domenica 29 ottobre 2017

Un duello dal Conte di Lucina... Cronaca del 1840...



Il territorio a Nord della città di Napoli, così pure altri suoi sobborghi, venivano utilizzati in passato, dall'aristocrazia e anche dalla borghesia, quale luogo ideale per regolare "i conti personali", ovvero, per farsi giustizia direttamente da soli, attraverso il duello. I duelli erano favoriti, oltre che dall'omertà degli abitanti, anche dalla tranquillità e dalla solitudine dei posti. Anche il Bosco di Capodimonte è stato utilizzato in passato quale sito per regolare i conti delle nascenti organizzazioni malavitose cittadine, che poi prenderanno il nome di "camorra". 
Come è noto in ogni contesto storico e in ogni forma di Diritto, farsi giustizia da soli è stato sempre considerato un reato grave, punibile fino alla pena di morte ma, nonostante questo, nei secoli si è continuato a duellare, addirittura creando un'organizzazione e una procedura consolidata nel tempo, che prevedeva: l'atto di sfida, la scelta delle armi, la designazione e il ruolo dei "secondi", ecc. 
Questo racconto riguarda un duello che ebbe luogo nel tenimento della masseria del Conte di Lucina, situato tra Chiaiano, Piscinola e Mugnano; curioso è lo svolgersi del dibattimento in tribunale e la sentenza di condanna finale.

[…] (*) L'istruzione giuridica offre che nel 3 maggio1840 pervennero in Chiaiano e precisamente nel latifondo del Conte Lucina due carrozze con un certo intervallo tra loro. Dalla prima discesero le due Guardie del Corpo D. Francesco Carrano e D. Carlo d'Avalos Celenza vestiti del soprabito di uniforme e forniti delle rispettive sciable. L’altra sopraggiunta indi a poco portava i signori D. Silvio Duroni e D. Francesco Spinelli di condizione proprietarii. Si annunziarono  al custode del fondo Giovanni Migliozzi come amici del Conte Lucina, soggiungendo che a momenti lo attendevano per comune precedente concerto. Poscia dando ai cocchieri pochi carlini per prender cibo, l’invitarono  a staccare i cavalli dalle vetture. 
Dopo breve trattenimento nel cortile, si avviarono pel viale della masseria ed in tral mentre per una profetica o diabolica ispirazione il custode Giovanni Migliozzi incaricò un colono del fondo, a nome Angelo di Stasio, di seguire detti quattro individui, dovendo egli disimpegnare altri doveri. Di fatti Angelo di Stasio si avviò per dove si erano diretti i quattro giudicabili e camminava (son sue parole) pei solchi dei seminati a grano onde non farli accorgere che li spionava. Arrivati i giudicabili nella parte di basso della masseria si introdussero in un seminato di canapa, le di cui piccole piante erano nate di pochi giorni e quivi si soffermarono. 
I testimone Di Stasio, che li osservava  inosservato, vide che il militare più alto e di volto bruno si levò il soprabito e cappello riponendolo sopra una vite  attaccata ad un grosso pioppo; che praticò lo stesso giovine pingue e colle barbette riunite. E situandosi a prospetto l’un dall’altro sguainarono le sciable e cominciarono a tirarsi colpi da disperati.  Né questo solo vide il testimone, ma ravvisò benanche che l’altro militare si situò dietro il militare combattente e l’altro paesano dietro il paesano che pure si batteva lena, e che entrambi erano forniti di sciable. 
Colto il testimone da timore e sorpresa, corse a dir tutto avviso al guardiano Migliozzi, ma per curiosità volgendosi di tratto in tratto indietro, osservò terminato il combattimento, e tutti intenti a fasciare la mano destra  al paesano ferito. Migliozzi gl’impose di chiudere il portone che mena alla strada di Napoli, e ciò per impedire che le carrozze sortissero, riserbando a sé l’incarico di chiamare la forza urbana di Chiaiano. Angelo Di Stasio chiuse il portone. Migliozzi corse ad avvertire gli Urbani e intanto, Stasio prosegue a raccontare, i gentiluomini giunti al portone e trovandolo chiuso fecero allestire le carrozze si avviarono per una viottola interna che anche conduce alla strada di Napoli. Ma il guardiano Migliozzi era già di ritorno, e facendosi forte dello schioppo che trasportava, impedì che le carrozze passassero: i giudicabili se ne risentirono, ma in tal mentre sopraggiunti gli Urbani, furono condotti avanti al giudice regio di Marano.
Il capo urbano rinvenne nella carrozza dei paesani due scialbe e due fioretti dei quali s'impossessò e furono oggetto di reperto. Ma l'inverosimile perché profetica antiveggenza di Migliozzi, la strenua cura di Stasio ad osservare i fatti altrui, non costituiscono il solo fenomeno di questa causa - paulo majora canamus - Fondo di Lucina è di prospetto a quello di un tal Arciero.
Tre testimoni per nome Vincenzo Taglialatela, Pietro e Francesco Petrillo, dichiarano che trovandosi a guardare il fondo di Arciero per impedire gli uccelli si mangiassero i semi di granone di fresco seminati, si avvidero che venivano per dentro la masseria del Conte di Lucina quattro individui, due vestiti da militari e due da galantuomini, che giunti alla parte solitaria del fondo, due di essi si spogliarono degli abiti situandosi pochi passi di fronte; gli altri due presero posto uno ad un lato e l'altro all'opposto, ed alzando le sciable i due di fronte,  si vedevan queste luccicare al riverbero del sole.
Si vibrarono de' colpi per lo spazio di circa quattro minuti, e di poi vestitisi di bel nuovo ritornarono verso il portone della masseria. In tal modo in un fatto misterioso ed oscuro, perché di sua natura premeditato, questo processo offre lo strano accidente di quattro testimoni di veduta. Poiché Angelo di Stasio avea parlato de' quattro giudicabili per connotati, così l'istruttore del processo per identificare i suddetti fe' procedere ad un atto di affronto, nel quale lo Stasio riconobbe i giudicabili Spinelli e Duroni che allora trovavansi soli in mano della giustizia, essendo latitanti Avalos e Carrano , come appresso sarà chiarito. Nell'atto di affronto Stasio depose che l'imputato Spinelli era appunto quello che si batteva col militare, e l'altro Duroni con sciabla sguainata era spettatore del duello.
Chiuse il suo racconto con queste ultime parole che da quel momento non più gli avea veduti. Questo atto di  ricognizione fu ripetuto col custode Giovanni Migliozzi, e coi testimoni Vincenzo Taglialatela. Pietro e Francesco Petrillo; ma il Migliozzi dichiarò di non poter riconoscere i due imputati, poiché li vide per poco quando erano in carrozza ravvolti ne' propri tabarri, e gli altri testimoni Taglialatela, Pietro, e Francesco Petrillo protestarono che dal luogo in cui erano, distante circa due tiri di fucile a pallini dal sito in cui accadde il combattimento, essi non avevan potuto distinguere la fisionomia de' giudicabili. Avendo Angelo di Stasio indicato il luogo ove dicesi avvenuto il duello, fu diligentemente sottoposto a perizia, dalla quale risulta "Che in un seminato di canape sotto di un gran pioppo a forca con grossa vite appoggiata si  osservava un calpestio di piedi d'uomo della lunghezza di palmi 12 di terreno, ed il canape tutto schiacciato in linea retta da Oriente ad Occidente. Per lo che i periti eran di avviso che indubitatamente in quel sito vi erano state delle persone, le quali appositamente coi loro piedi avevano calpestato il detto seminato di canapa, non già di passaggio, ma continuamente. Le armi sorprese furono secondo le norme del rito periziate, ed è utile il trascrivere le osservazioni degli esperti. Le dette armi vengono chiamate sciable; esse sono la di giusta misura e fattezza e propriamente quelle di cavalleria: che le stesse hanno l'impugnatura di ottone: la loro lunghezza è di palmi 4 compreso il manico: i foderi sono di acciajo con l'imboccatura una di ottone e l'altra di acciajo. 
Le lame sono curve e si vedono di fresco sgranati i tagli dai colpi vibrati da esse, come altresì ad una vi sono dello incisioni ricevute da istrumento tagliente. All'impugnatura di esse vi si osservano due colpi ricevuti da strumento tagliente, uno situato al primo cordone della guardia, e l'altro alla spoletta della impugnatura che copre il fodero. Al fodero vi si osservano diverse macchie di sangue. Per cui siamo di parere che la dette armi abbiano sofferto dei colpi vicendevoli e sieno state adoperata in qualche duello o rissa. I due fioretti poi sono della lunghezza di palmi quattro. Alla punta di essi non vi esiste bottone e si osservano spezzati. Ecco tutte le pruove che offre il processo, ed è ora utile il narrare cosa dissero gli imputati nei loro interrogatori e cosa offrirono le perizie sulle loro persone. 
Nel primo istante dall'arresto gli imputati furono interrogati dal regio giudice di Marano. 
Di essi tre soli risposero alle sue domande: serbò silenzio il giudicabile Carrano supponendo ch'egli come militare fosse sottoposto alle autorità della propria gerarchia. Spinelli, d'Avalos, e Duroni concordemente dissero: "essere tra loro amici, ed essersi quivi condotti a diporto, attendendo benanche il Conte di Lucina. 
Averlo atteso per più di un'ora passeggiando nel di costui fondo, ma quindi stanchi di più aspettarlo aver deliberato di ritirarsi. In onor del vero bisogna convenire che gli accusati essendo uniformi nell'escludere il duello, cadono in qualche contraddizione tra loro e con la pruova raccolta.   
Così Spinelli interrogato a chi si appartenessero le sciable ed i fioretti che si rinvennero nella propria carrozza, rispose, che le guardie del corpo oltre le proprie sciable ne aveano portate altre due, ed anche due fioretti coi quali avean disegnato divertirsi alla scherma. Per l'opposto il testimone Gaetano Parente, cocchiere della carrozza che portò in Chiaiano Spinelli e Duroni,  assicura che i fioretti suddetti erano stati nel partire da Napoli messi a vista sopra due tabarri. Che se aggiungi di essersi rinvenuti nella carrozza di Spinelli e Duroni quando furon sorpresi dagli Urbani, sorge chiaro ed evidente che ad essi si appartenevano e da essi erano stati asportati. Né ciò è tutto: Spinelli assicurava che né delle sciable, né de' fioretti si fece uso per esercizio di scherma; per l'opposto Duroni asserisce il contrario. Spinelli dice che le due sciable, oltre quelle che cingevano le guardie del Corpo, eransi portate nel fondo per non lasciarle nella carrozza; per l'opposto Duroni dichiarava che la scialbe suddette quivi restarono. Nella discordanza de' detti di Spinelli e Duroni circa queste circostanze invano si ricorre a quelli di d'Avalos per trovare un mezzo onde conciliarli, poiché egli depone che non solo le sciable, ma anche i fioretti rimasero nella carrozza, asportando così egli che Carrano le proprie sciable. Tutti e tre assicuravano che di accordo con Lucina lo attendevano per divertirsi insieme. 
Lucina li contraddice negando l'invito ed il concerto. Il regio giudice osservando che il giudicabile Spinelli era ferito a una mano, gliene domandò la ragione, e Spinelli rispose che atteso lo sbalordimento per gl'insulti ricevuti dalle persone armate, se l'avea cagionato inavvertitamente con l'ottone ch'è al gambo dello sportello della carrozza. Sottoposto a perizia, gli esperti osservarono che aveva una ferita recente nel lato esterno del metacarpo della mano destra in direzione trasversale, lunga un mezzo pollice, larga due linee circa, prodotta da istrumento tagliente, e giudicata di nessun pericolo. Nell'interrogarsi dal regio giudice l'imputato Duroni fu osservato ferito nella mano destra…. Sottoposto ad esame i periti osservarono che il Duroni avea una piccola escoriazione nel lato esterno del dito anulare destro, e giudicarono che tale escoriazione fosse stata prodotta da istrumento lacerante, ed esser di niun pericolo. […]
Sentenza:
Dalla “Cronica delle Due Sicilie” di C.de  Sterlich dei marchesi di Carmignano, anno 1841":

Addì 14, mercordì. La Gran Corte Criminale ha oggi notifica ai signori d'Avalos, Carrano, Duroni e Spinelli la decisione con cui ha condannati i primi tre a sette anni di ferri e l'ultimo a sei di relegazione, per duello avvenuto, come dalla stessa decisione, addì 3  di maggio dell'anno 1840 nel fondo del conte Lucina a Chiaiano  terra di Marano, dove sorpresi nell'atto di rimettersi in carrozza  dalla guardia urbana e condotti innanzi al giudice regio, Duroni e  Spinelli furono da quel magistrato inviati nelle carceri della polizia  di Napoli, gli altri come guardie del corpo, alla real piazza, ma andati invece nel loro quartiere, dove intesero esser fama di avere  avuto ambidue parte ad un duello, si salvarono uscendo dal regno.  Ma non andò guari e ritornò in Napoli il duca di Celenza. Lo seguì  poco dappoi il cavaliere Carrano, dandosi l'uno dopo l`altro volontariamente in mano della giustizia, fidando unicamente nella clemenza sovrana: nella quale ora si affidano tutti quattro, avendo ciò detto, or sono pochi giorni, in un loro atto col quale hanno accettata la condanna rinunziando al ricorso per cassazione.
Salvatore Fioretto 

(*) Tratto dal libro: “Discorso pronunciato dall’Avvocato Giuseppe Marini-Serra all’udienza della Gran Camera Criminale di Napoli nella tornata del di marzo 1841 in difesa dei signori D. Carlo D’Avalos de’ duchi di Celenza, D. Francesco Carrano, D. Silvio Duroni, e D. Francesco Spinelli Accusati di duello.”

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domenica 8 ottobre 2017

Tra vasche, piscine e cunicoli misteriosi... Piscinola: un equilibrio tra terra e acqua! (parte prima)


Il toponimo di un luogo ha quasi sempre origini incerte e misteriose, che si perdono nella notte dei tempi; spesso è legato alla sua fondazione o a qualcosa di notabile presente o al nome di una famosa famiglia residente oppure a una pratica o usanza svolta. Il toponimo di un luogo è un dato essenziale della storia di una comunità, perché diventa l’emblema e il simbolo nel quale si identificano nei secoli i suoi abitanti, che poi, come si sa, finiscono per assumere indirettamente l'identificazione, come napoletani per Napoli, cumani per Cuma, aversani per Aversa, ecc. 
Analizziamo in questo post la storia del toponimo del territorio che più da vicino ci riguarda: Piscinola.
Sviluppo dell'acquedotto Augusteo
L’etimologia di Piscinola deriva certamente dal termine idraulico “Piscinula”, che si riferisce a “piscina” o “vasca”, forse in riferimento ad una struttura idraulica, che era presente nell’antichità nei pressi del primitivo insediamento abitativo.
Nonostante il chiarissimo riferimento all’acqua, ancora del tutto oscure e incerte sono l’ubicazione e le funzioni di tale vasca o vasche. Tre sono le ipotesi avanzate fino ad oggi dagli storici: forse serbatoio di raccolta delle acque per un sistema di irrigazione dei campi o di una cisterna ad uso degli abitanti, oppure elemento appartenente ad un complesso sistema idraulico o di bonifica.
La mappa del littorale di Napoli, di Antonio Rizzi Zannoni, 1793
A quanto pare le vasche erano due; c’era una vasca più piccola e antica, chiamata “Piscinella”, situata presso la zona di ubicazione delle masserie “Filanda”, “Teverola” e “Perillo”; da cui forse derivò l’etimologia della località chiamata “Piscinella”; ed un’altra vasca, posta più a sud e più grande della prima, che fu sicuramente di costruzione successiva.
Risulta verosimile pensare che, vista la ridotta capacità di stoccaggio della vasca primitiva, nascesse la necessità nei primi abitanti di costruire una seconda struttura più grande, per far fronte all’accresciuto fabbisogno derivante dall’aumento demografico, ma anche per impiantare un nuovo insediamento sul territorio che, in relazione alla nuova opera, probabilmente ne assunse la denominazione e fu chiamato, appunto, Piscinola.
La mappa del littorale di Napoli, di Antonio Rizzi Zannoni, particolare

A causa della posizione orografica di Piscinola e del suo circondario (mediamente circa 130 metri sul livello del mare), essa non può essere stata alimentata in antichità direttamente dall'Acquedotto del Serino, che fu una grandiosa opera romana costruita in epoca Augustea (30 dicembre 10 a.C.), perché attraversava la collina di Capodimonte più a valle, a un livello inferiore. Chiamato anche Fontis Augustei Aquaeductum), con i suoi 160 km circa (considerando anche le diramazioni), viene considerato il più lungo acquedotto romano costruito fino al V secolo d.C. 
Piscinola, vista aerea, foto anno 1943
Prima di immettersi nella città di Napoli, l'acquedotto attraversava le località di Acerra, Casoria e San Pietro a Patierno, mentre ad Afragola (il cui toponimo è un chiaro riferimento all'opera idraulica (Afraore o Afraolla), era derivata una "bretella", che alimentava la città di Atella, fino a raggiungere un invaso nella località di Lusciano. Nei pressi di Capodichino, l'acquedotto emergeva con le tipiche arcate di mattoni rossi, i cui resti sono ancora oggi visibili (Ponti Rossi).
Ponti Rossi, in una mappa ottocentesca
Lungo il percorso l’acquedotto alimentava importanti centri romani, tra cui Pompei, Ercolano e Nola, mentre a ovest di Napoli, riforniva le città di Pozzuoli, Baia, Cuma e Miseno, sede della flotta (Piscina Mirabilis).
Considerata la particolare struttura orografica del territorio di Piscinola, è certo che nei secoli si sono formati dei canali di scolo che hanno permesso il defluire delle acque meteoriche provenienti dalle alture delle colline circostanti. Spesso, in coincidenza di eventi piovosi eccezionali, si formavano le cosiddette “lave”, ossia torrenti impetuosi, che trasportavano verso il territorio di Piscinola e verso altri territori adiacenti, acqua mista a gran quantità di fango e di altri sedimenti.
Nell’anno 1877, ad esempio, si ebbe un evento piovoso così catastrofico al punto che molti Comuni a nord di Napoli, come quello di Giugliano, dovettero chiedere aiuto al Parlamento Italiano. 
In un altro documento (regio decreto n. 4538 del 17 marzo 1838), viene disciplinato l'acquisto da parte di un privato dei detriti fini, tipo sabbia (detta lava), che l'acqua erodendo trasportava attraverso Chiaiano e Piscinola ed era accumulata in alcuni punti del territorio di Melito. Questi tipi di inerti venivano impiegati per realizzare intonaci e altre opere edili.
L’acqua meteorica, con il suo scorrere in maniera impetuosa, ha quindi eroso nel corso dei secoli il territorio, realizzando dei veri e propri canali con sponde di terreno in rilevato, i cui letti sono poi diventati le strade attuali. Queste strade, proprio per la loro conformazione, sono indicate ancora oggi con il termine di “cupe”, forse perché sulle due sponde erano piantate alberi dalle poderose chiome (come noci, nocelle), che sopraelevandone lo sviluppo, ne rendevano il percorso buio e quindi cupo, anche di giorno. Alcune delle primitive “cupe”, anche se sono state urbanizzate nel corso dell’ultimo secolo, conservano ancora alcune tracce orografiche originali ben identificabili, come: Via Vecchia Miano, Vico II V. Veneto (ora Via Giorgio Amendola), Via SS. Salvatore, Via V. Emanuele, Via Napoli e Via Madonna delle Grazie.
Ponti Rossi, in un dipinto ottocentesco
In alcuni punti di Piscinola, come in Via Cupa Acquarola e l’attuale Via Zuccarini, l’acqua meteorica si raccoglieva formando pozzanghere e stagni, tanto che, oltre a essere utilizzata per irrigare i campi, veniva in parte convogliata per alimentare un lavatoio pubblico. 
Quest’opera idraulica risulterebbe realizzata in Via Cupa Acquarola nei primi anni del 1900 e doveva comprendere circa una quarantina di postazioni per lavare i panni.
Della presenza di questi acquitrini, spesso invasi da fitti canneti, si hanno notizie già a partire dal Medioevo; infatti nelle cronache dell’epoca si trovano citazioni ricorrenti sull’esistenza di numerosi canneti che erano presenti intorno ai villaggi di Piscinola, di Marano, di Mugnano e di Chiaiano. Anche l'antico locus di "Sanctis Sossii at Cannitum" (Cannito), che leggiamo nei documenti medioevali, è sicuramente derivato dalla particolare morfologia del luogo, ancora oggi chiamato Cannito, situato tra Piscinola e Mugnano, che doveva essere a quei tempi acquitrinoso e coperto densamente da canne.
Nel libro Indicazioni del più rimarcabile in Napoli e contorni - Nuova edizione …edito nel 1835, l’autore, Andrea de Jorio, esaminando i ruderi dei Ponti Rossi, che da tutti erano attribuiti all’Acquedotto “Claudium”  (sic!); condotta collegante le sorgenti del Serino a Baia, fino ad alimentare la Piscina Mirabilis), mostra delle forti perplessità circa l’esatta attribuzione di quelle vestigia e invita ad eseguire ulteriori approfondimenti archeologici.
Ponti Rossi, in una mappa ottocentesca
Ecco il testo: “[…] Come questo sospetto porterebbe l’idea di altri condotti superiori di livello a quello dei Ponti Rossi e ai quali l’acqua si sarebbe immessa in quella della grotta di Pozzuoli e da questo in altri, cosi come si dovrebbe esaminare tanti ruderi di simile natura che esistono a Piscinola, sopra Capo di Monte e nelle alture di Pianura, tutti di un livello assai elevato di quello di Ponti Rossi […]”.
Questo libro fornisce due preziose informazioni che riguardano da vicino Piscinola: la prima pone seri dubbi sul percorso ipotizzato dall’acquedotto “Augusteo”, invitando a verificare altri percorsi verso Piscinola e Pianura; mentre, con la seconda informazione fornisce una testimonianza significativa, circa la presenza a Piscinola di ruderi e resti di opere idrauliche assimilabili ad un acquedotto. 
Ponti Rossi, in una mappa ottocentesca
Considerando, poi, la presenza nell’antico territorio di Atella di una vasca di raccolta delle acque convogliate da una ramificazione dell’acquedotto Augusteo, che si diramava nella nostra zona, potrebbe esserci una possibile correlazione tra quest’opera e le vasche ed i condotti sotterranei edificati a Piscinola ed a “Piscinella”.
Tutti questi indizi potrebbero essere la chiave di lettura che spiegherebbe univocamente l’origine del toponimo di Piscinola e la presenza di quelle infrastrutture misteriose che vedremo nella seconda parte di questo post.
Agli archeologi ed agli speleologi l’arduo compito di reperire indizi e prove documentarie, che potranno avvalorare o smentire queste nuove ipotesi.                                     (segue nella seconda parte)
Salvatore Fioretto

Gran parte del contenuto del presente post è stato tratto dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore, una terra, la sua gente, le sue tradizioni", di S. Fioretto, ed. The Boopen, 2010.


sabato 17 giugno 2017

"Cerasiello e Palummiello, quando l'amore puro travalica la natura dell'essere"


Forse è la prima volta che racconto una storia che mi appartiene, perché legata alle vicende della mia famiglia. Una storia genuina, fatta di uomini semplici, come sono stati nel tempo tutti i suoi componenti, discendenti da antica generazione piscinolese, e tutti amorevolmente legati al culto arcaico della "madre terra"; terra che natura ha fatto qui dono speciale e generoso agli uomini, per la feracità delle sue essenze e produzioni.
Fiori rosa di pesco e giallo di rape durante la primavera nella campagna di "Abbascio Miano", sullo sfondo la masseria ridotta a rudere, foto fine anni '90 (S. Fioretto)
La nostra storia vede per protagonisti, tra gli altri, due cagnolini bianchi e con essi la loro "padroncina", una dolce anziana, rimasta vedova e ormai sola, che era mia nonna paterna, di nome Maria, da tutti conosciuta come "Mariuccia 'a Rossa" ("'a Rossa" era il soprannome piscinolese coniato per i componenti della sua famiglia, forse per il particolare colore ramato dei loro capelli). Una storia che ha il sapore di altri tempi, perché è ambientata in uno scenario bello e incantato, quale era una volta quel Abbascio Miano, di cui già in altre occasioni in questo blog abbiamo potuto narrare le vicende e l'umanità dei suoi abitanti.
La masseria "Marchesa di Rutigliano" di Abbascio Miano, in una mappa dell'800
Una tortuosa e polverosa stradina di campagna, caratterizzata da una vegetazione fitta e lussureggiante: strada costellata da antiche masserie e da tenimenti agricoli, che nei secoli erano appartenuti a conventi cittadini o a nobili aristocratici.
Nel nostro caso l'antica masseria di Abbascio Miano, della quale narreremo alcune vicende, ricordata per il suo gigantesco arco a mo' di maniero fortificato, era appartenuta, secondo un racconto quasi leggendario, tramandato di padre in figlio, alla Marchesa di Rutigliano, discendente di una nobile famiglia napoletana di antico lignaggio, la quale, purtroppo, avrebbe terminato la sua esistenza proprio nel tenimento di Abbascio Miano, nel momento in cui il popolo inneggiava l'arrivo delle truppe francesi, che attraversavano le nostre terre per entrare in città. Ella, presa dallo spavento e dal panico, non esitò, in quel frangente concitato, a lanciarsi dalla finestra della camera che stava sull'entrata principale, pur di non cadere nelle mani del boia francese! Non sappiamo però in quale invasione francese è ambientata questa storia...
Il famoso grande arco di ingresso della masseria (fotocomposizione di S. Fioretto)
I nonni comprarono una parte di questi beni, nell'anno 1925 e forse rappresentò uno dei pochi casi in cui dei semplici mezzadri riuscirono a riscattare, con duri sacrifici e privazioni, le terre e le proprietà dei loro padroni!! I penultimi proprietari erano stati dei ricchi possidenti napoletani; qualcuno ricorderà il loro nome stampigliato sulle lapidi di marmo che restarono affisse ai lati dell'ingresso della masseria, fino al momento della sua ingenerosa distruzione, avvenuta nell'anno 2002...
La nonna era di animo dolce e buono e amava la campagna e gli animali in maniera speciale; si racconta, ad esempio, che una volta una scrofa morì di parto e della "nidiata" si salvò solo un piccolo maialetto... Ella lo raccolse in un cestino ricolmo di lana e gli pose accanto una bottiglia di acqua calda, che provvedeva a cambiare ogni tanto, per poterlo riscaldare. Poi lo nutriva con del latte vaccino, contenuto in una bottiglietta di vetro terminante con un comune "ciucciotto" per bambini. 
Foto dei miei nonni, nella masseria di Abbascio Miano (tratta dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore" di S. Fioretto)
Il maialetto riuscì quindi a sopravvivere e a fare una crescita regolare. Venne alimentato, poi, secondo l'antica usanza, con "pastoni" di avena, mais, patate e altri ortaggi e divenne molto grasso...
Il problema si presentò al momento della macellazione. La nonna avanzava sempre dei pretesti e delle scuse banali, per poter rinviare l'evento cruento: ora la mancanza di legna per l'acqua calda, ora delle incombenze improcrastinabili, da svolgere nei campi... Tanto si era affezionata alla bestiola che non avrebbe mai voluto vederla uccidere... Purtroppo venne il momento che non poté più arrancare scuse e dovette soccombere alla decisione presa. Furono notati in quel giorno dei rivoli di lacrime scorrere sul suo viso, che non riuscì a trattenere per la mesta malinconia...
Interno della masseria e la grande pietra vesuviana per lavorare il lino
Dopo la morte del nonno Salvatore, avvenuta nel 1956, la nonna restò sola a curare la famiglia, a dir poco numerosa. Trascorsero gli anni. Non sappiamo come avvenne, ma fu nei primi mesi dell'anno 1965, che due cucciolotti vennero affidati alle cure di nonna Mariuccia. Purtroppo non è dato nemmeno di sapere quale aneddoto o circostanza ispirò a far coniare i nomi ai due cuccioli, alquanto curiosi e poco comuni, di: Palummiello e Cerasiello.
Il primo fu chiamato così forse per il candore (colore bianco) del suo manto: perché il nome di Palummiello si riferirebbe al piumaggio bianco di un piccione (palummo). Per Cerasiello, forse non lo sapremo mai...  
Cerasiello e Palummiello crescevano in fretta, tra i tanti abitanti della masseria e, come tanti cuccioli, non disdegnavano di fare biricchinate, come l'inseguire polli che razzolavano allo stato brado nell'aia e nei cortili della masseria o disturbare gli animali nelle stalle.
Ma in fondo tutti li volevano bene. I due cucciolotti non mancavano di tenere compagnia la nonna, che di notte d'inverno li accoglieva nella sua stanza, al caldo. 
Foto di famiglia nella campagna di "Abbascio Miano" (dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore", di S. Fioretto)
Divennero grandi, di taglia media, stavano sempre insieme, giocherellando e seguendo la nonna, mio padre e i miei zii, tra i campi e la masseria. Per loro il pericolo serio era rappresentato dai cani randagi o dai temibili cani pastori, guardiani dei greggi appartenuti ai famosi caprari; ossia a quegli arroganti pastori che, nella loro transumanza, sovente percorrevano le nostre zone, seguendo il tracciato della vecchia Piedimonte. Ma i due cani riuscivano a tenersi a debita distanza...
Purtroppo, verso la fine degli anni '60, anche la nostra campagna, situata al di là della linea della Piedimonte, fu espropriata per costruire il noto asse stradale. Fu l'inizio della fine di Abbascio Miano e di tutta Piscinola agricola, perché ben presto tutta la bella campagna chiamata lo Scampia (o anche Scampagnato), cedette il passo alla costruzione di tantissime case popolari, chiamate col nome di una legge: la "167"
La campagna di Abbascio Miano, poco prima della distruzione, primavera 2007
La nonna, come tanti anziani piscinolesi, ebbe molto a soffrire per questa perdita. Veniva loro sottratto con forza il frutto di tanti anni di sacrifici e di duro lavoro... Ebbe inizio il doloroso espianto... e ogni volta che portavano nella masseria dei fusti di alberi estirpati, per utilizzarli come legna da ardere, la si vedeva piangere sconsolata! 
Non sopravvisse al dolore... e forse per questo grande dispiacere un attacco cardiaco la colpì poche settimane dopo, la notte della Befana del 1971... Fu trovata la mattina seguente come addormentata nel suo letto. 
I due cani, che non l'avevano mai lasciata sola un istante, ebbero modo di mostrare fino all'ultimo, tra la meraviglia dei presenti, il loro affetto alla cara padroncina. Per tutto il periodo della veglia funebre, durato quasi due giorni, non ne vollero sapere di abbandonare la stanza da letto. Rimasero tutto il tempo sotto al letto funebre, senza mangiare e bere.
La campagna con il famoso pino, poco prima della distruzione, primavera 2007
I due cani rimasero così soli, ma restavano pur sempre le mascotte della masseria, e i miei zii continuavano ad accudire con affetto. Purtroppo presto quella premonizione ricorrente che aveva avuto in vita nonna Mariuccia si avverò, e un giorno il povero Cerasiello, mentre era nei pressi dei binari della Piedimonte, fu assalito e quasi sbranato dai feroci cani dei caprari. Il povero cane ebbe giusto la forza di ritornare per poter morire nella sua amata masseria, accanto al suo fratello Palummiello e a i suoi padroni.
Ricordo che fu proprio il caro Nduono e altri amici a seppellirlo in un luogo della campagna, vicino ai binari della Piedimonte
Insieme ad altri bambini della masseria, raccogliemmo dei fiori di campo per farli deporre sulla sua tomba.
Pioppi, viti e il famoso pino, primavera anno 2007
Altri anni passarono, e il povero Palummiello incominciò ad accusare gli anni della vecchiaia. Trascorreva giornate intere accovacciato fuori all'uscio della masseria o ai lati dell'aia, spesso sotto la carretta di Nduono, ma restava sempre assente e poco reattivo; non rispondeva più nemmeno alle mie chiamate e a stento muoveva un po' la coda, come segno di riconoscenza.
Forse la malinconia per le persone care perdute aveva preso il sopravvento nella sua mente. Questo lo dico perché anche gli animali dimostrano questi sentimenti come noi umani e l'ho potuto sperimentare anche in altre circostanze...
Intanto, dopo la scomparsa delle campagne, anche la cara ferrovia Piedimonte ci lasciava e in quel lontano febbraio 1976 compiva la sua ultima corsa, tra l'indifferenza di tutti! 
Il territorio di Piscinola divenne ancora più solo, triste e abbandonato a se stesso...!
Dopo pochi anni ci lasciò anche il povero Palummiello... Ricordo che venni a sapere della sua morte proprio da Nduono, mentre gli facevo presente che da un po' di tempo non vedevo il vecchio cane... Mi rattristò molto quella notizia: Palummiello era per me come una persona di famiglia.
Campagna di "Abbascio Miano", nella primavera dell'anno 1965 (Foto di Salvatore Fioretto)
Con la loro perdita finiva un periodo spensierato e felice della mia infanzia e, si può dire simbolicamente, di un'era della storia di Piscinola. Altri eventi infelici per il nostro quartiere erano all'orizzonte e il terremoto del novembre del 1980 segnò la definitiva metamorfosi di un territorio, che diventava ormai a tutti gli effetti una periferia amorfa, spogliato di tanti valori che avevano contraddistinto la sua storia secolare e la vita di tante generazioni di piscinolesi.
Assieme a questi bei ricordi, che mi piace oggi condividere in queste pagine del blog, conservo gelosamente questa cara foto, che mi ritrae quando avevo poco meno di un anno, abbracciato a uno dei due cani ancora cuccioli, nella bella campagna di Abbascio Miano, accanto alla cara nonna, Mariuccia 'a Rossa.
Salvatore Fioretto
  
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