venerdì 20 maggio 2016

I tesori perduti della Selva di Chiaiano: la grotta e la fontana 'e Maletiempo, del dott. gen. Giovanni Baiano


Tra i tanti ricordi della mia felice infanzia, affiorano con vivacità, nitidezza, freschezza, e spesso con prepotenza, tutti quelli impressi dagli splendidi, suggestivi, strani e misteriosi luoghi che circondavano la mia masseria, nonché gli stupendi paesaggi che da essa si potevano ammirare.
È lì che sono nato e ho vissuto fino a ventitré anni, ed è lì che sono ritornato migliaia di volte sempre volentieri e gioia.
Sto parlando delle rigogliose e meravigliose selve di castagni e di ginestre, che popolavano ed ancora ornano le pendici della collina dei Camaldoli, site ad ovest di Chiaiano, ricche di leggendarie e misteriose caverne, con piccoli pozzetti pieni di acqua sorgiva, chiamati impropriamente fontane.
Questi tesori si nascondevano nei profondi canaloni di quelle selve, difficilmente accessibili e noti solo a pochissime persone, che ne ignoravano completamente il grande valore.
La più nota e frequentata caverna era la “Grotta e Fontana ‘e Maletiempo”, ma la più famosa era "La Grotta dei Briganti.
Queste due grotte erano ancora rimaste vive nella mia memoria, che aveva avuta la fortuna di registrarle in tempo nella loro interezza e originalità.
Solo in seguito ho scoperto che una di queste mitiche grotte è stata risparmiata dalle ruspe, che hanno distrutto anche intere colline con tutti i tesori, che in esse erano nascosti (Siamo nel 1995). Una distruzione che, purtroppo, nonostante le mie ed altrui denunce e proteste, continua tuttora, alla faccia di tutte le leggi vigenti in materia ambientale.
Per raggiungere queste caverne, si doveva fare molta strada, attraversare impervi sentieri, percorrere delle mulattiere con un fondo stradale, praticabile solo in certi periodi dell’anno, e comunque sempre molto pericolose per le persone  abituate a vivere in città.
Andavo a visitarle attraverso due itinerari: o raggiungevo le selve, che si trovavano al confine della mia campagna, scendendo nel canalone per un ripido costone di olmi e querce, fino ad un luogo chiamato “Tre Vie”, o passavo per la strada che porta al paese e, poi, giunto vicino ai “Monti dei cani”, svoltavo a destra per la Cupa Vrito.
Da qui, partivano altri due canaloni, uno in direzione nord, chiamato Canale o Cupa Vrito, e un altro in direzione ovest, chiamato Canale o Cupa di Fontanarosa. Proseguendo per il Canale Vrito, dopo circa duecento-trecento metri, si raggiungeva la Fontana di Maletiempo, sita sul costone di sinistra, a cinque o sei metri dal livello del fondo stradale, che fungeva da mulattiera e da letto per un fiume che rendeva inagibile o troppo pericolosa la strada nell’epoca delle piogge.
La chiamavano fontana, ma era soltanto una semplice vasca ricavata nel tufo, dalle dimensioni di un paio di metri quadrati circa ed altrettanto profonda. In essa si raccoglievano le acque sorgive che sgocciolavano continuamente, anche per tutta l’estate, dalle pareti di tufo, che ad essa sovrastavano.
Questo pozzetto fungeva anche da abbeveratoio per tutte le bestiole della zona ed era una preziosa riserva di acqua, fresca e pulita, per tutti coloro che raramente frequentavano quella solitaria zona e per tutti quelli che in tempi antichi erano probabilmente vissuti nella contigua grotta.
Lo si deduce dal fatto che sul lato sinistro della cosiddetta fontana, ad un livello di circa mezzo metro più alto, c’era una strana caverna ricavata nel tufo del ripido costone.
Non era molto grande, ma sufficiente per la dimora di un’intera famiglia, anche se numerosa. Si affacciava a picco sul canalone e vi si accedeva con degli scalini ricavati nel tufo, che erano molto consumati, non tanto dall’uso, quanto dal tempo e dalle intemperie.
Questa scalinata era assai sdrucciolevole, perché sempre bagnata dall’eterno e sonoro sgocciolio dell’acqua che scendeva lungo tutte le sovrastanti pareti di tufo, quasi verticali, assolutamente inaccessibili, senza l’aiuto di idonee attrezzature. Nei periodi invernali particolarmente rigidi, quella grotta e quella fontana si presentavano ai miei occhi di ragazzino come uno spettacolo unico, fantastico, che mi riempiva di meraviglia.
Dal canalone si vedevano centinaia di stalattiti di ghiaccio, appese alle pareti interne ed esterne della grotta e di tutta quella zona circostante. 
Si formavano  ghiaccioli di tutte le dimensioni, alcuni così grandi che non si riusciva a staccarli dalle pareti e nemmeno ad abbracciarli per interi.
Noi ragazzi ci divertivamo un mondo ad abbattere tutti quei ghiaccioli raggiungibili con le mani e a farli cadere giù anche con le pietre e bastoni. E non smettevamo finché ne rimaneva ancora qualcuno appeso.
Era anche un divertimento scagliare, poi, giù nel canalone tutti quei pezzi di ghiaccio che riuscivamo a recuperare, per lo sfizio di assistere all’effetto del loro impatto col fondo della mulattiera e della loro frantumazione in tanti pezzettini.
In quei periodi, era molto pericoloso raggiungere quella fontana e quella caverna, ma io, mio fratello Biuccio ed i vicini di casa, più grandi di noi due, eravamo tutti degli spericolati. Figli di contadini, eravamo abituati ad arrampicarci dovunque, senza mai temere i pericoli.
Ci piaceva il rischio ed amavamo l’avventura. Inoltre, dopo aver fatto tanta strada per raggiungere quella Fontana e quella Grotta, non ci piaceva affatto ritornarcene a casa, lasciando intatti tutti quei pezzi di ghiaccio appesi a quelle pareti.
Ad ogni costo, dovevamo salire lassù per sostare in quella strana grotta almeno qualche minuto per riposare e provare delle strane emozioni. Sembrava che qualcuno fosse ancora là dentro vivo, dietro quelle pareti, tutte ricoperte da un spesso strato di polvere e ragnatela.
Si aveva l’impressione di avvertire l’alito degli spiriti di quegli antichi abitanti della spelonca, che cercavano di comunicare con noi.
Messaggi che non giungevano alle nostre orecchie, ma direttamente al nostro piccolo cuore che batteva forte.
Erano messaggi incomprensibili come quei segni strani che stavano incisi sulle pareti e che scambiai per antiche scritture.
Purtroppo quella Fontana e quella Grotta sono state distrutte dalle ruspe e con esse anche quei strani segni rimasti impressi nella mia memoria.
dott. gen. Giovanni Baiano 

Ringrazio il caro dott. G. Baiano, per aver contribuito con questo suo bel racconto alla ricostruzione di un altro pezzo di storia del nostro territorio, in particolare della bella Selva di Chiaiano. S.F.


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sabato 14 maggio 2016

Marianella, il seme piantato da Alfonso dona buoni frutti...

Marianella, patria natale di Alfonso Maria de Liguori, Santo e Dottore della Chiesa Cattolica Universale, è stata culla di tante vocazioni ispirate dal santo fondatore. Tempo fa parlammo del frate cappuccino, padre Tommaso da Marianella, al secolo Giovanni Francesco Saverio Giannini, che nacque proprio nella casa natale di Sant'Alfonso a Marianella. Tommaso visse e morì in odore di santità, nel convento di Sant'Agnello in terra di Sorrento; ma altri personaggi sono stati raggiunti da questa ventata di spiritualità, che la casa natale dell'ex avvocato ha saputo emanare nei secoli.
Anche don Enrico Saetta fu raggiunto dal messaggio alfonsiano e plasmò la sua vita ispirandosi a Sant'Alfonso. 
Enrico nacque a Marianella il 3 novembre del 1874. 
Dopo la formazione scolastica e il seminario emise la professione di fede nel 1897. Fu quindi ordinato sacerdote il 25 marzo 1900.
Ecco un brevissimo profilo biografico tratto dal periodico S. Gerardo, anno XLVIII del maggio 1948, pag. 80:
"Il P. Enrico Saetta, dopo aver prodigato le sue giovanili energie nel campo multiforme dell’apostolato liguorino, sempre pronto alle chiamate e agli ordini dei superiori, sempre gioviale e sorridente con tutti anche tra lavori pesanti e assillanti, sempre animato da spirito di vera carità, fedelissimo all’osservanza delle Regole in casa e fuori, veniva destinato a trascorrere gli anni della sua età avanzata nel Collegio di Pagani. 
Qui ha lavorato con dedizione e passione per il maggior decoro della Basilica che custodisce le Reliquie di Sant'Alfonso suo concittadino, non solo col ministero della predicazione e della confessione, ma specialmente colla sua singolare perizia nell’arte musicale, riuscendo a formare un’ottima «Schola Cantorum» che da molti anni contribuisce al maggiore splendore dei sacri riti.
Senza mai smentire la serenità del suo animo che si rifletteva nella giovialità del suo aspetto, ha chiuso la sua lunga e laboriosa giornata da autentico Operaio della Vigna del Signore, rimpianto e benedetto da tutti, nello stesso Collegio di Pagani, il 22 marzo 1948".
Altro grande personaggio nell'Area Nord di Napoli, che ebbe l'ispirazione da Sant'Alfonso, è stato don Gaetano Errico, da pochi anni elevato alla gloria degli altari; Gaetano fu sacerdote e fondatore della Congregazione dei Sacri Cuori. Raccontammo già in un post la sua breve biografia, insieme a quella di Gennaro Maria Sarnelli, che qui ripetiamo. 
Gaetano Errico nacque nel Casale di Secondigliano il 19 ottobre 1791, figlio di un umile maccaronaio, la madre era tessitrice di felpe.
 Fin da piccolo ebbe il forte desiderio di farsi sacerdote, ma le umili origini della sua famiglia non gli permisero di frequentare subito il seminario. Fortunatamente, grazie all'interessamento di un suo benefattore, ricevette un vitalizio che gli permise di assicurare la retta richiesta per la frequentazione al seminario arcivescovile di Napoli, anche se dovette frequentarlo da esterno, e per tale motivo il giovane Gaetano dovette percorrere ogni giorno a piedi gli 8 chilometri che componevano l'allora impervio tragitto, tra Secondigliano e Capodimonte. Sempre preciso nell'orario, quando la gente lo vedeva passare, esclamava: "Sta passando don Errico...". 
Durante la settimana si dedicava all'assistenza dei malati nell'ospedale degli Incurabili e ad insegnare il catechismo ai ragazzi di strada.
Divenuto presto sacerdote, fu assegnato come aiutante alla parrocchia di Santi Cosma e Damiano di Secondigliano. Durante l'annuale pellegrinaggio e ritiro spirituale che usava effettuare al convento di Pagani, davanti alla tomba di Sant'Alfonso ebbe la visione del Santo che lo invitava a fondare un nuovo ordine religioso missionario, operante nelle zone del mondo, povere e depresse; fondò così la Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori. Zelante sacerdote, instancabile confessore e apprezzato predicatore, ebbe in visione la Vergine Addolorata che lo invitava a edificare un Santuario in suo onore. Nonostante tantissime difficoltà e opposizioni, da parte di personaggi influenti dell'epoca, riuscì finalmente a completare, dopo 12 anni, il santuario dedicato alla Vergine Addolorata, nel cuore popolare dell'antico Casale di Secondigliano. Nelle stanzette attigue alla chiesa stabilì la sede della nascente Congregazione.
Per questo tempio e per il culto, volle fortemente far realizzare, dal celebre scultore Verzella, la bella statua dell'Addolorata. Si narra che lo scultore riuscì a realizzare l'opera dopo molti tentativi, perché don Gaetano pretendeva che fosse uguale a quella a lui apparsa in visione. La statua è diventata il simbolo della sua devozione mariana e la protettrice della interna comunità di Secondigliano. Il Superiore, come lo chiamavano i suoi compaesani, visse gli ultimi anni della sua vita nel periodo buio, a cavallo tra il Risorgimento e dell'Unità d'Italia, morì a Secondigliano, il 29 ottobre 1860.
Gaetano Enrico è stato elevato agli onori degli altari dal papa, Benedetto XVI, in un affollatissima piazza San Pietro, il 12 ottobre 2008.
Di Don Gaetano abbiamo rinvenuto una lettera scritta di suo pugno durante una Santa Missione Popolare, da lui condotta a Piscinola, ecco il testo: 
"Voi, con la direzione del vostro confessore, potete presentarvi al S. Padre, e nel modo e nella maniera che lui penserà, cosi voi eseguirete; parlate col medesimo di quanto vi dice il confessore, come vi dice il confessore e di quello che vi dice prima il confessore. Lodiamo Sua Divina Maestà che vi ha mortificato con la malattia e ringraziamola che ve ne ha liberato. Con ogni rispetto e con tutto l’ossequio, salutatemi Mons. Stella, ditegli che noi serbiamo eterna memoria della sua degnissima persona.
Mille saluti alla Principessa (Wolkonsky) ditele che pregasse il signore per me e per i miei. Dite a Mons. Lucchè che sono il più vile suo servo, che perciò facesse memoria di me nel S. Sacrificio della messa.
Piscinola, luogo della Missione, 6 gennaio 1847”. 

Il barone Gennaro Maria Sarnelli fu amico di Alfonso fin dagli studi di giurisprudenza; i Sarnelli avevano la loro tenuta a Chiaiano, quindi poco distante dalla residenza dei Liguori a Marianella. 
Gennaro nacque a Napoli il 12 settembre 1702, era figlio del Barone Angelo, originario della cittadina di Ciorani. Divenne anche lui avvocato, ma rinunciò presto alla vita forense, divenendo sacerdote. Seguì il fondatore, Sant'Alfonso, aderendo alla sua nascente congregazione dei redentoristi, addirittura il padre Angelo donò a Sant'Alfonso un'ala del castello di Ciorani per stabilirvi una casa della congregazione. Fu chiamato dal cardinale Spinelli a sostituire Alfonso nella conduzione delle Sante Missioni, che si tenevano in tutta l'Archidiocesi di Napoli. Si ammalò gravemente per le privazione e i sacrifici patiti, minato anche nel fisico troppo esile, Gennaro Maria Sarnelli morirà poco dopo, a Napoli, a soli 41 anni, il 30 giugno 1744. 
E' stato anche lui un apprezzato scrittore di numerose opere spirituali, oltre 40, tra cui l'Opera Omnia. Fu promotore di una vasta campagna moralizzatrice, che estese nella Napoli popolare e nei suoi Casali, combattendo la prostituzione dilagante e lo sfruttamento delle donne e lo stato indigente di molti fanciulli. Condusse sulla retta via molte donne e uomini della sua epoca. 
E' stato dichiarato beato il 12 maggio 1996.
Salvatore Fioretto

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sabato 30 aprile 2016

'O cap''a Chianca, il borgo nel borgo... un'umanità perduta...! di Luigi Sica



Come è noto la strada denominata via del Plebiscito viene da tutti gli abitanti originari di Piscinola indicata con il toponimo di "'o Cap’' a Chianca", questo perché, molto probabilmente in tempi remoti, in questo luogo doveva esserci una rinomata macelleria, da cui Chianca, che sta per "Panca", ossia un asse o un bancone di legno usato per esporre le carni; d'altra parte tutt'oggi nell'idioma napoletano il macellaio viene denominato "Chianghiero". Dal libro di Fioretto si apprende anche che all'inizio del secolo scorso in questa zona si realizzò un piccolo macello comunale, per scoraggiare la ricorrente abitudine dei piscinolesi di macellare in proprio i maiali e altro bestiame, senza nessun controllo veterinario... ma forse all'epoca non c'era tanto bisogno...

Chiesetta Madonna della Pietà, via del Plebiscito, foto Fioretto, 2014

Il nostalgico ricordo di 'o Cape 'a Chianca mi porta a considerare che per la sua vivacità non era da meno dell'altro "capo" di Piscinola, più famoso, già ampiamente descritto in questo blog, ovvero de "O cap''e Coppa".
Il nostro Cap''a Chianca era uno straordinario posto con tanti negozi e negozietti, con un pullulare di ambulanti e c'era anche una rinomata trattoria.
Molti di questi negozianti li ho ricordati nel mio libro "Il borgo perduto" ed. Marotta e Cafiero, tuttavia mi piace qui descrivere questi esercizi seguendo il percorso stradale, che si sviluppa dalla Piazza B. Tafuri verso il ponte della Piedimonte, lato Scampia.

Tatonno ‘o gassusaro 
Don Antonio Ronga era un uomo assai intraprendente, invece di commerciante si potrebbe definirlo un "industriale antesignano", del perché lo capirete seguendo la lettura... In un locale che oggi posizioneremmo tra l’attuale tabaccheria Biancardi e il fioraio Sica, donn’Antonio approfittando di una fontana pubblica posta all’inizio di Via Acquarone, aprì una fabbrica di ghiaccio; con un grosso macchinario di refrigerazione, produceva enormi parallelepipedi a sezione quadrata di ghiaccio e bacchette di ghiaccio della lunghezza di un metro con lato di circa 15 cm. 
Foto panoramica, lato via del Plebiscito, di C. Pernice, anno 2013
Questo ghiaccio che serviva a pescivendoli, venditori di meloni e angurie e di gelati garantiva una attività esclusivamente estiva. Ma il buon donn’Antonio per lavorare tutto l’anno associò a quest’attività la produzione di ‘gazzose’. Tanto di acqua gratuita ne aveva a volontà, zucchero (saccarina), acido citrico e anidride carbonica, acquistati a livelli industriali, costavano poco o niente. Ma donn’Antonio completò la sua piccola impresa con un piccolo impianto di imbottigliamento ed etichettatura con il nome di ‘RONGAssosa’.
La gassosa di donn'Antonio si comprava nelle cantine o nella stessa fabbrica produttrice e serviva per diluire o dolcificare vini pesanti o ‘spunti’ in processo di acidificazione. Tempo dopo lo stabilimento sparì ed al suo posto sorse un bellissimo bar con un ampio saloncino vetrato d’ingresso, arredato con tavolini e sedie. Oltre al locale del bar vero e proprio, all’interno c'era una sala biliardo e una sala per guardare la nascente televisione in bianco e nero...

Nannina ’a malamente 
Il negozio di Nannina, detta 'a malamente, si trovava esattamente dove ora c’è il fioraio Sica. Nannina vendeva stoffe in quel locale che si presentava come un antro buio, con un nauseabondo odore di naftalina e canfora, sostanze usate allore per allontanare tarme, cocciniglie e altri insetti che potevano danneggiare le stoffe. In quel tempo le stoffe erano realizzate prevalentemente con filati di origine animale o vegetale.
Cartolina anni '40
Nannin’a’malamente vendeva tela per i sarti (taffetà per camiciai, orbace, panno casentino o toscano, panno grosso, mussola, georgette in seta, chiffon, organza, cretonne bianco o stampato, batista leggera in lino o cotone, gabardine di lana o seta, stoffe di lana per vestiti e cappotti (pied de poule e spina di pesce), tela di lino per lenzuola, federe), cotoni d’ogni tipo e infine bottoni di variegati colori, dimensioni e qualità. Caratteristico e molto richiesto in quei tempi era il fustagno, una stoffa nera detta “pell’e’riavulo”, per la sua resistenza agli strappi e all’usura, adatta per i pantaloni dei contadini. I suoi figli, si alzavano di buon ora la mattina e uscivano di casa con enormi sacchi di panno nero sulle spalle. Praticavano l’ambulantato a piedi, recandosi nei paesi vicini: Marianella, Chiaiano, Marano, Mugnano, Arzano, Grumo Nevano, Secondigliano, Casandrino ecc...

Don Mario Sica (fioraio)
Veduta aerea del Cap''a Chianca...
Il negozio di don Mario Sica (mio zio) era (e resta tuttora) la fioreria più accorsata di Piscinola. Il retro del negozio sbucava in un cortile attraverso il quale, tramite una breve scalinata, s’accedeva in un giardino che aveva del fantastico, perché conteneva un'immensa varietà di specie vegetali: rose, camelie (bianche e rosse), palme, philodendron, garofani, phicus semplici e benjamin variegati, cespi di capelvenere ed orchidee difficili da coltivare, insomma era una foresta di specie indigene ed esotiche! 
Non c’era festa d’onomastico, di nascita, di battesimo, di comunione o uno sposalizio che non fosse addobbata da Mario Sica il fioraio e, ovviamente, nemmeno una cerimonia funebre. 
Tra le tecniche di addobbo floreali utilizzate da zio Mario ricordo l'utilizzo di particolari arbusti che crescevano spontanei ai lati del binario della Piedimonte, chiamati 'e fetienti, a causa dell'odore nauseabondo emanato dal fogliame. Nel nostro territorio si trovavano da per tutto; ricordo che da ragazzo mi fermavo a guardare i lenti treni della Piedimonte che, avanzando, aprivano spazi tra i folti cespugli di questi arbusti... Avevano uno stelo dritto, alto anche più di un di un metro, che venivano sezionati e servivano da supporto per sostenere i delicati fiori e poter comporre cuscini oppure corone (ghirlande) sorrette a loro volta da grandi foglie di palma, che diventavano l’emblema d’ogni funerale o delle ricorrenze storiche.

Felice ’e po' parlamme,
Portale della proprietà Del Forno, foto Fioretto, 2004
Felice era un ciabattino che amava intrattenersi a parlare con la sua clientela. Sovente quando  iniziava a raccontare un fatto, improvvisamente interrompeva il racconto, chissà se per mancanza di memoria o per sua tattica, dicendo la proverbiale frase finale "po' parlamme’" (poi ne riparliamo). Se Felice avesse solo voluto mantenere fede a tutti quei numerosi rimandi, non gli sarebbero bastate altre tre vite...
Ebbe un solo figlio molto dedito allo studio, che divenne esempio e scorno di tutti i ragazzi svogliati, me compreso. Talvolta, quando frequentavo le medie, mi mandavano da lui a ripetizione; con gli anni ho capito che quel ragazzo, laureando in lettere e filosofia, era, almeno in quel tempo, un ragazzo molto timido e riservato, con un gran desiderio di affermarsi nella vita e compensare i genitori dei sacrifici che avevano compiuto per sostenerlo.
Pascalino d''a lavanderia’ (sig. Pasquale di Vaia),

quando Nannin’a’ malamente chiuse il suo esercizio commerciale, sorse sul lato opposto della strada la lavanderia di Pascalino, dove oggi c’è il bar Scopato. Pascalino vendeva tutti gli articoli di merceria e per sartoria che in precedenza erano venduti da Nannina e in più esponeva: shampoo, deodoranti, smalti per unghie, rossetti ed altri articoli per donne. Iniziò a svolgere il servizio di lavanderia, ritirando coperte e capi di vestiario sporchi, che provvedeva a portare in una lavanderia industriale che si trovava in centro, nei pressi di Piazza Carlo III.
La cantina don Vincenzo Di Guida

Festeggiamenti del SS. Crocifisso, processione in via del Plebiscito, anni '50
Era la più grande cantina trattoria di Piscinola. Dalla "sala di mescita" dei vini si accedeva ad una sala trattoria e da qui ad un retrostante spazio all’aperto con annessa pista per il gioco delle bocce. Questa cantina, alla pari di quelle di Don Lurenzo e dei Sarnacchiaro, offriva alla clientela ciò che si preparava giornalmente, direi in maniera molto casereccia, ma a differenza delle prime era frequentata da numerosi cacciatori che tornavano dalle battute di caccia che si tenevano nelle terre delle lontane masserie oppure a Scampia. Essi si ritrovavano qui per gustare il pollo o il coniglio alla cacciatora, gli antipasti con affettati di formaggi e salami, prodotti dalle stesse mani dell’oste, don Vincenzo, che era anche uno stimatissimo cuoco, e offriva altri piatti forti, come: i funghi, fritti o arrostiti, i rinomati risotti e le famose pappardelle, preparate in casa dalle anziane contadine del posto...
La salumeria di donna Giulia Biancardi

La salumeria era posta quasi alla fine di via del Plebiscito e vendeva gli stessi prodotti delle ‘puteche’ piscinolesi, solo che all’interno del cortile retrostante disponeva di un forno, che era attivo tutta la notte per produrre un pane ricercato da numerose famiglie di Piscinola e anche da fuori contado. Erano in tanti a preferire "'o ppane 'e onna Giulia a putecara, abbascio 'o Capa 'a Chianca...!"
Portale ad arco della proprietà Del Forno, foto Fioretto, 2014
Il tenimento di Don Mimì del Forno

Sulla via del Plebiscito si trovava (e si trova tutt'oggi) il caratteristico doppio portale di tufo che fungeva da arco di ingresso della proprietà di don Mimì del Forno, famoso imprenditore agricolo, abitante a Materdei.
In questo luogo, infatti, Don Mimì aveva il suo tenimento agricolo, che era molto vasto e soprattutto curato, dove erano selezionate pregiate varietà di pesche che venivano presentate nei vari congressi specialistici italiani, ricevendo spesso dei riconoscimenti e premi, con recensioni su riviste specializzate del campo. Della varietà di pesca di Mimì del Forno e di altri aneddoti legati alla figura di questo apprezzato imprenditore a Piscinola, sono stati dedicati altri post all'interno di questo blog.

Tra i tanti venditori ambulanti ricordo: don Silvestro, che d’estate vendeva la "rattata" (granita di limone), in primavera, caramelle e d’inverno castagne lesse; don Vicienzo e don Rafele ’o caramellaro, che vendevano caramelle con dei caratteristici banchetti di legno muniti di lastre di vetro scorrevoli; don Ciro 'o piattaro, che vendeva piatti, bicchieri, posate in alluminio, pentole, bacili e bagnarole di stagno; Donn’Eugenio ’o pulezzastivali, che lucidava scarpe con tinture e cere di sua produzione. C'erano altri ambulanti che ora non ricordo molto bene il nome, che ormai sono entrati nell’immaginario collettivo piscinolese.
Portale ad arco e cortile palazzo "Staviano", foto Fioretto, 2014
Desidero infine ricordare tra gli antichi contadini di Piscinola, che spesso si incontravano per strada, quelli che mi sono rimasti impressi nella mente con i loro caratteristici soprannomi: Palle ’e Cercula (forse originario del territorio di Cercola), zì Cicchella, e’ Vizze, Rafiluccia ’a Mossa, Senz’ossa.

Senz'ossa era un contadino, abbastanza in carne, che abitava nel palazzo posto a confine con il giardino di Villa Vittoria. Era molto bravo a crescere polli, conigli e soprattutto maiali, che ingrassava al punto che non erano più capaci di stare sulle proprie zampe. Sapeva fare un vino apprezzatissimo e produrre salami, capicolli, prosciutti e salsicce di un sapore ricercato e non più gustato.
Altri tempi!

Luigi Sica



Ringrazio l'amico, Luigi Sica, per aver contribuito con quest'altro suo bel racconto alla ricostruzione di un altro pezzo della storia recente del nostro amato Borgo. S.F.
Chiesetta Madonna della Pietà, via del Plebiscito, foto Fioretto, 2014
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sabato 23 aprile 2016

Curiosità, aneddoti, storielle divertenti, per un popolo che amava ridere...!


L'uscita dal periodo nero della Guerra, che segnò tanti lutti e sciagure, non solo nel nostro territorio, ma in tutta l'Italia e nell'Europa intera, destò una sorta di ventata di ottimismo e di entusiasmo tra la popolazione per la libertà riconquistata, anche se si doveva pur sempre affrontare il pesante fardello della ricostruzione materiale e morale del Paese.
La gente aveva trovata la serenità e il piacere di vivere, senza avere più il terrore di ricoverarsi nel corso dei bombardamenti anglo-americani o nascondersi durante i rastrellamento dei Tedeschi. Tanti uomini ritornavano dai "campi di concentramento" dove erano stati deportati, riabbracciando dopo anni le proprie famiglie. La vita ritornava a scorrere semplice e tranquilla come un tempo...
Foto panoramica su Piscinola durante la nevicata del 1973, foto di Giuseppe Iovine
In questo clima di riappacificazione sociale la gente riprese il gusto di divertirsi e di ritornare a ridere. Ed erano soprattutto le storielle divertenti, le curiosità e gli episodi singolari a destare l'ilarità collettiva, fatto però senza cattiveria e malizia.
Alcuni di questi aneddoti li abbiamo raccolti in questo post utilizzando dei nomi di fantasia o poche indicazioni, per proteggere la privacy delle persone coinvolte.
L'episodio più curioso, che avvenne nell'immediato dopoguerra, fu quello capitato a un giovane curato del territorio. Come consuetudine dell'epoca, in occasione di un funerale, il curato doveva recarsi a rendere la benedizione funebre presso la casa del defunto, prima di organizzare il corteo verso la chiesa.  In una di queste circostanze l'abitazione del defunto era posta nel centro storico del paese. Singolare a raccontarsi, proprio al momento della benedizione, si verificò il crollo istantaneo del solaio, fatto di vecchi travi e assi di legno (detti 'e chiancarelle) e così tutte le persone presenti in quel momento della stanza, compreso il mobilio e il povero defunto, finirono per precipitare rovinosamente nella sottostante stalla...!
Tra la nube di polvere e la concitazione scaturita ognuno si ritrovò in una posizione malconcia e diversa, chi sopra una botte, chi seduto dentro un tinello e chi appeso a una trave, ma la cosa che fece ridere a molti fu quella che il povero curato si ritrovò in groppa a un povero somarello, che si trovava in quell'istante legato alla sua mangiatoia, ignaro della imminente catastrofe...
L'episodio fece molto scalpore nel circondario e sicuramente aiutò a far crescere le entrate del "Bancolotto".... La cosa importante fu quella che non ci furono, per fortuna, feriti gravi tra le persone coinvolte, ma solo qualche graffio o contusione. Non sappiamo come se ne uscì il povero asinello.... e se dopo questo incidente si ebbe la forza di continuare lo svolgersi del funerale, oppure si decise di rimandare il rito di qualche ora.
Si racconta che una signora, abitante in via Vittorio Emanuele (‘O cape ‘e coppa), un giorno si mostrò infastidita dal passaggio della processione, forse a causa del suono della banda e del frastuono delle voci emesse dalle persone e dagli scugnizzi che seguivano il corteo. Invece di esporre al balcone la solita coperta colorata e lanciare petali di fiori, la signora chiuse stizzita i battenti del balcone e si ritirò in casa. L'aneddoto popolare, forse un po' leggendario, vuole che, dopo tale fatto, alla donna crebbe una vera e propria coda...!! Molte persone, dichiaratisi testimoni dell’avvenimento, erano pronte a giurare di aver veramente visto questa “appendice” anatomica, non comune per un essere umano…!! L'episodio divenne presto elemento di ilarità nella memoria collettiva e viene ricordato come: “‘A signora cu’ ’a coda"!
C'era un personaggio a Piscinola che è stato amato per la sua semplicità, ma viene ricordato anche per alcuni episodi molto divertenti: tutti lo chiamavano con il nomignolo bonario di “‘o Barone”. Non si conosce precisamente il vero motivo, forse a causa del suo portamento un po’ bizzarro e trascurato, forse parafrasando il suo stato di povertà con il titolo previsto per una persona ricca e blasonata. Una volta, nell’immediato dopoguerra, fu preso in giro anche dai soldati americani, che marcando la sua nomea di nobile, lo scortarono fino a casa, con tanto moschetto e di picchetto...!
Dal fisico apparentemente normale, anche se non proprio bello nell’aspetto e forse anche un po’ sciatto nel vestire, il "Barone" è entrato a far parte nell’immaginario collettivo della nostra gente per un’altra caratteristica che lo distingueva: vale a dire l’eccezionale forza posseduta. Egli sembrava un uomo dal fisico normale, ma era dotato di una forza straordinaria. Secondo le testimonianze raccolte, riusciva a sollevare e trasportare sulle sue spalle, mobili o sacchi pesanti, anche oltre il quintale, senza l’aiuto di nessuno. Ironia della sorte, spesso si riduceva anche in stato di ubriachezza e si vedeva brancolare nei pressi di qualche “vineria” di Piscinola.
Il "Barone" prese moglie in tarda età. Per molti anni abitò in un “basso” di Piscinola, non ebbe mai un lavoro fisso e visse soprattutto grazie al sostegno e alla generosità della gente di Piscinola. Quando morì, furono in molti a compiangerlo, perché in fondo si era fatto volere bene da tutti, per la sua semplicità e umanità. (*)
Altri aneddoti divertenti sono i tanti ricordi che accompagnano la storia della banda musicale di Piscinola.
Il maestro della banda, che si chiamava Gaetano, era un personaggio alquanto severo e affrontava con serietà e metodo il suo ruolo di direttore musicale della banda; pretendeva dai suoi allievi musicisti la massima dedizione nello studio della musica, oltre la costante loro presenza alle prove settimanali. Certe volte, quando perdeva la pazienza, commentava con delle battute sarcastiche le modeste esibizioni di alcuni suoi allievi...
Un giorno, un suo allievo si mostrò alquanto incerto e altalenante nella esibizione musicale, si chiamava Pietro ed era anche un po' balbuziente...; il maestro dopo varie prove e controprove, ormai spazientito, esclamò tra il serio e il faceto: "Pietro, tu come parli così suoni...!!". E tutti giù a ridere a crepapelle...
Ad un altro musicista di nome Pasquale, che si era dimostrato anche lui alquanto insufficiente nell'esibizione, gli disse: "Pasquale, quando suoni il trombone sembri che dai i calci nel portone!". Altre risate!
Ma anche tra i componenti della storica banda musicale si ebbero alcuni episodi esilaranti, spesso raccontati da mio padre. 
Vincenzo, che suonava il tamburo, era soprannominato Sarchiapone per il suo ruolo nella Cantata dei Pastori; un anno, durante la processione della festa di Miano, litigò con un altro musicista, forse per una questione di rivalità artistica. Sarchiapone sfogò la sua ira in una forma che oggi diremo autolesionista! Nel corso della concitata discussione che ne scaturì, assalito dall'ira, buttò il suo tamburo a terra e lo sfondò irrimediabilmente con i piedi. Poi abbandonò di punto  la banda in quella esibizione, senza giustificarsi!
Un altro componente della banda musicale, soprannominato Pallino, un giorno si posizionò alla finestra di casa sua, intento a pulire lo strumento che suonava; tra una lucidata e una strofinata di cera, gli scivolò lo strumento dalle mani e rovinò sulle dure pietre di basalto della strada ('e vasule); ovviamente il curioso episodio destò le risate dei vicini e dei viandanti... perché, purtroppo lo strumento riportò vistose ammaccature... Fu portato a riparare presso un negozio specializzato che si trovava all'epoca in via San Sebastiano: ci misero una pezza, ma lo strumento rimase seriamente compromesso, sia nella forma che nel suono...
Spesso gli aneddoti e i racconti costituivano il repertorio di curiosi personaggi popolari, che si divertivano a raccontarli ad amici e soprattutto ai bambini, durante lo svolgersi dei loro mestieri ambulanti: uno di questi personaggi caratteristici di un tempo è stato “Don Vicienzo”, detto “‘O popolo”, di professione ciabattino, il quale con un suo “repertorio” di centinaia di storielle e aneddoti ha incantato diverse generazioni di piscinolesi.
"Don Vincenzo" si posizionava con il suo banchetto di “solachianiello” nel cortile antistante alla sua abitazione in vico Plebiscito, sempre circondato da bambini e ragazzi incantati ad ascoltare i suoi affascinanti racconti e a osservare le sue espressioni colorite. Specie in estate, iniziava di buon mattino e finiva all’imbrunire, raccontando, come in una recita senza sosta, i suoi numerosi “fattarelli”. Si esprimeva sempre in italiano, con una prosopopea da letterato e per tale motivo la gente gli coniò il nomignolo di “‘o popolo”. Si racconta che egli ricordava tutta la Divina Commedia a memoria. Era un concentrato di filosofia di vita e di simpatia! (*)
Anche nell'epoca recente abbiamo conosciuto personaggi che hanno contribuito con la loro simpatia e il loro spirito divertente, a donare un sorriso, una risata, anche nei momenti seri della vita...
Un noto professionista del territorio, tra una pratica e l'altra, intratteneva spesso i suoi clienti con aneddoti e "fattarielli" divertenti; incominciava un nuovo racconto sempre con lo stesso preambolo: "Voi non ci crederete, ma...".
Nel suo studio, tra i vari titoli, ritratti e onorificenze ricevute, aveva in bella nostra due piccoli quadri alquanto singolari, che la dicevano lunga sul suo spirito ironico.
In uno dei quadri era riportata una foto a colori di un gruppo di 6-7 maiali ripresi in un porcile e a margine della foto, in una didascalia era riportata la scritta "Amici miei"!
Raccontava, a chi glielo domandava, che quella foto aveva fatto vincere una scommessa che una sua cliente aveva fissata con un incredulo amico americano. Un giorno i due si presentarono allo studio in questione e l'americano ebbe la dimostrazione che effettivamente il noto professionista napoletano mostrava una foto del genere, con la curiosa scritta a margine...  La scommessa comportò per pegno una cena in un famoso ristorante di Napoli, a cui fu ovviamente invitato anche il nostro concittadino.
Nell'altro quadro era riportato un componimento scolastico di un fanciullo frequentante la scuola elementare, che rispondeva al tema dato in classe: "Parlate di un giorno vissuto con vostro padre". Il componimento, scritto in un linguaggio incerto e approssimato, misto tra l'italiano e il napoletano, raccontava di un viaggio effettuato al mercato assieme al padre, utilizzando il proprio carro (carretta) trainato dall'asino. In poche parole il racconto descriveva che il povero asino, durante la strada di ritorno, si impuntò e non voleva proseguire il cammino, il padre, arrabbiato, colpì il povero animale con una pertica di legno (straccariello), con molta veemenza, fino a quasi tramortirlo e a fargli cambiare "idea"... Il racconto riportava in maniera colorita anche gli epiteti e le bestemmie pronunciate dal genitore alla presenza del ragazzo ... !
Salvatore Fioretto 

Alcuni racconti sono stati tratti dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore - Una terra, la sua gente, le sue tradizioni" di S. Fioretto, ed. The Boopen, 2010. I racconti con la nota (*) sono stati forniti da Pasquale Di Fenzo.

Foto panoramica su Piscinola, dalla biblioteca comunale "D. Severino", foto di Giuseppe DiVaio

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