbe Giambattista e nemmeno il nome della consorte, sappiamo però che il più celebre dei suoi figli fu Salvatore, che seguì le orme paterne di giureconsulto e di filosofo. Salvatore Gallotti nacque a Napoli nell'anno 1775, fu subito affidato al precettore Vincenzo De Verio, seguirono gli insegnamenti del padre, Giambattista, svolti tra le mura domestiche, poi del domenicano Minasi e di Marino Guarano. Fu dal Sovrano nominato giudice, prima del tribunale civile di Cosenza e, poi, di quello di Napoli. Fu nominato anche presidente dell'Accademia di Giurisprudenza a Napoli. Viene ricordato per essere stato uno dei primi commentatori delle opere di Giambattista Vico.
Ritornando a Giambattista Gallotti, sappiamo che fu un fervidissimo credente cattolico. Egli mise, sopra ogni cosa della vita, la religione, considerando che ogni verità è emanata da Dio, che è la verità infinita... Suo il nobile pensiero secondo il quale: ...laddove non vi è Dio, non vi è verità...! Le dottrine filosofiche ammortiscono e disseccano la vita, esse tutto tolgono all'uomo, eccetto la miseria... e lo conducono alla tomba assieme all'inquietudine e ai rimorsi. Da tali principi trasse una pietà solida e illuminata, che fu esempio per tutti.
Fu semplice come la verità, saggio come la legge, disinteressato come la giustizia; non si macchiò mai di alcuna onta di scandalo e non inseguì desideri di una falsa gloria.
Opera scritta da Giambattista Gallotti
Quando si avvicinarono gli ultimi momenti della sua vita, seppe attendere il giorno estremo con serenità, con confidenza e con attesa del giusto. Ripeteva spesso: "Paventi colui, che spandendo un velo sulla ragione, fabbricossi un sistema mostruoso, non ravvisò che un circolo eterno di cose, si atterrò sul sostegno delle sue infelicità, e fu così stolto, che assoggettandosi all'impero del capriccio e della forza, rendette assolute e sovrane tutte le voglie della natura peccatrice. Questo uomo tradì sé stesso, dissimulò e compresse i moti benefici del suo cuore, e gittandosi in una notte eterna e dubbiosa, ricusò sin nel sepolcro il conforto de' miseri, la speranza". (cit.)
Con queste frasi volle ricevere l'estrema unzione nella chiesa e, dopo aver dato l'ultimo saluto e benedizione ai suoi amati figlioli, carico di meriti e consumato dagli acciacchi e dagli anni, morì nel mese di giugno del 1799.
Non ci sono prervenute molte opere di Gallotti, ma coloro che hanno potuto leggere i suoi scritti di natura legale, si sono resi conto dello spessore del sommo giureconsulto. 
Coltivò in vita sua tantissime amicizie, perlopiù di persone che vivevano al di fuori dei confini del Regno. Alla sua dipartita furono in tantissimi a ricordarlo e a rimpiangerlo.
Gran parte di questa biografia sul barone Giambattista Gallotti è stata tratta dal discorso funebre, scritto dall'amico Nicola Morelli di Gregorio.
Salvatore Fioretto

venerdì 24 gennaio 2020

A Scampia un Caffè Speciale... di Salvatore Tofano


L’11 gennaio u. s. al Centro Hurtado in viale della Resistenza a Scampia si è tenuto un caffè letterario “molto speciale”. Apparentemente si era lì come sempre per assistere alla presentazione di un libro. Ma il libro “Quasi un diario” era l’ultima “fatica” di Franco Maiello e Franco Maiello è il “creatore” di quel caffè letterario.
Si era nel 2004, in piena “guerra di camorra”, e una piccola parte di noi residenti stava programmando attività nell’ambito della ULTEN di Scampia. L’intenzione era quella di creare aggregazione e attività che ci facessero sentire almeno un poco più “normali”, più vicini a una città di cui pure facevamo parte, che un po’ ci ignorava, che a tratti sembrava vergognarsi di noi. Come se il degrado e l’abbrutimento fosse colpa del quartiere e non di chi lo aveva creato così, senza strutture, senza piazze né strade con vetrine: una sorta di deserto dove era difficile persino spostarsi da un abitato all’altro, con un addensamento umano percentualmente alto di disagi socioeconomici e di situazioni al limite della legalità.
Chi come noi era garantito da un buon lavoro e da un sia pur piccolo bagaglio culturale, per le statistiche e l’immaginario mediatico, era come se non esistesse. Ci sentivamo dei fantasmi, privi di voce e visibilità. Per gli altri eravamo tutti o tossici o ladri o spacciatori; e, ovviamente, ne soffrivamo.
“Perché non mettiamo su un caffè letterario?” disse Franco.
Lo guardammo interdetti.
“Un caffè letterario qui a Scampia?” chiedemmo.
“Perché no?” fece lui.
Il primo incontro lo tenemmo nella saletta del bar “Le terrazze” del parco urbano di Scampia. In tutto eravamo pochissime persone, meno di dieci. A “piazza telematica”, dove ci furono gli incontri successivi, il pubblico cominciò ad aumentare, forse attratto anche dalla curiosità di vedere l’ospitante struttura informatica, di cui si diceva un gran bene.
Causa la sopraggiunta indisponibilità della “piazza telematica”, il “caffè” si trasferì nella storica sede del Gridas.
Successivamente si fecero avanti il Teatro Area Nord di Piscinola e il centro culturale “Alberto Hurtado”, che insieme al Gridas andarono a costituire le tre sedi, nelle quali periodicamente ebbero e hanno tuttora luogo gli incontri.
Se notevole fu il gradimento del pubblico, e tale fu, lo si dovette al carisma del conduttore, alla sua capacità di creare “atmosfera” e aggregare; e, anche, alla paziente e fattiva collaborazione della moglie Ester con le sue torte e biscottini preparati in casa e i termos col caffè. Tutto si reggeva sulla spontaneità e la voglia di vivere situazioni di “società civile”, su disinteressato volontariato.
Giuseppe Montesano, uno dei più noti scrittori napoletani, dopo l’incontro nel quale era stato ospite, redasse un bellissimo resoconto, apparso sia su “Il Mattino” che sul foglio locale “Fuga di notizie”, nel quale confessò di aver scoperto  “un’altra Scampia (…) che ha difficoltà a farsi vedere, ma c’è, e resiste, e vuole vivere”.
Al di là del non irrilevante numero dei partecipanti e dell’apparente tediosità e innocuità di un’attività di lettura e di ascolto di musica classica, il Caffè Letterario, assunse una pregnanza simbolica per il quartiere, che restrinse di fatto “il solco di separazione dal resto della città”, funzionando involontariamente da volano per un cambio di immagine di Scampia.
Al caffè letterario in onore di Franco Maiello è intervenuto il sindaco Luigi de Magistris, che gli ha consegnato la “medaglia della città”, quale riconoscimento della sua meritoria azione in favore del quartiere. Altro riconoscimento una targa onorifica da parte del responsabile del Centro Hurtado. 
Il Majello, anni 86, come ha affermato il dirigente scolastico Rino Malinconico nel suo intervento, è “una persona mite, garbata e intelligente, capace di disarmare il male con un sorriso”; e, aggiungerei, “ferma e decisa, capace di tenere il timone a dispetto di qualsiasi vento contrario”.
Auguriamo al caro Maiello di continuare ancora per anni il “suo” e “nostro” caffè letterario perché Scampia ne ha bisogno; e con lui ringraziamo l’altrettanto valido Giuseppe Finaldi, che da qualche anno si alterna con lui nella conduzione dello stesso.
                                                                           Salvatore Tofano  


Ringraziamo il carissimo scrittore, Salvatore Tofano, che è anche un riconosciuto e bravo vignettista, per aver onorato "Piscinolablog" con questo bel ricordo letterario dedicato al carissimo prof. Franco Maiello e al suo "Caffè Letterario di Scampia". 
Al caro professor Maiello esprimiamo le nostre felicitazioni per i prestigiosi riconoscimenti ottenuti.                                                                                             La Redazione (S.F.)