martedì 17 dicembre 2013

La chiesa della Madonna dell'Arco a Miano, tra storia, arte e leggende...!

Chissà quante volte siamo passati accanto, a volte anche accedendo al suo interno per partecipare a funzioni liturgiche, ma credo che siano in pochi a conoscere l'importanza e l'antichità di questo nostro monumento di storia, d'arte, di folclore e di religiosità: "nostro" perché ubicato nel nostro territorio, ovvero nella cosiddetta Area Nord di Napoli. La chiesa in questione è dedicata alla Madonna dell'Arco e si trova a Miano, vicino all'ex stabilimento della Birra Peroni. Le tracce storiche ci portano a far risalire le origini della cappella dedicata alla Madonna ai primi anni del XVI secolo, in quanto in un documento del 1542 è già menzionata la sua esistenza.
Nel libricino "Cenno storico della taumaturga effige di Santa Maria dell'Arco che si venera nella chiesa dei frati minori riformati in Miano", scritto da  Eusebio Partenico, del 1851, così si legge: 
..."Miano, Casale distante da Napoli due miglia in circa, possiede un prezioso tesoro, quale si è appunto la taumaturga Effige di S. Maria così detta dell'Arco, che quivi si venera entro la chiesa dei padri minori riformati".[...]
"...E' onorata la Divina Madre nella suddetta Effigie col titolo di Santa Maria dell'Arco perché esisteva dipinta a fresco sotto un arco di fabbrica in mezzo alla strada pubblica, che conduce alla via regia, per cui si va a Capua; e poco lungi dal Casale, appunto dove ora è la chiesa e il convento dei Padri Riformati. Quantunque non ci conosca con certezza, l'anno nel quale sia stato fabbricato questo arco, e vi sia stata dipinta la S. Effigie: non pertanto giudicavasi, che si discovrisse miracolosa, o verso la fine del XVI secolo o nel principio del XVII, in occasione del seguente avvenimento..." [...]
L'avvenimento prodigioso, di cui si parla, capitò a un giovane paralitico, di nome Giuseppe. Il poveretto si tratteneva spesso ai piedi dell'immagine per chiedere l'elemosina ai passanti. Un giorno udì una voce che lo esortava ad alzarsi, ma voltatosi più volte, non vide alcuna persona nei paraggi; la scena si ripeté per altre due volte, allorché Giuseppe pensò di alzarsi, ascoltando l'esortazione..., cosa che gli riuscì senza problemi..., gridando ovviamente al miracolo! La fama del prodigio fu tale che accorse sul luogo una moltitudine di persone, provenienti da tutto il circondario e anche da lontano. Molti furono i pellegrini che negli anni seguenti si recavano a venerare la prodigiosa immagine e a portarle dei doni in offerta. I prodigi si moltiplicarono e con le offerte dei devoti fu eretta una cappella e un ricovero di quattro stanze, che fu affidato ad alcuni eremiti, con l'incarico di vegliare la cappella e il luogo sacro. 
Intorno al 1624 la chiesa fu ampliata e fu costruito un convento affidato nel 1625 ai padri domenicani, dall'arcivescovo di Napoli, Decio Carafa. La presa in possesso della chiesa avvenne in modo definitivo solo nel 1631.
I prodigi continuarono a essere numerosi nei decenni seguenti. Siamo a conoscenza solo di due di questi eventi: il primo avvenne il 16 agosto del 1640. Un tale don Fabrizio Sanseverino, gentiluomo di Catanzaro, ottenne la guarigione da una terribile febbre malarica che l'aveva ridotto in fin di vita. Si era affidato alla Vergine venerata a Miano dopo aver saputo che un suo amico, tale Giovanbattista Confalone, aveva ricevuto anch'egli una grazia.
Il secondo miracolo avvenne del 1641: un dottore di nome Giacinto di Masi, residente in Lecce, aveva un figlio di nome Prospero, che era paralitico fin dalla nascita. Dopo vari e inutili tentativi di cura, pensò con la moglie di invocare l'aiuto divino. Quando il bambino aveva circa 4 anni, gli apparve la Madonna, come rappresentata nell'immagine di Miano, dicendogli "...fatti portare a casa mia che ti farò la grazia". Supplicando i genitori di poter recarsi in chiesa, come chiesto dalla Madonna, il bimbo non sapeva però indicare dove si trovasse l'affresco miracoloso, così i genitori lo portarono inutilmente nella famosa chiesa di Chiaia a Napoli. Avendo saputo della fama che godeva l'immagine prodigiosa venerata nel casale di Miano, i due genitori pensarono di portare lì il loro bambino. Appena il bimbo vide l'affresco, esortò la Madonna a fargli la grazia, come aveva promesso e, quindi, si alzò e iniziò subito a camminare verso l'altare, tra lo stupore delle persone che gli erano accanto. 
Dopo pochi decenni alla chiesa fu conferito il titolo di "Santuario", e fu affidata alla giurisdizione della "Congregazione Riformata della Sanità" dei padri Domenicani di Napoli. La chiesa si trovava situata all'epoca in aperta campagna, distante almeno 300 metri dall'abitato del casale di Miano (132 canne= misura dell'epoca).
Agli inizi del 1800 la chiesa della Madonna dell'Arco fu ridotta allo stato di abbandono, in quanto i Domenicani furono espulsi durante il decennio francese, a partire dal 1809.
Dopo oltre 34 anni di abbandono, nel 1842 fu affidata ai Francescani appartenenti all'Ordine dei Frati Minori Riformati (OFM). Da allora i frati realizzarono importanti lavori di restauro. 
In seguito alla costruzione del ponte di Bellaria, che collegava agevolmente Miano con Capodimonte e con il resto del centro cittadino, la chiesa riacquistò la sua fama e con essa il numero dei pellegrini accolti. 
All'interno della chiesa di Miano, a lato dell'altare maggiore, si conserva ancora la cappella contenente il celebre affresco della Madonna dell'Arco; infatti, su un pilastro antistante è posta una lapide marmorea che ricorda il primo miracolo avvenuto.
Alla fine dell'ottocento fu accolto, dagli amministratori cittadini, il desiderio degli abitanti di avere un cimitero autonomo dalla città e, così, una parte del giardino della Chiesa, forse già utilizzato in precedenza dai frati come "Terra Santa", fu adibito intorno al 1880 ad essere cimitero comunale per le frazioni di Miano, Marianella, San Rocco e Capodimonte, con la successiva aggiunta di Piscinola. Fu realizzato anche un collegio per la formazione dei bambini.
Sulla facciata principale un tempo era presente un bel tondo di ceramica maiolicata, contenete l'immagine della Madonna dell'Arco (al momento è stato asportato, forse per eseguirne il restauro). Le due statue in gesso poste sulla facciata raffigurano S. Domenico di Guzmàn e San Francesco d'Assisi, fondatori degli ordini religiosi che hanno nei secoli retto le sorti del santuario, vale a dire i Domenicani e i Francescani.
Bella e caratteristica è la torre campanaria posta a destra della facciata, terminante con un particolare cupolino "a cipolla", mentre sulla sinistra si può ammirare una elegante meridiana in marmo bianco.
Nella parte centrale, sopra al portale d'ingresso, è inserita una lapide marmorea (foto in alto), con la seguente scritta: 

Questo tempio che un tempo toccò in (per averne) cura ai frati dell’ordine dei predicatori all’inizio (nell’entrare) del secolo decimo settimo, la pietà e la munificenza dimostrata con il denaro lo eresse là dove prima era stata dipinta un’effigie beneaugurante della Madre di Dio sotto un arco di fabbrica presso il pubblico cammino. Poi i frati dell’ordine di S.Francesco della prov. napoletana rif(erirono) che, per il danno dei tempi, (era) squallido, corroso e quasi andato in rovina. Nell’anno 1842, non appena fu concesso che fosse restituito a loro, curarono che fosse ornato con tetto, pavimento, altari marmorei, statue che sembravano vive in bronzo campano e allestito con abbondantissima suppellettile. Nell’ anno 1861, il 22 Settembre, adoperandosi assai il venerando P. Francesco da Pianura, guardiano del convento che (niente di) nessun ornamento mancasse ai sacri edifici, l’illustrissimo e reverendissimo signor Domenico Ventura, arcivescovo della chiesa amalfitana, con ingente folla di abitanti dei dintorni esaminò con un rito solenne.


Purtroppo la chiesa attende "un energico" restauro esterno.

L'interno del tempio è a unica navata, con cappelle laterali e con una cupola (a sesto ribassato), che sovrasta l'altare maggiore. Interessante è la decorazione, realizzata con fregi, paraste e fiori in stucco bianco, forse opera di manovalanza mianese. 
Persiste ancora il pulpito in legno, forse del XVIII secolo e alcuni affreschi, ma molto ritoccati. Un tempo nella prima cappella a sinistra, si poteva ammirare un bellissimo e antico presepe in terracotta, poi andato purtroppo rubato.
Nel convento di Miano visse per molti anni fra Michelangelo Longo, amico del beato fra Ludovico da Casoria, morto in odore di santità nel 1886, nel convento "della Palma" a Capodimonte e sepolto nel cimitero di Miano. Le sue spoglie furono poi traslate nella chiesa di Miano e solo alcuni anni fa sono state trasferite nella sua città natale di Marigliano(Na). Nel 2008 fra Michelangelo Longo è stato dichiarato Venerabile.

La festa dell’”Architiello” ...

La festa dell’”Architiello” (o Archetiello) di Miano, tanto cara anche ai Piscinolesi di un tempo, oggi è una ricorrenza ormai dimenticata. Si svolgeva da diversi secoli nel largo antistante al Santuario di Miano. 
Nelle mappe antiche, la zona attorno all’antica chiesa viene indicata con il toponimo di “Architiello”.
Di questa festa si hanno notizie a partire dal XVII secolo. Infatti, già intorno all’anno 1631, l’autorità governativa napoletana, denominata “Collegio Collaterale”, considerata la cospicua affluenza di fedeli e la presenza di numerosi commercianti durante le feste di Pasqua, emise un’ordinanza volta a scongiurare ogni atto d’irriverenza, fuori al Santuario ed al convento, retti allora dai padri Domenicani. L’ordinanza era rivolta principalmente a coloro che svolgevano attività ludiche, giudicate dalla stessa “Collaterale”, moleste verso i fedeli ed i commercianti presenti.


Ecco il testo dell'ordinanza:




PHILIPPVS DEI GRATIA REX ETC.

CAROLVS DE TAPIA MARCHIO BELMONTIS

CON^RIVS, REGIÆQ CANCELLARIÆ   REGENS ET COMM_S  PER S. E.  DELEGAT

PER IL PRESENTE BANNO ORDINIAMO E COMANDIAMO CHE DA HOGGI NISUNA PERSONA DI QUALSIVOGLIA STATO, CONDIZIONE ARDISCA DI GIOCARE A MAGLIO E PALLE AVANTI LA CHIESA DI N. S. DELL’ARCO DEL CASALE DI MIANO PER QVANTO TENGONO LI CHIUPPI POSTI IN STRADA, NÉ ATTORNO LA CHIESA DEL MONASTER. PREDETTO SOTTO LA PENA ONZE CINQUANTA PER OGNI VOLTA DI ESEGUIRSI IRREMISSIBILMENTE CONTRO LI TRASGRESSORI AL REGIO FISCO E SOTTO LISTESSA PENA SORDIA ALL’UNIVERSITÀ DI DETTO CASALE, AFFITTATORI E GABELLOTI ET ALTRI MINISTRI A CHI SPETTA PRESENTI E FUTVRI CHE NON DEBBANO MOLESTARE SOTTO QUALSIVOGLIA PRETESTO LE PERSONE CHE VENDERANNO E COMPRERANNO ROBBE NELLA STRADA PREDETTA IN TUTTI I GIORNI DELL’ANNO ED IN PARTICOLARE DELLA SS. PASCA DI RESURREZIONE E PENTECOSTE, NÉ GL’ANIMALI CHE SARANNO IN DETTA STRADA E GL’OFFICIALI E CORTE DI DETTO CASALE PRESENTI E FUTURI DI TENERE PARTICOLAR PENSIERO DELL’OSSERVANZA DEL PRESENTE BANNO ET ACCIOCCHÉ VENGA A NOTITIA DI TUTTI ET BANNO UT SVPRA.                                                                                      
CAROL DE TAPIA FANASTASIVS ATCVAR


Purtroppo di questo interessante passato oggi  si è perso ogni traccia, come pure non si ricorda più nulla dell'antica tradizione dell'"Archetiello". Speriamo, come sempre, in una possibile futura riscoperta da parte delle giovani generazioni, con la ripresa del culto e della festa profana della Madonna dell'Arco di Miano.
Salvatore Fioretto


(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Si ringrazia Anna Maria Montesano per la cortese collaborazione.

 

NB: Le foto riportate in questo post sono state liberamente ricavate da alcuni siti web, ove erano pubblicate. Esse sono state inserite in questa pagina di storia della città, unicamente per la libera divulgazione della cultura, senza alcun secondo fine o scopo di lucro.
 

sabato 14 dicembre 2013

'O Cap'e Coppa e le sue figure indimenticabili! Di AnnaMaria Montesano


Negli anni ’50 e ’60, Piscinola era un quartiere modesto, di povera gente, di operai e di piccoli impiegati, ma aveva le sue eminenze: il farmacista, l’avvocato, i medici, il maestro.... come un piccolo paese di tanti anni fa; e del paese aveva l’aspetto e le abitudini, anche perché anticamente era un borgo rurale dominato dal palazzo del signorotto. 
Colombaia nel giardino del palazzo Grammatico (lato via V. Emanuele, detto 'o Cape 'e Coppe)
Eppure anche Piscinola aveva le sue gradevolezze: le campagne, ad esempio, che davano l’impressione, nel bene e nel male, di essere tagliati fuori dal territorio cittadino, di non essere figli del mare ma della terra; che ci rendevano facile e gradevole il conto dei mesi e delle stagioni; vivevamo, con i contadini, al ritmo dei primi peschi in fiore in primavera, della potatura invernale, della raccolta delle noci in autunno.
La casa in cui vivevo era abbastanza spaziosa per i canoni dell’epoca; stavamo al primo piano, in tre stanze con cucinotto e gabinetto, sì gabinetto...perché la vasca da bagno non c’era...e neanche il bidet...e allora ci si lavava a pezzi nella bacinella e si faceva il bagno nella “bagnarola”, una tinozza di zinco che, di solito, era appesa ad un chiodo in cucina e serviva per il bucato. Lì, la mia infanzia fu selvaggia e spensierata: c’erano i giochi in giardino, un cortile in terra battuta circondato da campi coltivati e dal forno della panetteria, giochi fra fratelli ma anche con gli amichetti del palazzo e di quelli accanto; e c’erano le visite al negozio della Scarparella, una piccola botteguccia dove delle sorelle zitelle vendevano di tutto, dai lacci per le scarpe ai rocchetti di filo....ma, soprattutto, avevano sul bancone una sfilza di grossi vasi di vetro pieni di ogni ben di Dio: lecca lecca, che noi chiamavamo bomboloni, caramelle, soldi e formaggini di cioccolato, torroncini.....e lì andavamo a fare la nostra piccola spesa che consumavamo poi a casa in comunità oppure portavamo a scuola La casa si trovava in via Vittorio Emanuele, una strada lunga e tortuosa che metteva in comunicazione la piazzetta del Principino con la piazza principale del quartiere, quella con la scuola, il municipio e la chiesa...noi la chiamavamo pomposamente piazza Plebiscito ma in realtà era intitolata ad un certo Bernardino Tafuri; lungo questa strada, che avrei percorso ogni giorno per tanti anni, vivevano dei personaggi di un’altra epoca, come la zia Peppinella che, in autunno, preparava in un gran calderone le castagne lesse che avevano un profumo ed una consistenza al palato mai più sentiti, o la zia Carmelina che, invece, si metteva sul balconcino a tostare l’orzo in maniera artigianale, facendolo girare lentamente in un cilindro di metallo mosso da una manovella; era tutta gente poverissima che s’inventava mille mestieri stagionali per sbarcare il lunario e, passando, si intravedevano, attraverso le porte socchiuse, i miseri interni delle loro case, monolocali che davano direttamente sulla strada.
Tramonto dal rione di Via Dietro La Vigna, foto di Ciro Pernice
Eravamo spesso in strada io e i miei fratelli perché le strade allora erano sicure: di auto ne circolavano poche, dei pedofili sembrava che non ci fosse neanche l’idea, i camorristi stavano in altri quartieri e così, appena potevamo, con grande gioia di mammà che poteva starsene per un poco in santa pace a chiacchierare con i vicini o a leggere un fotoromanzo, correvamo giù: quando pioveva, sotto il palazzo e, quando c’era bel tempo, in giardino, nei campi vicini ma, più spesso, proprio in strada, a giocare liberi come l’aria, sensazione che i bambini d’oggi, poveretti, non proveranno mai. E, per quella strada, passavano tanti personaggi folkloristici, qualcuno ormai del tutto scomparso: Tatunniello, ad esempio, che annunciava l’arrivo del suo carretto con un magistrale rullo di tamburi e, secondo le stagioni, vendeva sorbetti al limone e “grattate” dai colori brillanti oppure spighe di granturco lessate in un grande calderone tutto annerito; oppure passava il “saponaro”, lo straccivendolo cioè, che scambiava stracci e robe vecchie con tante cose utili per la casa, prendendole da un carretto pieno zeppo...oppure ancora, l’arrotino e tutte le donne correvano giù a portare lame da affilare; e poi c’erano quelli che venivano dalle campagne lontane con le primizie: i fichi, ad esempio, o le more, rosse e succose o pallide e dolci, ce le davano su di una foglia di gelso ed erano una delizia! A noi, poi, tutto sembrava una delizia, forse perché allora non c’erano l’abbondanza e lo spreco di oggi oppure perché le cose avevano davvero un altro sapore, più corposo e fragrante...

E così, una volta che ci facemmo più grandicelli, erano grandi mangiate di pane e mortadella o pane e friarielli; il pollo era una squisita rarità per i giorni di festa; le olive verdi una tentazione irresistibile quando, all’approssimarsi del Natale, mamma ne comprava in grande quantità per l’insalata di rinforzo e le metteva in un vaso di coccio; eravamo addirittura capaci di rubarle dal vaso o di andarcene a comprare un “coppetiello” da Giovanni, il simpatico salumiere baffuto un po’ balbuziente, quando non andavamo a comprarci un etto di Nutella (allora si comprava a peso e si chiamava semplicemente cioccolata), Giovanni la prendeva da un grosso contenitore e ce la metteva nella carta oleata su cui davamo delle grandi leccate beate.
Semplici ma grandi piaceri ! Tiempe belle ‘e ‘na vota !

AnnaMaria Montesano 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

La strada per Porta Grande a Capodimonte, in un dipinto ottocentesco

venerdì 13 dicembre 2013

Festeggiamenti del Centenario della Ferrovia "Piedimonte", al vecchio capolinea di Piedimonte Matese, domani ore 9:30




Una poesia dedicata alla storica ferrovia “Napoli-Piedimonte D’Alife”



Comm’era bella ‘a Piedimonte!

(Poesia pubblicata nel “sito Internet”: www.lestradeferrate.it e nel libro: "Piscinola, la terra del Salvatore", ed. Boopen, anno 2010)


Quanno veco ‘e piccerille                                        
Ca pazzejano cu’ ‘e trenine                                      
M’arricordo quanne pur’io                                      
Pazziavo criaturielle                                                 
Cu’ nu treno…, ma overamente!                            
Ca chiammavano ‘a Piedimonte…!                       

Stu trenino ca passave
Poche vvote ‘int’’a ghiurnata,
Jeva a na città ‘e Caserta
Cu’ nu semplice bbinarie,
Ogni tanto se fermava dint’ ‘a stazione,
Pigliava ‘a ggente e po’ se ne jeva.

Se ne jeva pe’ campagne
Verde e fresche,
Se ne jeva passanne
Sciumme e fuossa…
Era nu spettacolo a vederse!
Era comm’ ‘a na pazziella…, ma assaje cchiù grossa…!

Te purtava pe’ massarie e casale, 

mmiez’ ‘a ppastene ‘e mele annurca,


pe’ na terra assaje gentile,
chiena d’arbere ‘e giardina,
chiena ‘e sciure a pprimmavera
c’arraccuntà nun ce se crera…!

Ma chiustu suonno duraje poco…
Dint’ ’o lasso ‘e poco tiempo,
Nce fermajeno trent’anne fa,
stu trenino dint’ ‘a storia
senza scrupolo e ppietà,
cu’ ‘o pretesto d’ ’o cagnà!

Doppo che è passato ‘o tiempo,
n’atu treno mo ce veno,
ma è na fredda scatulella,
ca se sposta sott’ ‘a terra,
viaggia ‘o scuro e senza sole,
gialla e grigia, ma senza core…!


Nun ce resta che tenè ’a mmente
comm’erano belli chilli tiempe,
quanno tutt’ ‘e piccerille d’ ’o paese
salutavano ‘a Piedimonte,
cu’ n’alleria e spensieratezza,
ca è sulo ricordo chin’ ’e tristezza...!
 
S. Fioretto 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)









giovedì 12 dicembre 2013

Edizione straordinaria: Pino Ciccarelli, in parole e musica...!!

Si è conclusa da poche ore la bella presentazione del libro+CD, opera del maestro Pino Ciccarelli, marianellese di nascita e figlio del bravo direttore di orchestra Natale Ciccarelli
Il libro, intitolato "Magari in un altra vita" ed. Marotta&Cafiero, si accompagna nella lettura con brani musicali, molti dei quali scritti e musicati dallo stesso autore.
Si narrano con fluidità letteraria, in sintetici capitoli, alcuni scorci di vita autobiografica vissuti in gioventù dall'artista e scrittore, nei luoghi natii, Marianella, Piscinola, Miano, un tempo ricchi di verde e di umanità!
Al maestro e all'amico Pino Ciccarelli, la redazione di Piscinolablog augura uno splendido successo dell'opera, bissando presto, in un continuo letterario...!



domenica 8 dicembre 2013

... 'e Muntagnelle...! di Massimo de Stefano



Tra i miei ricordi di adolescente, nel periodo vissuto a Piscinola tra gli anni '70 e '80, oltre al cinema Selis, al circolo di Curzietto, agli incontri di basket della Virtus Piscinola e all'Oratorio parrocchiale, non posso dimenticare le famose Muntagnelle, ovvero quel luogo che noi ragazzi dell'epoca consideravamo magico per i nostri giochi, per dar sfogo alla nostra creatività e alle nostre esuberanti energie...  
Il luogo che chiamavamo 'e Muntagnelle non era altro che un lembo di terreno, poco pianeggiante, che si estendeva alle spalle della terza e della quarta traversa di via Napoli a Piscinola ed arrivava fino a via Janfolla a Miano, dove c'era l'Istituto Tecnico per il Commercio. Nel confine piscinolese c'era l'imponente edificio del calzaturificio D'Alessandro, uno dei pochissimi fiori all'occhiello dell'economia Piscinolese di allora. Spesso dalle grandi finestre della moderna fabbrica si poteva scorgere da lontano gli imponenti macchinari in lavorazione per la produzione di scarpe e borse; ma questa è un'altra storia...!
Poco lontano della fabbrica c'era, poi, un altro ampio piazzale occupato all'inzio degli anni '70 da una serie di giostre, che noi frequentavamo da bambini; giostre veramente semplici, ma che ci facevano divertire un mondo... C'erano le classiche "barchetelle", "il colpo del chiodo col martello", "il pugno del pugile", "la roulette" e quello che noi chiamavamo bonariamente "il calcinculo", perchè quando la giostra era in movimento, si doveva raccogliere al volo una specie di fiocco colorato che stava appeso a un sostegno e, per aiutare a chi stava seduto avanti a elevarsi nel salto, si dava una spinta con le gambe, realizzando per lui una sorta di catapulta...! Il fiocco raccolto dava diritto a ripetere gratis un altro giro nella giostra. C'erano altri giochi, ma sempre così semplici e innocenti...
Ma torniamo al nostro racconto....
Quel pezzo di terra delle Muntagnelle, che io personalmente non ho mai saputo a chi appartenesse, diventava, dopo la scuola e i vari compiti a casa, il nostro posto magico... il nostro nascondiglio, la nostra ludoteca...! Noi lo consideravamo come un nostro possedimento, insomma era nostro...! 
Lì si giocava, si costruivano piccole strutture e si realizzavano capanni. Ma dovevamo anche difenderlo da chi voleva estrometterci...! Diverse volte dovemmo confrontarci seriamente con alcuni ragazzi delle palazzine di Miano, che volevano utilizzarlo per i loro giochi, escludendo però la nostra presenza. Non vi nascondo che con questi ragazzi avemmo dei veri e propri combattimenti, compiuti a colpi di pietre, sfide che qui tutti chiamavamo 'a Guainella; poi sapemmo che era stato praticato da piccoli anche dai nostri genitori... 
Per fortuna per noi che i nostri combattimenti finivano sempre senza feriti... Ricordo che terminammo la nostra disputa in maniera civile e pacifica, realizzando un accordo di pace con il nemico, con la spartizione del nostro territorio, proprio come avveniva tra i grandi, nelle guerre che studiavamo a scuola sui libri di storia...!
Certo che oggi, a distanza di tanto tempo, riconosco che allora avevamo una grande fantasia e, forse, dopo che si leggerà questo mio racconto, qualcuno stenterà a credermi... ma vi assicuro che è stato tutto vero!
Che momenti belli ho trascorso su quel lembo di terra di Piscinola con i miei cari amici! Amici di una vita che ancora oggi frequento. Tra i tanti, ricordo: Pagnulotto (S. Marano), Mutandone (D. De Lise), Ustiggio (L. Sorano), Alfredino (A. Maiorano), mi fermo perchè la lista dei nomi è lunga per riportarla interamente... Quante risate che ci facevamo sulle giostre di via Napoli...!
Ricordi d'infanzia, come dicevo all'inizio, per me indelebili, che appartengono ad una Piscinola scomparsa, perché oggi quegli spazi sono stati purtroppo coperti dal cemento dei palazzoni realizzati tra gli anni '70 e '80!

Massimo De Stefano
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)