sabato 28 giugno 2014

Esattamente cent'anni....il 30 giugno 1914 il treno a vapore giungeva a Piedimonte!

Ho il piacere di inserire questo componimento scritto dal mio amico matesino, il dott. Giovan Giuseppe Caracciolo, per omaggiare l'arrivo cent'anni fa, il 30 giugno 1914, della ferrovia "Napoli-Piedimonte" nella sua cara città di Piedimonte Matese. Il percorso da Napoli, attraverso Secondigliano Piscinola, Marano, Mugnano.... era stato finalmente completato!


Il 30 giugno 1914, esattamente cento anni fa, col completamento dell'ultimo tronco della Ferrovia Alifana, Caiazzo-Piedimonte, le locomotive a vapore giungevano imbandierate ed ornate di fiori alla nuovissima stazione di Piedimonte (allora d'Alife) accolte da una folla festante. Per la cronaca erano la locomotiva di costruzione inglese V Catania con un convoglio merci che trasportava gli operai artefici della costruzione e quella belga "La Meuse" trainante tre carrozze passeggeri con le Autorità a bordo. A quei tempi quando un tronco era completato, lo si inaugurava con le "Locomotive di prova". Tale inaugurazione non corrispondeva necessariamente con l'inizio del servizio commerciale. Piedimonte inizierà, infatti, ad essere collegata a Napoli dal 5 ottobre 1914. Quel giorno festante vide i discorsi dell'Onorevole Angelo Scorciarini Coppola, artefice del collegamento Piedimonte-Santa Maria Capua Vetere, del Signor Sindaco della "Perla del Matese" Carlo Grillo, di S.E. il Vescovo Felice Del Sordo e del Direttore della Compagnie Des Chemins De Fer Du Midi De l'Italie (Compagnia delle Ferrovie del Mezzogiorno d' Italia con sede a Parigi), che aveva realizzato la ferrovia, Amedeo Chauffourier. La festa si concluse con un gigantesco rinfresco. I macchinisti ed i fuochisti che avevano condotto le locomotive tra pagliette e tube lanciate al cielo furono portati in trionfo. Avere allora una Ferrovia significava uno sviluppo commerciale ed economico per le zone attraversate. La Pianura Alifana, ricca di industrie (basta citare il grandioso Cotonificio impiantato dalla Famiglia svizzera EGG nel 1812) e di una agricoltura fiorente, non poteva più essere servita da traballanti carri trainati da cavalli e dalle carrozze passeggeri dei Conti Gaetani D'Aragona che in caso di condizione meteorologiche avverse dovevano sospendere il viaggio.

Un primo progetto risalente ai Borboni del 1858 prevedeva di servire Piedimonte con una diramazione dotata di  binario a scartamento normale da Amorosi, sulla già costruita ferrovia Napoli-Foggia. L'ingegnere Paolo Dovara nel 1878 proponeva il compianto allacciamento a Presenzano o Caianello, con proseguimento verso Alife, Piedimonte, Gioia Sannitica, indi Telese, ove ci sarebbe stato l'innesto sulla Napoli-Foggia: Piedimonte sarebbe stata collegata a Roma. Ma anche Alvignano e Caiazzo chiedevano a gran voce il loro collegamento ferroviario.
Ecco quindi le proposte di una ferrovia economica con binario a sezione ridotta del Consigliere Provinciale di Piedimonte Nicola Ventriglia , dell'Ingegnere Pasquale Sasso nel 1880, che collegasse la Pianura Alifana con Caiazzo (allora si scriveva Cajazzo) e Santa Maria Capua Vetere.
Alla fine la Compagnie des Chemins de Fer du Midi de l'Italie adottò il progetto degli Ingegneri Tessitore e D'Aniello ed i lavori di costruzione e gli espropri iniziarono nel 1905. La dotazione della Ferrovia all'apertura era di due locomotive a vapore di costruzione Breda di Milano, tre locomotive a vapore belghe "La Meuse" (un esemplare è monumentato alla stazione di Catania Borgo della ferrovia Circumetnea, ad Essa ceduto nel 1923), la già citata locomotiva a vapore V Catania, presa usata da una miniera di zolfo in Sicilia presso Dittaino, cinque elettromotrici a carrelli Breda per la Ferrovia elettrica, undici carrozze rimorchiate e 140 carri merci di vario tipo costruiti a Napoli dalle Officine Meridionali, due locomotive elettriche Breda  per treni merci. La vecchia Alifana aveva un tracciato completamente diverso dall'attuale: partendo con la vaporiera da Piedimonte, dopo la stazione di Alife, il fiume Volturno era superato con lo stesso ponte  stradale costruito nel 1868, dedicato agli allora Principi Umberto e Margherita di Savoia. Dopo Sant'Angelo in Formis alla stazione di Biforcazione Capua il binario proveniente da Piedimonte si innestava sulla ferrovia Alifana Elettrica Capua-Napoli Piazza Carlo III. La Vaporiera era scartata, il vagone con gli utenti da Piedimonte agganciato alla elettromotrice proveniente da Capua. I passeggeri diretti a Capua, scendevano e trovavano pronto il treno elettrico da Napoli.
Il viaggio proseguiva attraversando Santa Maria Capua Vetere (ben quattro stazioni), l'Agro Aversano e l'allora "Campania Felix", le rigogliose campagne di Giugliano, Mugnano, Marano, Piscinola a nord di Napoli (oggi chi ci crederebbe), ricche delle celebri "percoche" e vigneti la cui uva per la vicinanza al binario dell'Alifana era chiamata "L'Uva della Piedimonte". Il treno elettrico, simile ad un tram, con il binario a scartamento ridotto di 950 mm impegnava infine via Don Bosco, sede di uno Scalo Merci, e terminava la sua corsa sotto l'elegante stazione di Napoli Piazza Carlo III, ora Hotel di lusso. Ricordando questa romantica ferrovia non possiamo esimerci dal citare la difficoltà con cui il treno a vapore superava la tratta Piana di Caiazzo-Caiazzo.
Poco prima della casa cantoniera "Truli", tutt'ora visibile sulle Colline Caiatine anche se allo stato di relitto, per la forte acclività spesso in condizioni sfavorevoli (Treno troppo pesante, binari umidi, scarsa qualità del carbone), la locomotiva a vapore tra forti rumori dello scappamento e volute di vapore iniziava a slittare ed a perdere potenza fino a bloccarsi. I musi neri (macchinista e fuochista) invitavano spesso i passeggeri a scendere per diminuire il peso, se non addirittura a spingere. In genere il convoglio arretrava di nuovo verso Piana, faceva pressione, immetteva nuova sabbia da spargere sulle rotaie ed a tutto vapore prendeva la rincorsa. I malcapitati passeggeri, lasciati sulle alture di Caiazzo a fare asparagi e frutti di stagione, a volo, risalivano sull'ansimante convoglio. Quando il treno era molto pesante si faceva la doppia trazione, con l'aggiunta a Piana di una seconda locomotiva di spinta che veniva agganciata in coda (uno spettacolo!).
Il tronco Piedimonte-Biforcazione Capua andrà distrutto completamente nel 1943 a causa degli eventi bellici, mentre la Ferrovia Alifana Elettrica sospenderà l'esercizio il 20 febbraio 1976, decretando la fine di un piccolo mondo antico.
Come sapete, la linea che si usa attualmente è stata attivata il 4 aprile 1963 con allaccio a Santa Maria Capua Vetere FS. 
Non ci resta che fare gli auguri alla nostra Ferrovia, che fra tantissime difficoltà in cento anni, ha superato avversità di tutti i tipi e proprio per lunedì 30 giugno abbiamo una buona notizia per festeggiare: tutte le automotrici della Ferrovia Alifana sono state riparate, sarà quindi sospeso il servizio automobilistico con gli autobus e le corse verso Napoli saranno assicurate esclusivamente dai treni.

Giovanni Caracciolo
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venerdì 20 giugno 2014

'E ccerase.... 'e ccerase...!!!!

“Abbrile, abbrile! Mmiez’’e ffronne ‘e rosa
vaco vennenno ‘o frutto ‘e chistu mese;
cacciate ‘a capa, femmene cianciose,
io donco ‘a voce e vuie facite ‘a stesa:
- Frutto nuviello e mese ‘e paraviso!
Collera ncuorpo a nuie nun ce ne trase!…
‘E ccerase!……’E ccerase!….
Chiaiano celebra in questa settimana il suo appuntamento annuale con la ciliegia, in una sagra-evento che richiama da decenni tanti appassionati e anche tanti sostenitori, provenienti da diverse città cerasicole d'Italia. Quest'anno la "Festa delle ciliegie di Chiaiano" assomma a ben quarantatré edizioni, svolte praticamente con cadenza consecutiva... 


  
Già..., la ciliegia di Chiaiano...! Un frutto che ha origini lontane, ma che si è perfettamente ambientato in questo territorio, dove ha trovato un habitat ed un ecosistema favorevolissimo, sia per clima, sia per esposizione paesaggistica, sia per ricchezza di minerali presenti nel suolo e, direi anche, sia per la passione della gente di Chiaiano, che l'ha portato sempre nel sangue... Insomma Chiaiano è la città della ciliegia a tutti gli effetti e lo è da diversi secoli!
Per risalire all'origine di questo cultivar, infatti, dobbiamo portarci con la mente nella notte dei tempi e, come spesso capita, tra i "meandri", alle origini della civiltà, dove la storia si perde nelle leggende popolari... (Anche se credo che nelle leggende c'è sempre un pizzico di verità, tramandata nell'immaginario collettivo...).
Forse il ciliegio era già coltivato da queste parti in epoca pre-romana, forse gli Osci furono i primi a conoscere e ad apprezzare le eccellenti qualità nutritive delle sue drupe...
Dal libro "Opere inedite e rare"  scritto da Vincenzo Monti
Originario dell’Asia Minore, da dove si è poi diffuso in Europa, l’albero del ciliegio può vantare una lunga e antica tradizione di coltivazione in Campania, la cui diffusione è stata favorita innanzitutto per il suo clima mite. Secondo una testimonianza, più o meno attendibile, che risalirebbe a Plinio il Vecchio, il ciliegio fu importato nel 72 d.C.,  da L. Licinio Lucullo, dalla città di Cerasunte, sul Ponto, nell'attuale Turchia (da cui il dialettale “cerasa”), dove egli era stato in campagna militare. L'albero del ciliegio appare anche raffigurato negli affreschi pompeiani. Lucullo, che è rimasto uno sconosciuto generale romano, è però reso famoso soprattutto per la sua arte culinaria (ancora oggi si esclama dicendo: "...un pranzo luculliano"). Secondo un'altra testimonianza, anch'essa un po' leggendaria, pare che Lucullo avrebbe importato dalla Persia il pesco, da cui prese il nome (dal latino volgare "persica", ossia mela di Persia, e in dialetto "perzeca"). Queste due essenze, ciliegio e pesco, le avrebbe poi piantate nei giardini della sua villa napoletana, che come è noto si estendeva da Monte Echia (Pizzofalcone), fino all'isolotto di Megaride (Castel dell'Ovo)..., favorendone col tempo la diffusione nel territorio napoletano... Ma qui il condizionale è decisamente d'obbligo...!
Il poeta Virgilio nelle Georgiche ha citato il famoso ciliegio napoletano, esclamando: "...Pullulat ab radice aliis densissima sylva , Ut cerasis , ulmisque; etiam Parnassia laurus Parva sub ingenti matris se subiicit umbra....". Nella "Ode al Pontano" del 1430, lo scrittore Luigi Galluccio, in riferimento al giardino di Minturno, scriveva: "...Hic cersus densa est...". 
Nella Egloga del Pontano Quinquennius VI 5, è scritto: "...nun det fraga mihi cerasi num molle quasillum...".
Con il trascorrere dei secoli moltissimi sono stati gli scrittori e i poeti che, intenti ad omaggiare la ciliegia, hanno riportato delle citazioni del frutto nelle loro liriche, frutto sempre accomunato al ritorno della primavera e quindi dell'amore...!
Ricordiamo ancora qualche strofa della poesia scritta dal celebre Salvatore di Giacomo, "'E ccerase...", che già abbiamo inserito all'inizio di questo testo:
"L'anno passato , 'o tiempo d''e ccerase,
faceva 'ammore cu na Purticesa,
abbascio 'o Granatiello steva 'e casa,
e 'a chiammavano Rosa 'a vrucculosa.
Belli tiempe de lacreme e de vase!
Ogne lacrime quante a na cerasa.
Ogne cinche minute nu vaso!
'E ccerase!.... 'E ccerase!"
Molti ricorderanno sicuramente le parole della celebre Reginella scritta dal poeta napoletano Libero Bovio,
Reginè, quanne stive cu mmico 
nun magnave ca pane 'e cerase...



Il poeta Giuseppe Capaldo, vissuto e morto a Miano, cosi scriveva nella poesia "Vocca 'e Cerasa":
"Vocca addirosa, mia, vocca addirosa, 
ch'addure comm''e rrose 'e paraviso
nun essere cchiù nfama 'e dispettosa
tuorname nata vota 'o pizzo a riso!
......
Vocca 'e cerasa, mia, vocche 'e cerasa;
dinto 'a stu core mmio tu che 'nc'hé miso 
c'ammore se venuto a fa na casa
E pe' fa sta casa tu mme l'acciso?
...... 
Oltre alle colline di Chiaiano, le zone coltivate a ciliegio si estendono nel circondario, raggiungendo le campagne sopravvissute a Marano, a Mugnano e a Calvizzano. In passato anche nelle campagne di San Rocco, di Frullone, di Piscinola, di Miano e perfino di Capodimonte, si poteva ammirare la presenza di un discreto numero di alberi di ciliegio. 
Nel libro "La ciliegia  a Napoli e in Campania", scritto dal gen. dott. Giovanni Baiano, apprendiamo i nomi delle diverse varietà di ciliegie da tempo coltivate in questo territorio; partendo da quelle primitive di aprile fino alle tardive di giugno, ne sono riportate tantissime, qui ricordiamo alcune. Le più antiche, ormai rare, sono le qualità: Cefrune, Corvine, Campanarelle e San Giuvannella. Quelle, invece, ancora per lo pìù diffuse, risultano essere: Acquaiola, Durona Rossa, Nera e Gialla, Majatica (detta anche Maggiaiola o Napoletana), Tostola, Giulia, Lettera, Ferrovia, Casertana, Gamba Corta, Arecca, Malizia, Curnaiola, Sanbruna (o Zambruna), Del Monte, Mulignana, Mulignanella, Campanara, Aspra, Amarena, Pagliarella
Le ciliegie hanno favorito anche la nascita dei toponimi in alcune località nelle quali prosperavano, come a Marano, ove esiste la cupa Malizia e la località Recca, termini derivati sicuramente dalle due omonime varietà di ciliegie autoctone (Malizia e Arecca).
Singolare è la etimologia della celebre qualità Arecca che, secondo lo scrittore Domenico de Luca, di Chiaiano, deriverebbe da reminescenze reali, infatti bisognerebbe ricondurre il termine alla parola "'A Re" o "A rex", ossia "ciliegia Re o ciliegia reale" e non dal nome del proprietario del tenimento che era un certo Recco, come sostengono in tanti.
La ciliegia della Arecca o Recca matura tra la prima e la seconda decade di giugno. È un frutto dalla forma leggermente schiacciata, formato da una buccia di colore rosso scuro brillante che protegge una polpa biancastra e succosa. Viene considerata la ciliegia di maggior pregio di tutta la Campania.
Nei secoli scorsi, specie durante il mese di Giugno, si poteva assistere al dolce andirivieni dei muli che facevano la spola continua tra le colline di Chiaiano e di Marano e i depositi magazzini dove avveniva la conservazione provvisoria delle ciliegie. Qui venivano sistemate nelle cosiddette “varriate”, che erano delle grandi ceste rettangolari (sporte), sostituite in seguito dalle “cerasare”, più piccole e pratiche. Interessante era il confezionamento dei frutti prima della vendita al mercato, che avveniva in piccole casse di legno, composte in maniera ordinatissima e allineata e poi racchiuse nella classica carta velina rosse. Le ciliegie erano anche lucidate con appositi scopini, ricavati da rami di felci.
Un altro appassionato cantore della bellezza della ciliegia è stato lo storico e poeta dott. Domenico de Luca di Chiaiano, il quale nel suo saggio sulle ciliegie "Mito e canto del ciliegio e della cerasa" ha decantato forse più di tutti l'alto valore culturale e, soprattutto, antropologico delle ciliegie nel nostro territorio.
Anche la raccolta delle ciliegie merita un'attenzione, perché avviene ancor oggi con altissime scale a pioli, in legno (di recente  anche in alluminio), simili a quelle adoperate per raccogliere l'uva Asprino. Il paniere, un tempo utilizzato per la raccolta sugli alberi, era chiamato "la fescena", forse per la sua forma ogivale, a cono e terminante alla base con una maniglia appuntita. Questa specie di impugnatura favoriva la presa a terra da parte delle donne che assistevano alla raccolta, quando questi panieri erano calati attraverso funi, evitando al raccoglitore di salire e scendere le lunghe e scomode scale di legno. Queste pratiche e questi accorgimenti dimostrano quanto sia duro il lavoro di raccolta delle ciliegie e per tale motivo il costo al dettaglio delle drupe è sempre sostenuto, proprio perché incide notevolmente la manodopera che occorre per il faticoso raccolto.
Fino a pochi decenni fa, specie nei momenti di ristrettezze economiche, la ciliegia rappresentava un frutto desiderato (cannaruto), soprattutto da bambini, dai ragazzi e dalle giovani spose, al punto che queste, allo stato di partorienti, minacciavano l'aborto o la nascita di figli con vistose chiazze maculate di "voglie di ciliegie" sul loro corpicino, se non venisse assecondata l'innocente e sacrosanta voglia di cerase...! Desiderio che si riusciva sempre ad appagare, anche in pieno inverno, quando non era proprio il periodo di maturazione delle ciliegie... Quante volte si è consigliato al disperato sposo di recarsi senza dubbi, presso il rinomato fruttivendolo, che ancora oggi si trova al  Ponte di Tappia, nei pressi di via Toledo? Lì le ciliegie c'erano sempre, forse perchè provenienti dall'Australia o dalla California, ma all'epoca era una vera e propria primizia in assoluto, irripetibile in altri posti!
Un tempo si diceva ai ragazzi, intenti a tracotare chili di ciliegie rosse... "Gugliù, stateve attiente, ca ve vene nu panteche...!". 
Cari lettori, non mancate alla "Festa della ciliegia di Chiaiano"....!
Salvatore Fioretto
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente) 

giovedì 29 maggio 2014

A.D. 1679...e fu libertà...!!


La comunità di Piscinola ha scritto nei secoli scorsi delle belle pagine di storia, inneggianti alla libertà e all'indipendenza contro il dispotismo e la tirannia feudale. Uno dei momenti più alti di quest'elevarsi è stato rappresentato dalla lotta dei suoi abitanti contro la vendita del Casale di Piscinola ai baroni, paventata nel XVII secolo. 
Durante il periodo di Viceregno spagnolo, infatti, a causa delle ristrettezze economiche della Corona spagnola, sempre alle prese con estenuanti guerre e spese militari, fu presa la decisione di vendere i Casali. Decisione maturata formalmente nel dicembre del 1619. A nulla valsero le istanze presentate alla Regia Camera della Sommaria, dal Procuratore Francesco Tedaro, che appellandosi al privilegio concesso nel 1505 da Ferdinando “Il Cattolico”, domandò che non si mettessero in vendita i Casali.
Tra il 1620 ed il 1637 molti Casali furono venduti dal Viceré spagnolo ai baroni locali, suscitando vivaci proteste tra gli abitanti.
Il 15 giugno del 1637 gli abitanti dei Casali si sollevarono tutti uniti, in un’accesa protesa contro l’ordine del Viceré di Napoli, Don Ramiro de Guzman duca di Medina del Las Torres (al trono per conto del re Filppo IV di Spagna). Alla protesta parteciparono trentadue Casali, tra i quali Piscinola. Nonostante il tumulto, la Regia Camera della Sommaria, competente del Foro Feudale, non tenne alcun conto delle richieste e delle rimostranze dei Casali e quindi ratificò la decisione vicereale.
Molti Casali, per non cadere nelle mani dei baroni, furono costretti ad esercitare lo strumento dello “Ius Praelationis”, ossia la possibilità di ritornare allo status di “Regio Demanio” pagando alla Regia Camera, nell’arco di un anno, lo stesso prezzo di vendita offerto dai baroni. Non tutti i Casali riuscirono però a “riscattarsi”.
I Casali che si “riscattarono” passarono sotto lo stato di “Casale Autonomo”, detto anche “Communità” (ossia Comune) ed erano governati dall’assemblea delle famiglie, che poi regolavano i loro rapporti fiscali con il governo centrale, attraverso un Procuratore del Regno. Sappiamo per certo che nel 1637 il Casale di Piscinola si oppose al progetto del Viceré di vendere il Casale al principe di Cardito. In quel periodo Piscinola contava 129 nuclei familiari, ogni nucleo era chiamato “fuoco” e si componeva mediamente di 5 persone.
Intanto, nell’anno 1647, la città di Napoli fu chiamata a “donare” un milione di ducati richiesti dalla maestà cattolica, Filippo IV. La “Piazza della città” stabilì di applicare una gabella sulla farina, divisa in maniera diversa tra la Città e i Casali del Distretto. Per far fronte alla nuova gabella, i Casali dovevano sborsare 3 carlini a tomolo di farina, mentre la città di Napoli un solo carlino a tomolo.
Per il Casale di Piscinola la gabella fu valutata 1.822,75 ducati e fu anticipata con un prestito, dai signori Alessandro Brancaccio e Alfonso de Liguori (forse trisavolo di Sant’Alfonso), attraverso il patto “Quandocunque” (pagamento in qualunque tempo), in base alla propria disponibilità. A causa di questo debito contratto, il Casale di Piscinola ritornò ad essere a rischio di vendita.
Il problema della vendita dei Casali fu molto sentito dalla popolazione locale, fino al punto che, durante i moti del 1647, Masaniello impose nel trattato firmato con il Viceré Duca De Arcos (detto “Capitoli”), l’impegno di non vendere in futuro i Casali.
Al capitolo 43 si legge: “Item, che tutti li Casali di questa Fidelissima Città in ogni futuro tempo debbiano essere, e stare in demanio, non obstante qualsivoglia alineatione, vendita, o donatione in contrario fatta, le quali si declarano nulle, anche in conformità delle Gratie sopra ciò fatte per lo Serenissimo Re Cattolico, confermate per la Cesarea Maestà di Carlo V”.
Dopo la morte di Masaniello il problema si ripresentò, infatti in un documento datato 17 dicembre 1669 si ricava che il principe di Cardito arrivò a offrire ben 22 ducati per “fuoco”, “[...]senza le giurisdizioni delle eccellentissime Portolania e Cacia[...]” (termini usati per indicare i tributi sui passaggi e sui formaggi). Anche un certo “signore”, di nome Pisani, offrì un’alta cifra per l’acquisto di tutti i Casali messi in vendita, tra cui quelli di Piscinola e di Marianella.
Per la transazione di Piscinola furono offerti fino a 2875 ducati (rif. Consiglio Collaterale Consultarum, Vol. 10). La vendita di Piscinola e degli altri Casali, non ebbe però luogo. Nel 1678 le Università di Secondigliano, Casavatore, S. Pietro, Piscinola, Marianella, Barra, Soccavo fecero richiesta di restare nel Demanio, offrendo di pagare 25 ducati a “fuoco”. Alla fine si ebbero delle transazioni per ogni Casale. A conferma di ciò sappiamo, attraverso una “Consulta” dello stesso anno 1678, che i Casali sopra menzionati appartenevano ancora al Demanio (ASN Sommaria Consultationum Vol. 76 fl. 253 t.). 
Nel 1679 il Casale di Piscinola riuscì finalmente a “riscattarsi” ed a rimanere nel Regio-Demanio. Ecco quanto scriverà l’Avv. Rossi, due secoli dopo a tal proposito: “Nel 1679, il Casale di Piscinola per sottrarsi alla Jattura di essere venduto come le altre terre demaniali, e cadere sotto il giogo dei Baroni, pagò alla Regia Corte di Sua Maestà Cattolica Carlo II, la somma di duc. 3800, come da istrumento per Notar Paolo Giuseppe Russo in Napoli”.
Lo stato demaniale fu conservato anche con l'arrivo degli Austriaci e con il regno dei Borboni, quando Piscinola divenne Università e, poi, ancor oltre, con il Decurionato francese, istituito da Gioacchino Murat e, infine, con il Comune autonomo, fino al 1866.
(dal libro "Piscinola, la Terra del Salvatore", ed. Boopen, anno 2010).
 


Rievocazione storica di quest'avvenimento, eseguito durante il Maggio dei Monumenti "o_maggio a Piscinola", il 24 maggio 2014


Ecco il testo recitato da Maurizio DerSuchende durante il "Maggio dei monumenti 2014" di quest'anno, dal titolo '"O_maggio a Piscinola", in piazza G. B. Tafuri, testo che ho appositamente composto per la rievocazione scenica, rispettando però le tracce storiche.

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In nome della Cesarea Maestà Cattolica, Carlo II

Dei gratia Rex, ecc. ecc.

Per il presente Editto,

Ordiniamo et comandiamo,

che, da oggi in avanti,

lo Casale di Piscinola, che sta nel tenimento di questa 
fidelissima città di Napoli, resti, come in origine,

Casale Demaniale Regio, sotto la Juristitione ed
osservanza della Regia Camera della Sommaria,

con esenzione da ogni gabella et tributo,

secondo i Privilegi concessi da Sua Maestà Cattolica,

Carlo V, re di Spagna, nell’anno di grazia 1536.

La presente dispositione,

fa lo seguito al pagamento di riscatto,

stabilito in ducati 3800, a Noi presentato

dalli uomini di detto Casale di Piscinola

et raccolto con colletta pubblica, secondo lo

numero de li fuochi oggi presenti ne lo mentovato Casale.

Decché stabiliamo,

il beneficio perpetuo,

che non si debba più procedere a la vendita

de lo detto Casale di Piscinola,

in abolizione at quanto stabilito nella Prammatica

emanata dalla Regia Camera della Sommaria,

et come promulgato dal Regio Consiglio Collaterale

di questo Vicereame di Napoli.

Ordiniamo,

a li ufficiali et al governo di detta fidelissima

Città di Napoli, presenti et futuri,

di tenere particolar pensiero all’osservanza

del presente Editto et acciocché venga a notizia

di tutti li popolani et abitatori de lo detto Casale e che si pubblichi per li luoghi soliti.

In Napoli, nell’Anno di Grazia Domini 1679, allì 20 giugno

Fernando Joaquite Fajardo , Marchese Los Velez

Vicerè di Sua Maestà Cesarea, Carlo II, rege

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SALVATORE FIORETTO 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Recita di Maurizio DerSuchende, lettura del proclama dell'avvenuto riscatto