domenica 25 febbraio 2018

A Bartolommeo Capasso: il "gran vegliardo" della storia antica dei Casali di Napoli



Quando, nel lontano 2013, iniziammo le pubblicazioni di “Piscinolablog”, il nostro primo pensiero fu rivolto a colui che tanto fece per la storia di Napoli e dei suoi Casali, al grande Bartolommeo Capasso. Per l'occasione prendemmo spunto da una sua celebre frase, per dedicargli questo nostro impegno culturale: “Se vuoi essere universale, parla della tua terra”. Fu una meritoria dedica al "Gran Vegliardo", come lo definì il poeta e scrittore Salvatore di Giacomo, perché, grazie alle sue erudite ricerche storiche e alle sue numerose pubblicazioni, tanto dono di notizie Egli fece alla cultura e all'umanità intera; tanto da far conoscere a tutti la storia antica della città Napoli e, con essa, quella dei suoi amenissimi Casali.
Capasso nacque a Napoli, il 22 febbraio 1815, nel quartiere Porto, da genitori originari di Frattamaggiore. 
Il padre, Francesco, era un ricco commerciante di canapa, la madre, Maria Antonia Patricelli, era casalinga, molto religiosa. Alla madre dedicò nel 1846 il saggio: Topografia Storico Archeologica della Penisola”, definendola “Raro esempio di cristiane e domestiche virtù”. Rimasto presto orfano di padre, a soli 6 anni, iniziò gli studi nel Seminario di Napoli, completati poi a Sorrento, dove si era trasferito con la famiglia, perché la madre ebbe a risposarsi con un facoltoso possidente sorrentino. Dimostratosi già in tenere età un talento nell’apprendimento, soprattutto del latino, del greco e della storia antica, era dotato di profondo acume e di spirito critico, al di fuori del suo tempo. 
A 18 anni iniziò un lungo viaggio per la penisola italiana, accompagnato da un caro amico, durante il quale ebbe modo di constatare la grave carenza della ricerca storiografica nell’Italia meridionale, già da lui evidenziata nel corso degli studi.
A 29 anni gli fu affidata da un insegnante, che lo ebbe molto a cuore, il prof. Troya, che fu fondatore della Società di Studi Storici (primo nucleo antesignano della Società di Storia Patria), la direzione del settore della Società dedicato alla ricerca e al riordinamento dei documenti riguardante il periodo aragonese, in particolare quanto concerneva la figura del re Alfonso d’Aragona "il Magnanimo". La Società durò solo tre anni, perché fu chiusa dal governo borbonico, durante i moti del 1848; anche se questo triennio fu proficuo di esperienze per il Capasso.
Bartolommeo Capasso diede vita a un nuovo metodo della studio della Napoli Antica, minuziosamente esaminata nei costumi, nelle leggi, negli usi, nella lingua e nelle costruzioni monumentali.
Egli alloggiava in una modesta casa in largo Santa Maria La Nova (fino al 1877), dove svolse un lavoro ininterrotto e incessante. Usciva solo un’ora la sera, per trascorrerla con alcuni amici, ai tavoli di un caffè. Nel 1844 pubblicò il suo primo libro: “Topografia storica archeologica della penisola sorrentina”.
Nello stesso anno sposò una ragazza diciannovenne, dalla quale ebbe tre figli, due femmine e un maschio. Purtroppo il fanciullo morì a soli cinque anni, a causa della sua costituzione debolissima.
Nel 1849 diede alle stampe: “Memorie storiche della chiesa sorrentina” e, dopo pochi mesi, il saggio “Sull’antico sito di Napoli e Palepoli”, dedicato al figlioletto scomparso.
Nel 1855 pubblicò: “La Cronaca napoletana di Ubaldo edita dal Pratilli nel 1751 ora stampata nuovamente e dimostrata una impostura del secolo scorso”.
Gli studi accurati lo portarono presto a un indebolimento della vista. Problema che si acuirà con gli anni, fino a raggiungere la completa cecità!
Intanto, con l’Unità d’Italia, poteva rivedere la luce la “Società di Studi Storici”, mentre nel 1876, insieme a Giuseppe de Blasiis, Camillo Minieri Riccio, Benedetto Croce e altri, il Capasso fondava la “Società Napoletana di Storia Patria”, della quale fu inizialmente vicepresidente e poi presidente, dal 1883 fino alla sua morte. La "Società di Storia Patria" è tutt’oggi esistente e attiva, con una pregevole e ricca biblioteca. Fondò anche la celebre rivista storica: ”Archivio storico delle Provincie napoletane”.
Nel 1881 venne pubblicato il primo volume di storia approfondito sul Ducato di Napoletano, opera che sarà considerata il suo capolavoro: “Monumenta ad Neapolitani Ducatus pertinentia quae partim nunc primum, tartim iterum typis vulgatur…”. L’opera, che raggiungerà i tre volumi, completati tra il 1885 e il 1892, fu arricchita nel 1896 con la “Carta Corografica del Ducato napoletano nel secolo XI”, che mostriamo in queste pagine, con due foto: nel particolare della mappa si possono scorgere i Casali attorno a Napoli esistenti già nell'anno mille, come Piscinola, Miano, Chiaiano, Polvica, ecc..
Altri suoi lavori furono: “Le fonti della storia delle Provincie Napoletane dal 568 al 1500”, la “Novella di Ruggiero re di Sicilia e di Puglia promulgata in greco nel 1150, con la traduzione in latino”, “Sul catalogo dei feudi e dei feudatari delle provincie napoletane sotto la dominazione normanna”, “La storia esterna delle costituzioni del regno  di Sicilia promulgate da Federico II”, il “Catalogo ragionato dei libri, registri e scritture esistenti nella sezione antica o prima serie dell’Archivio Municipale di Napoli (1387-1806)”, “L’inventario cronologico sistematico dei Registri Angioini conservati nell’Archivio di Stato di Napoli”, “Il Tasso e la sua famiglia a Sorrento”, “Masaniello”, “Napoli greco romana”… E tanti altri libri ancora….
Scriveva Sosio Capasso, autore della Biografia, da cui abbiamo attinto gran parte delle notizie: “Bartolommeo Capasso e la nuova storiografia napoletana”, ed. 1981: “Guardiamo a Bartolommeo Capasso non solo come ad uno studioso di rare capacità e di infaticabile tempra, ma altresì come al convinto assertore della necessità di un rigoroso metodo scientifico nella ricerca storica, al maestro che ha fatto e fa scuola e che individuò l’importanza della storia locale ai fini della più approfondita e sicura conoscenza di quella generale…”.
Come tutti i personaggi semplici e modesti d’animo, non ebbe velleità di gloria. Non ebbe mai incarichi di insegnamento, ma moltissime onorificenze accademiche: "Professore onorario dell’Università di Napoli", "Professore honoris causa dell’università di Heidelberg" e altre. Fu collaboratore e corrispondente di diverse riviste tedesche specializzate in storia e archeologia. 
Fu deputato di "Storia Patria" delle regioni Toscana, Umbria e Marche, nonché socio delle principali accademie italiane ed europee, tra le quali: l'Accademia dei Lincei e L'Accademia Ercolanese. Lo seguirono con passione diversi giovani collaboratori, che divennero poi autentici accademici e prosecutori della sua opera, tra questi: Carlo Luigi Torelli della provincia di Foggia, Gaetano Capasso e il figlio Carlo, quest'ultimo professore di economia dell’Università di Napoli e autore di approfonditi studi storici sulla città di Frattamaggiore.
Ritornando a Bartolommeo, nel 1882 il governo italiano gli affidò l’incarico di Soprintendente dell’Archivio di Stato di Napoli, ruolo che accettò dopo notevole insistenze.
All’Archivio di Stato egli profuse un eccezionale impegno di Archivista, contribuendo tra l’altro a dare alla luce fasci di pergamene abbandonate, collocandole divise per periodi; “Anteriori al 1806 e posteriori”, divise per organismi emittenti: Tribunale di S. Lorenzo, altri tribunali, deputazioni, ecc.
All’ottantesimo suo compleanno, che fu festeggiato da autorità e amici presso l’Archivio di Stato, pregò il marchese di Montemayor di leggere per lui le parole in ringraziamento, esprimendo pensieri di incoraggiamento ai giovani per la ricerca storica. E’ il grande Salvatore di Giacomo a ricordarcelo in un suo scritto: ”Bartolommeo Capasso compiva, in quel giorno, l’ottantesimo compleanno suo e questa produttiva, gloriosa, veneranda senilità era quella propria che raccoglieva tutti noialtri commossi, nella bella sala luminosa. Il grande maestro di tutti coloro che han fatto e van facendo cose degne di attenzione e non inutili, l’avviatore della gioventù volenterosa per la via della ricerca costante, quell’esemplare di antica bontà mescolata e immedesimata con le forme ultime dello studio esatto, sedeva al banco di presidente”.
Seppe ridare lustro alla gloria dell’antico Ducato di Napoli, alla memorie aragonesi e angioine. La sua opera storiografica fu immensa e toccò tutti i settori delle scienze storiche: topografia, archeologia, storia dell’arte, storia politica, storia letteraria..., con la pubblicazione di ben 102 libri.
L’ultimo fu il famoso testo “Napoli greco romana”, pubblicato dopo la morte dalla "Società di Storia Patria", tramandando le memorie di archeologia antica della città di Napoli, altrimenti le trasformazioni del “Risanamento” avrebbe per sempre cancellato.
Nella sua grandezza fu sempre umile, riservato, raccolto e sereno, non ricevette mai offese e calunnie, ebbe funerali semplici e modesti, come da lui stesso desiderati: “Desidero funerali modestissimi, come modestissimamente vissi. Sola pompa, l’accompagnamento dei poveri di San Gennaro ed un carro di seconda classe. Non fiori né discorsi, perché della benevolenza dei miei concittadini ho avuto troppe pruove anche superiori ai miei meriti.”... Un grande, nella sua umiltà!
Morì a Napoli, il 3 marzo 1900.
Cosi scriveva ancora su lui Salvatore Di Giacomo “…passò da una specie di dolce sfinimento al sonno eterno. O buoni poveri occhi che da un anno non vedevano più. La morte li chiuse con una carezza: il vecchio pareva che dormisse. La camera ove, sul suo semplice lettuccio, Bartolomeno Capasso, bianco bianco, immoto, pareva che fosse placidamente assopito, la camera luminosa era piena di fiori. E in mezzo ai fiori, in quella luce, sul suo candido letto, il gran vecchio onesto e giusto pareva un santo”.
A Bartolommeo Capasso dobbiamo un "grazie speciale" per averci tramandato, attraverso il suo capolavoro: “Monumentia ad Neapolitani Ducatus pertinentia ….”, le memorie antiche della nostra terra. Il contenuto di antiche pergamene e di atti rogati del periodo medioevale, che parlano della storia di Piscinola, Miano, Marianella, e di tutti i Casali del circondario, con la specificazione di molte località e toponimi antichi, senza la sua opera, sarebbero stati altrimenti del tutto dispersi e dimenticati per sempre,  specie dopo il grave danno subito con la distruzione dei "Registri della cancelleria angioina e aragonese", ad opera dei soldati tedeschi, a S. Paolo Belsito, nel 1943.
Ringraziamo riconoscenti il grande Bartolommeo Capasso, riportando una sua massima, della quale cerchiamo di far nostro tesoro: “…quali eredi del patrimonio lasciato dai nostri padri, noi abbiamo l’obbligo di custodirlo, ma anche di lavorare per far sì che questo ricco patrimonio fruttifichi…”.
Grazie di tutto, don Bartolommeo!!
Salvatore Fioretto




sabato 10 febbraio 2018

Ferrovia e paesaggio: matrimonio perfetto! Cinque anni dal libro...


In occasione del quinto anniversario della prima stampa del libro sulla ferrovia "Napoli Piedimonte d'Alife", eseguita nel 2013, durante i festeggiamenti del Centenario della ferrovia, ho pensato di pubblicare uno stralcio rappresentativo del libro, ovvero il primo capitolo di "Ricordi d'infanzia", e quello finale di "Note conclusive".
Ricordi d'infanzia:
"Spesso sento riaffiorare nella mia mente i ricordi della mia infanzia… 
Come si fa a non ricordare la vecchia ferrovia Piedimonte…?!
Non ricordo quando l'ho vista la prima volta. Si può dire che l'ho sentita e vista da sempre come un oggetto familiare, di cui non temere, già ai tempi della mia tenera età: essa, infatti, è sempre stata presente negli avvenimenti della mia infanzia e della mia vita.
Sono di origini contadine e abito fin dalla nascita nel quartiere di Piscinola, luogo che almeno fino a quaranta anni fa era ancora un dolcissimo borgo dell'hinterland di Napoli, dove la natura e l'alternarsi delle stagioni segnavano lo scandire del tempo ed era abitato da gente semplice e genuina.
Piscinola allora si presentava ancora come un borgo, di antichissime tradizioni agricole e non solo, con tanto di banda musicale, festa patronale e amore per il buon vino e la cucina contadina, un po’ come tutti gli altri centri vicini. Ebbene in questo luogo, dalle caratteristiche un po’ bucoliche, la costruzione e l'esercizio della "Piedimonte" rappresentò, nel primo decennio del ‘900, la testimonianza del diffondersi del progresso: s'intende quello "buono" ed "intelligente", che ne risvegliò con il suo "via vai" quotidiano il ritmo di sviluppo un po’ lento.
Stazione di Giugliano, anno 1974, foto di Rohrer
Essa contribuì non poco alla diffusione della cultura e della solidarietà tra gli abitanti della sterminata provincia a nord di Napoli; favorì senza dubbio l'arricchimento culturale di quelli che erano additati dai benpensanti cittadini, come "provinciali" ('e cafoni).
Il nuovo mezzo di comunicazione contribuì ad appianare le differenze sociali, facendo sentire le popolazioni appartenenti ad un’unica grande metropoli, ricca di fascino, storia e cultura. Non per niente Piazza Carlo III, terminale primitivo della ferrovia di origini francese era un po’ il cuore del centro antico di Napoli, il baricentro del sogno europeo di Carlo III di Borbone, quando costruì il Reale Ospizio dei Poveri.
La mia campagna che fu acquistata da mio nonno Salvatore, nel 1925, era stata divisa in due proprio dalla linea ferrata, al momento della sua costruzione (Napoli - Capua) che, come è noto, fu inaugurata nel marzo 1913.
Le rotaie si adagiavano su regolari traversine di rovere, sostenute da una massicciata in rilevato biancastra, che solcava, spesso in rettilineo, il verde intenso e ricco della campagna napoletana, composta da tanti alberi da frutta, rigogliosa e lussureggiante.
Ricordo i "pasteni” di mele Annurche di Mugnano, i "pasteni” di cachi (le famose “legnasante” di Mugnano e Calvizzano), i ciliegeti di Chiaiano, i “pasteni” di pesche e “percoche" di Scampia (un tempo Scampia era la piana agricola di Piscinola) ma, soprattutto, ricordo i cachi maturi e dorati, che rimanevano sugli alberi spogli di foglie, fino all’approssimarsi del Natale, quando la campagna diveniva tutta brulla, in attesa dell'inverno.
Poi tutto ritornava uguale a prima, in un alternarsi periodico e costante. Così ogni anno...! E chissà da quanti secoli prima, fino ad allora...!
In primavera era uno spettacolo straordinario! La campagna si colorava di fiori variopinti (il rosa delle pesche, il giallo delle rape, il bianco dei ciliegi, delle prugne e delle pere. Poi, quando i petali cadevano a terra, spesso il vento li risolleva, generando un fantastico paesaggio con fiocchi di neve colorata, che si spostava qua e là, trascinata dal vento...
Veramente un sogno...!
Stazione di Scalo Merci (via D. Bosco), fotogramma tratto dal film "Napoli, sole mio"
Il treno attraversava questo paesaggio, dove era difficile scorgere case, talmente che era sconfinato e denso di verde. Solo i raggi del sole, spesso al mattino, penetravano a tratti nella vegetazione, generando continui flash di luce, che illuminavano l'interno dei vagoni e irradiavano il volto e gli occhi dei viaggiatori.
Non c'erano recinzioni tra la linea ferrata e la campagna circostante, era un tutt'uno: una simbiosi quasi perfetta, che non stonava, anzi, incantava a vederla, specialmente quando d'estate il sole picchiava a mezzogiorno, e faceva sembrare ancora più bianca e splendente la massicciata di brecce bianche.
Stazione di S. Maria Capua Vetere - S. Andrea
I vari poderi, che costeggiavano la linea della "Piedimonte", erano collegati tra loro da viottoli sterrati, che attraversavano i binari in più punti, attraverso dei passi carrai, anche se  essi nacquero come pedonali.
Erano realizzati con del pietrischetto giallastro, cosparso e battuto a livello delle rotaie, per permettere l'attraversamento di carriole e biciclette. Ai margini dei passi erano sistemate quattro colonne di marmo bianco, di forma cilindrica, alte quasi un metro e poste a coppie: una coppia di fronte all'altra; ogni coppia di colonne erano collegate tra loro con doppie catena.
Dopo alcuni anni le catene scomparvero, non si sa per mano di chi... Sicuramente queste erano di intralcio all'attraversamento dei binari con mezzi rotabili.
Ai lati della linea ferrata c'erano poi due camminamenti, sempre in terreno battuto, larghi circa mezzo metro ognuno, che venivano chiamati dai contadini “'o lemmate" (forse dal termine "limite") ed erano utilizzati dai guardiani cantonieri della "Piedimonte", per eseguire l'ispezione giornaliera dei binari, a bordo delle loro biciclette.
Ricordo ancora il guardiano del lotto, che sorvegliava la nostra zona; strinse una bella amicizia con mio padre. Si prestava volentieri a dare anche un'occhiata al nostro poderino e, frequentemente, papà gli regalava della frutta.
La "Piedimonte" scandiva con il suo passaggio il passare del tempo: veniva usata da molti concittadini come un orologio sonoro, in maniera simile alle campane della chiesa parrocchiale del SS. Salvatore, protettore di Piscinola. Infatti quando si era nei campi non portavano con essi orologi e, unitamente alla posizione del sole, costituiva un modo semplice per stabilire l’ora.
Foto ricordo a bordo della elettromotrice E2, 2009
Mia madre ricordava a memoria l'orario dei treni e sapeva dire velocemente a quale corsa apparteneva la vettura in transito. Infatti quando il treno "transitava" si sentiva un tremolio non indifferente al solaio di casa nostra e si sentiva pure lo stridore delle ruote, quando i convogli frenavano. Spesso il treno emetteva qualche fischio per segnalare il suo imminente transito alla vicina stazione di Piscinola, distante appena duecento metri da casa nostra.
Le prime corse avvenivano intorno alle sei del mattino e le ultime verso le nove-dieci di sera. Ricordo che quando il treno transitava la sera inoltrata, soprattutto in estate, si diffondevano fasci di luce provenienti dai fanali in testa al locomotore. Essi illuminavano a tratti la campagna ed il paesaggio notturno: disegnava, qua e là, ombre mobili un po’ fantastiche, in base ai cespugli ed ai fusti d'albero, che incrociava il fascio di luce. D'inverno, invece, i fari si vedevano netti, a causa della scarsità della vegetazione."
 
Stazione di Aversa, della nuova ferrovia "Piscinola-Aversa"

Note conclusive: 
"Concludo questo mio racconto, scritto per celebrare il Centenario della inaugurazione della Ferrovia ”Napoli Piedimonte”, incentrato sui miei ricordi, riguardanti la cara e vecchia “Piedimonte”, con l’inserimento in “Appendice” di una serie di scritti e racconti di altri autori, dedicati alla mia cara ferrovia.
Spesso chi prende delle decisioni così importanti, quali quelle di sopprimere una linea ferroviaria, esegue solo una valutazione sistemica (costi-benefici), ma non valuta o addirittura ignora i valori umani ed i sentimenti di cui essa è portatrice nel contesto sociale di appartenenza.
Non viene mai valutato il valore culturale ed etico che si cela dietro a semplici impianti e traversine. Le ferrovie sono a tutti gli effetti parti integranti del tessuto urbano, al quale appartengono a pieno titolo. Le loro vestigia sono dei siti di archeologia industriale e come tali vanno protetti e conservati. 
Per quanto riguarda la “Piedimonte”, ci resta l’orgoglio di condividerne la memoria e la consapevolezza di conservarla come un vanto tra i nostri ricordi più belli.
Tanti auguri ancora “Piedimonte”: lunga vita alla “nuova”!" 
Salvatore Fioretto

Il contenuto di questo post è stato tratto dal libro "C'era una volta la Piedimonte", di S. Fioretto, stampato dalla casa tipografica "Athena", nella riedizione dell'anno 2014.

sabato 27 gennaio 2018

Pioppi e Salici, per una terra feconda di essenze, al servizio dell'uomo


"Finalmente raggiungemmo la pianura di Capua … Nel pomeriggio ci si aprì innanzi una bella campagna tutta in piano…. I pioppi sono piantati in fila nei campi, e sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti…. Le viti sono d’un vigore e d’un’altezza straordinaria, i pampini ondeggiano come una rete fra pioppo e pioppo.”

J. W. Goethe
E’ il commento che Johann Wolfang von Goethe riportava nella sua opera “Viaggio in Italia”, opera scritta tra il 1813 e il 1817, che descrive il resoconto di un Grand Tour eseguito in Italia, tra il 3 settembre 1786 e il 18 giugno 1788.
Con questo autorevole commento del celebre scrittore e poeta tedesco, dedicato alla nostra Campania Felix, introduciamo l’argomento di questo post, che è dedicato a due essenze botaniche illustri, possiamo dire autoctone del territorio, in quanto già esistenti ai tempi degli Etruschi e poi, degli Osci, dei Greci, dei Romani, dei Goti, dei Bizantini, dei Longobardi e, via dicendo, fino al secolo scorso: parliamo del Pioppo e del Salice Rosso, appartenenti alla famiglia delle Salicaceae. 
Il termine botanico del Pioppo è Populus, che vorrebbe significare, secondo alcuni: “Popolo dei fiumi”, e deriverebbe dal fatto che esso predilige i luoghi umidi e trova il suo habitat naturale lungo i corsi dei fiumi, dove nasce spontaneo o viene intensamente coltivato, come in Pianura Padana.
Veduta di Napoli dalle colline, di Kiep, amico di viaggio di Goethe, 1787
Per un’essenza antica, ovviamente, non potevano mancare delle leggende mitologiche ad essa legate.
Per il Pioppo Nero: Fetonte, figlio del Sole e dell'oceanina Climene, chiese al padre di poter utilizzare il carro solare. Purtroppo avendone perso il controllo, tanto da rischiare la distruzione della Terra, il padre celeste fu costretto a colpirlo, facendolo precipitare nel fiume Eridiano. Le sorelle, le Eliadi, disperate furono trasformate in funerei Pioppi Neri, da cui colano lacrime che si induriscono al sole, l'ambra. Per tal motivo, il Pioppo Nero fu sempre considerato un albero funerario, sacro alla Madre Terra.
In epoca storica "Gaia" era ancora consultata a Egira, in Acaia, toponimo che significava “il luogo dei neri pioppi“. Qui le sacerdotesse bevevano sangue di toro, veleno letale per tutti gli altri mortali. Ulisse nei corso del suo viaggio nell'Aldilà si imbatte nei Pioppi Neri del bosco di Persefone, insieme con i salici, ad indicare la soglia che divide i vivi dai morti.
Veduta dall'alto di Piscinola, con diversi appezzamenti coltivati a vigneti e pioppi, anno 1943 ca.
Il simbolismo funereo del Pioppo Nero è riconducibile alla Terra e al ciclo di vita-morte-vita. Il pioppo era sacro anche a Zeus (Giove nella latinità). La tradizione narra che le foglie che erano poste verso l'interno della testa conservarono il loro colore, mentre le altre si scurirono per il fumo degli inferi: perciò esso divenne il simbolo della dualità che vi è in ogni cosa, in linea ancora una volta con Madre Terra

Il Pioppo Bianco, invece, è ricordato nel mondo ellenistico con il termine di Leuke. Leuke, era una meravigliosa ninfa, per sfuggire ad Ade, perdutamente innamorato di lei, tanto che la voleva per sé, si trasformò in un Pioppo bianco, che il "Signore dell’Oltretomba" portò nel suo mondo e pose accanto alla magica fonte Mnemosine, ovvero la Fonte della Memoria, la cui acqua poteva far accedere i degni defunti all’immortalità (gli eroi)
Filari di viti maritate a Pioppi, in una campagna di Piscinola, 1991
Eracle (Ercole della latinità), per riuscire la sua dodicesima fatica, che era rappresentata dalla discesa agli inferi (Ade) e dal combattimento contro un gigante, si cinge la testa di una corona di rami di Pioppo Bianco (Leuke), raccolto accanto alla fonte Mnemosine. L'allegoria viene interpretata come la rinascita avvenuta attraverso il passaggio nel regno oscuro e la conoscenza ottenuta attraverso la morte momentanea...
Originario dell’emisfero occidentale, il genere “Populus” comprende un discreto numero di sottospecie, tutte relativamente frequenti nei boschi di pianura, ma anche in quota; tra queste: Pioppo Nero (Populus nigra), Pioppo Bianco (Populus alba), Pioppo Trémolo (Populus tremula), Pioppo Gatterino (Populus canescens); per alcune di queste, oltre a raggiungere importanti altezze della chioma (fino a 20 metri), possono vegetare fino e oltre i 200 anni.
Nel nostro territorio hanno trovato vita fertile due specie molto longeve: il Pioppo Gatterino, utilizzato per produrre steli e pali di sostegno e il Pioppo Nero, usato per produrre i legacci per fissare i tralci delle Viti; quest’ultimo si è evoluto nei secoli in una varietà tutta locale, che verrebbe identificato con il termine di Pioppo Campano.
Pioppo secolare (Gatterino) in una campagna di Piscinola, foto anno 1987
Il principale utilizzo di queste essenze è stato quello di sostegno alla coltivazioni delle viti, di produzione di legna da ardere e di tanti altri piccoli utilizzi durante le attività umane, che meglio tratteremo nel continuo del discorso.
La tecnica agricola di sostegno della Vite al Pioppo risale al periodo etrusco e viene detta "Vite Maritata al Pioppo". La disposizione dei pioppi in fila, chiamata in gergo tecnico “Piantata”, era realizzata impiantando alberi di Pioppo in maniera alternata a dei sostegni a palo provenienti dalla potatura delle sue chiome (Spalatrune); questi ultimi venivano sostituiti ogni paio d'anni. Le viti venivano piantate a gruppo di 5-6 per postazione e portate alte, raggiungendo altezze considerevoli, fino e oltre 10 metri...
I tralci delle viti, tesi tra due Pioppi contigui, erano disposti “a filare”, ossia a pettine oppure, come nell’aversano, "a ventaglio" (Uva Asprinio). Questa disposizione (ne  abbiamo parlato più diffusamente nel post dedicato al Piedirosso), favoriva la coltivazione intensiva del fondo, sia con impianto di alberi da frutta (pesco, albicocco e pruno) e sia con la semina di cereali ed ortaggi ad uso domestico, dato che la distanza di due filari adiacenti era di almeno 10 metri.
Pioppo secolare (Nero) in una campagna di Piscinola, foto anno 1987
La tecnica d'impianto “Vite maritata al Pioppo” è antichissima, infatti, introdotta dai Greci, era già largamente diffusa ai tempi dei Romani, come lo attesta lo storico Plinio il Vecchio, nella sua “Storia Naturale” (Historia Naturalis), dove racconta che: “nell’agro campano le viti si maritano al pioppo; avvinghiate alle piante coniugi e salendo su di esse di ramo in ramo… ne raggiungono la sommità ad un’altezza tale, che il contratto di chi viene ingaggiato per la vendemmia prevede (in caso di caduta mortale) il risarcimento delle spese per il funerale e la sepoltura.
I Pioppi, trascorsa una decade dall’impianto, iniziavano a produrre gli steli comunemente utilizzati dagli antichi contadini come sostegni ai tralci di Vite oppure, come pali da recinzione o semplicemente come legna da ardere. I rami più piccoli (furcine) erano utilizzati sostenere il bucato messo ad asciugare su corde, nel bel mezzo delle aie dei cortili e delle masserie. Il taglio dei rami veniva fatto con una specie di macete, che si chiamava “curtellaccio”.
Praticamente per il Pioppo succedeva un po’ come il maiale, non si buttava via niente...
Particolare legatura della Vite al Pioppo con giunco di Salice (foto repertorio)
Oltre al variegato uso dei tronchi, che abbiamo sopra descritto, i rami (frasche) erano utilizzati per sostenere i legumi: come piselli, fagiolini rampicanti e anche i pomodoro e, una volta secchi, venivano raccolti e legati in fasci, dette (fascine), utilizzate per alimentare i forni domestici, per la cottura di pizze e di pane casareccio. Gli avanzi dal taglio dei rami (tacche) si raccoglievano in sporte e servivano a conservare il fuoco nel camino durante le serate invernali.
Gli assi piccoli diventavano manici di attrezzi agricoli, piccoli e grandi. Per rendere il legno più forte e resistente agli insetti e alla umidità, si eseguiva un trattamento particolare, ma molto semplice. Dopo la potatura, nella fase di Luna crescente (int’‘a criscenza), si scorzavano per bene i tronchi e si lasciavano asciugare al sole. Diventavano durissimi, più leggeri e durevoli per parecchi anni.
Funghi di Pioppo (foto di repertorio)
I funghi prodotti sui tronchi secchi di Pioppo, detti comunemente “Piopparelli”, sono una vera prelibatezza, per profumo e per sapore. Si sviluppano a tarda estate, dopo i primi temporali o in primavera. Erano le cavità formatesi sulle cime dei pioppi secolari (chiamate in gergo locale “Scafonge”) a essere il luogo ideale per la produzione dei funghi, favoriti dal particolare ambiente, molto umido e ricco di humus. Infatti dentro queste cavità avveniva la marcescenza del fogliame, caduto durante l’autunno precedente, con il contributo dell'acqua piovana che vi stagnava. L’immagine che si presentava al ricercatore di funghi era davvero eccezionale..., un profumatissimo e compatto strato bianco, rappresentato dai cappelli di tantissimi funghi accostati gli uni agli altri, senza vuoti... Una sensazione bellissima!
Salice Rosso innestato sulla chioma di un Pioppo. Piscinola, anno 2009
Un timidissimo roditore, che abitava sulle chiome e nelle cavità dei Pioppi era chiamato dai contadini: 'o Valerio, ed era ghiotto di uva fragola (fravulella) e di noci.
Una nota merita anche il Salice rosso (Salix Purpurea), utilizzato per la produzione di legacci, per il fissaggio dei tralci delle viti ai tutori. Spesso i Salici erano innestati sulla sommità dei Pioppi, con due vantaggi: la produzione annua di legacci e il contenimento dello sviluppo del tronco e delle radici del Pioppo e, quindi, la minore interferenza alle viti impiantate alla base del tronco.
Era bello osservare il paesaggio del territorio in inverno, sovente dai finestrini del treno della Piedimonte, durante i suoi viaggi..., si era particolarmente colpiti dalla presenza dei Salici Rossi che, con il loro bel coloro giallo oro, si distinguevano, a macchia di leopardo, nel paesaggio brullo, sterminato, tra Pioppi e Viti, disseminato qua e là di piccole masserie...

Campagna nella provincia di Napoli con pioppi secolari, foto sulla copertina dell'LP del complesso "Napoli Centrale"
A distanza di decenni le campagne sono scomparse ed il paesaggio, una volta lussureggiante di verde e fertilissimo, è solo un dolce nostalgico ricordo, eppure ancora oggi questo antico albero, che tanto ha dato al nostro territorio, continua a riprodursi spontaneamente... Sembrerebbe una considerazione sentimentalistica, e in parte lo è, ma chiunque può constatarlo, osservando sulle scarpate delle strade o nelle aiuole abbandonate l'inusuale presenza di questi alberi pieni di piccole foglie brulicanti al leggero soffiar del vento. 
Il Pioppo è intimamente legato alle sorti di questa terra, nel bene e nel male, come lo consideravano gli antichi: l'impersonificazione della Madre Terra e lo spartiacque tra il bene e il male, il passaggio tra il passato ed il futuro, per donare la conoscenza attraverso il passaggio generazionale... !
Salvatore Fioretto

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Foto di una campagna di Piscinola con viti e pioppi, anno 2007