sabato 23 novembre 2013

Buon appetito... dai fratelli Sarnacchiaro...!! Di Luigi Sica



I fratelli Sarnacchiaro erano anche loro cantinieri, ma il locale era strutturato a modo di trattoria, nel primo c’era il bancone di mescita dei vini, una cucina in muratura e quello attiguo con grandi tavole da sei posti con tovaglie a quadroni rossi e blu. 
Dal primo locale cucina, si entrava in un minuscolo servizio e mediante tre soli scalini in un cortile all'aperto, interamente coperto da tralci di glicini posti negli angoli del vasto rettangolo. In primavera quei tralci formavano un pergolato così fitto che davano ombra ed era spettacolare, tanto per il colore delicato di viola chiaro quanto per il profumo emanato dai fiori
Era una trattoria rinomata nel borgo ed anche fuori, talvolta di domenica mattina dalla "Piedimonte" sortivano gruppi e famiglie d’avventori che chiedevano l’indicazione della trattoria Sarnacchiaro e noi subito indicavamo l’insegna della farmacia del dott. Chiarolanza, che confinava proprio con la trattoria. 
Ancora oggi che ci penso mi sembra una stranezza come in un villaggio così piccolo ci fossero tante osterie, perché oltre a Don Lorenzo e i fratelli Sarnacchiaro, c’erano ancora la trattoria dei Di Guida in via del Plebiscito e quella dei ‘Carmusine’ in via V. Emanuele.
Brindisi tra amici nel giardino della taverna Sarnacchiaro, foto anni '60
La specialità dei fratelli Sarnacchiaro era la minestra maritata che non descriverò (potete trovarla su Internet), il fritto di anguille, terrine di gnocchi con ragù e il fritto di paranza o all’italiana che comprendeva cervello di manzo, verdure in pastella (come i fiori di zucca ripieni di ricotta), panzarotti di patate, arancini e sartù di riso, la celebre ciambotta estiva, oltre al rinomato coniglio alla cacciatora, pollo fritto con patate o al forno, frittura di baccalà, o bucatini alla scarpariello, le "pizze di maccheroni" o di maltagliati con la salsa di pomodoro e infine l’impagabile e inarrivabile, "risotto con salsicce e friggiarelli", il fegato o il cuore con le cipolle e il sublime spaghetti aglio, olio, prezzemolo e peperoncino, che spesso comportavano una variante, succulenta e divina, con noci nostrane, acciughe in salamoia, pane grattugiato e aspersione di prezzemolo tritato freschissimo, appena colto dalle piantine. Quando cucinavano la minestra maritata, specie nei giorni di Pasqua, molte famiglie ordinavano e ritiravano minestra cotta con carne di pollo podolico, per sei, sette pozioni ed anche di più. Credo che qui avessimo una ricchezza, paragonabile a tanti agriturismi, un tesoro di conoscenze gastronomiche tradizionali, di cui conservo memoria e tuttora propongo ai miei commensali, come gli "spaghetti con le noci", che si rifletteva anche su un possibile indotto, penso anche al vino Fragola e di più al grande vino Per’e palumme, dagli acini leggermente ricurvi che qui era un vitigno spontaneo e del possibile incremento di un Asprino leggermente meno aspro di quello aversano.
Ebbi un barlume di speranza quando, tempo dopo, s’ipotizzò di portare a Piscinola una succursale della scuola alberghiera, poi confinata ad Agnano, navigai non poco con la fantasia, sulla possibilità di introdurre nei piani di studi, queste nostre specialità, così come accaduto con la cucina della costiera sorrentina o di quella puteolana e bacolese, che hanno cambiato con notevole successo la ristorazione nazionale e internazionale con l’apporto delle filiere tradizionali rivisitate in chiave meno grassa. Quest’opportunità di sagre locali, indette da associazioni di concerto con comuni e municipalità, volte alla promulgazione di un’autentica cucina contadina o povera, non è stata mai colta.
Ingresso della taverna: tra i personaggi, il mitico Ziki Baki
Vuoi per la tipica indolenza piscinolese ma soprattutto per l’idiota ignoranza dei nostri politici che non hanno saputo o voluto vedere, anche in queste semplici cose, l’occasione di un diverso possibile sviluppo economico e sociale di Piscinola.
Eppure bastava vedere cosa accadeva nelle plaghe della costiera sorrentina e flegrea in generale ed invece hanno perseverato nell’ignoranza, non credendoci sino in fondo, come sta accadendo nei paesi e piccoli centri dell’area aversana, avellinese e beneventana, dove la ripresa economica si sta realizzando anche mediante una fioritura d’impresa privata che investe in agriturismi ma soprattutto in cantine ristoranti a medio-basso costo, che propongono proprio la riscoperta della tradizionale cucina povera contadina, anche mediante la vendita di salumi, vini, formaggi e prodotti tipici d’artigianato, richiamano sia un turismo mordi e fuggi che stanziale, cose ormai entrate nel costume di molta popolazione nella cosiddetta era del tempo libero.  

Tratto da "Cantine storiche di Piscinola" – parte II, di Luigi Sica
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)
 
Banchetto nel giardino della taverna Sarnarchiaro, foto fine anni '60

giovedì 21 novembre 2013

Angolo poetico del venerdì: Lino... uno di noi!

'Lino uno di noi': una giornata per non dimenticare!

L'angolo poetico di questo venerdì è dedicato a un "angelo" che ha frequentato questi luoghi, volato ingiustamente al cielo nell'ottobre del 2012...
Martedì 15 Ottobre, il territorio di Piscinola e di Marianella lo ha voluto ricordare nel primo anniversario della tragica morte, si chiamava Pasquale Romano, un ragazzo come tanti, un innocente ucciso per errore per mano della camorra. 
La cerimonia si è svolta al teatro TAN di Piscinola, con il patrocinio del Comune di Napoli. 
Nel corso dell'evento è stato proiettato un corto realizzato dai ragazzi del gruppo "Marianella NewTrack", con la regia di Dario De Simone. La musica ha fatto da sottofondo ad una parte della proiezione. 
Salvatore Fioretto


lunedì 18 novembre 2013

L'antica circumvallazione borbonica..., la via Santa Maria a Cubito...!

L'attuale strada provinciale, denominata via Santa Maria a Cubito, fu progettata ed ultimata per interessamento dei sovrani Borbonici. Venne però inaugurata nel 1861, quando ormai era già stata proclamata l'Unità d'Italia. L'arteria provinciale allora misurava 30 Km ed aveva quaranta ponti.  
Secondo alcuni scrittori, come lo studioso Domenico Chianese (autore dell'opera: "I Casali antichi di Napoli") e ancora altri autori (*), la denominazione della strada sarebbe stata ispirata dal nome della chiesetta di campagna che fu edificata nel XIV secolo, nel territorio giuglianese-aversano. Infatti, secondo queste testimonianze, il nome di Santa Maria a Cubito (nome dato inizialmente alla chiesetta e poi esteso alla strada) è strettamente correlato ad un episodio alquanto leggendario, che sarebbe accadduto durante una battuta reale di caccia, che si svolgeva in quella zona, quando al sovrano di Napoli, Carlo II d'Angiò, fu annunciata l'avvenuta canonizzazione di suo zio, Ludovico d'Angiò, morto una trentina di anni prima (Ludovico fu erede designato al trono di Napoli e rinunciò in favore del fratello Roberto d'Angiò, detto "il Saggio"). Il Santo mori a ventitré anni, nel 1297 e fu canonizzato col nome di san Ludovico d'Angiò o di Tolosa.
(*) "Archivio Storico Campano" di Angelo Broccoli, 1894, volume 2, Parte III
All'apprendere la gaudiosa notizia, il sovrano scese da cavallo, si inginocchiò e baciò la terra: quindi il significato del termine "A Cubito" ("CUBAVIT SE"), significherebbe: inginocchiato, prostato a terra! All'inizio di questa imponente opera ottocentesca, nella zona di Capodimonte (alla derivazione con Via Miano), fu posta una lapide che esiste tutt'oggi, che riporta la seguente scritta: 
VIAM HEINC AD MONTEM USQUE DRAGONIS 
PAR MILLE PASS - XXV CUM TRIENTE 
ET CASCANUM APUD SESSAM
PER XXX PASSUUM MILLIA
STRATAM ABSOLUTAMQUE ANNO MDCCCLXI
VIATOR VIDES
QUAE
PONTIBUS ARCUATIS XXXX INTERIECTIS
COMMODO PUB INSIGNI
VIAS VIII COMMUNES APTE SECAT
PARS OPERIS COSPICUA
AQUOR COERCITIONES ALVEI
NFER – VOLTURNI
QUAE SUBIECTIANTE AEQUORA CAMPI
LATE PASSUM DABANT


Il significato della scritta riportata sulla lapide è pressappoco questo: "Questa strada che va da Capodimonte fino a Mondragone, per una lunghezza di circa 25 Km, raggiunge la località di Cascano, presso la città di Sessa Aurunca.
Per 30 miglia è una strada perfettamente completa e lastricata, è stata completata nell’anno 1861.
Il ponte nuovo di San Rocco
Caro Viandante, osserva che furono edificati 40 ponti ad arco, posti ad intervalli per adattare il territorio attraversato e per farne un percorso di utilizzo pubblico, sono stati uniti otto Comuni, attraversandoli utilmente per un considerevole tratto.
Sono state incanalate le acque del tratto inferiore del fiume Volturno, trasformando quei terreni acquitrinosi in una fertile pianura".

La strada continua ad assolvere egregiamente, ancora oggi, la sua funzione originaria, ossia è una delle piu importanti direttrici che collegano il capoluogo partenopeo alla sua provincia. Lungo il suo sviluppo, nella parte napoletana, s'incontrano, nei primi 5-7 chilometri, ben 2 quartieri della VIII Municipalità, assieme alle loro note località: San Rocco, Frullone, Marianella e Chiaiano. Il primo tratto è denominato Via Emilio Scaglione.
Lapide stradale e deposito dei trasporti cittadini, detto "Garittone"
Architettonicamente imponente, il ponte chiamato di San Rocco Nuovo, è il primo ponte che s'incontra e fu costruito per scavalcare il lussureggiante Vallone San Rocco. Curioso è il sovrappasso sulla cava di Chiaiano (fino a pochi anni fa si poteva ancora vedere l'occhiolo di areazione della sottostante cava di tufo) e, poi, il già ricordato ponte di Chiaiano, che fu salvato dai partigiani nelle Quattro Giornate di Napoli. Da non dimenticare lo sconosciuto ponte di Marianella, del quale bisogna ancora approfondire la sua evoluzione storica.
Alla fine del '800 fu realizzata la linea a vapore delle Tramvie del Nord, poi elettrificate e divenute Tranvie di Capodimonte (vedi post dedicato ai tram).
Qualche decennio dopo l'inaugurazione furono realizzate importanti assi viari di collegamento ai quartieri attraversati, come Corso Marianella, Corso Chiaiano, Via G. A. Campano e Via Napoli a Mugnano. Nel Giubileo del 1925, all'incrocio con il corso Marianella, fu inaugurato il monumento dedicato a S. Alfonso dei Liguori.
Veduta di villa Flagella dal Ponte Nuovo di San Rocco

Nel 1996 è stata inaugurata la stazione sopraelevata della metropolitana collinare, di "Chiaiano-Marianella", che è forse la più trafficata stazione della linea metropolitana cittadina, dotata di ben due parcheggi di interscambio e una fermata in banchina degli autobus in transito.
Oltre il confine della città di Napoli, la strada provinciale interseca molti popolosi comuni del suo hinterland: Mugnano, Marano, Calvizzano e Qualiano, per poi proseguire, come indica la targa, verso il litorale domizio.
Su questa strada esistevano in passato diverse taverne, come l'antica "Taverna del portone", famosa per l'avvenuta cattura del temuto brigante (ex tenente borbonico) Antonio Cerullo. Le taverne furono qui costruite per sfruttare il sostenuto traffico quotidiano di mercanti e viaggiatori, infatti si permetteva il cambio dei cavalli, la sosta per un pranzo frugale o il riposo.
Salvatore Fioretto

La strada provinciale vista dal satellite
 
NB: Alcune foto riportate in questo post sono state liberamente ricavate da alcuni siti web, ove erano pubblicate. Esse sono state inserite in questa pagina di storia della città, unicamente per la libera divulgazione della cultura, senza alcun secondo fine o scopo di lucro.


sabato 16 novembre 2013

Vincenzo Aruta, detto "'o pazzariello", uno spirito geniale...!


Vincenzo Aruta, durante una pausa pranzo di lavoro

Non era proprio un giovanotto di primo pelo nonno Vincenzo Aruta ‘o pazzariello quando fu costretto a partire per la maledetta guerra del ’15/’18: aveva già una moglie, la bella Michela, e una figlia, Angela. L’ultimo anno di quella terribile guerra portò la vittoria dell’Italia ma anche un terribile flagello: l’epidemia di un’influenza mortale, la Spagnola, diffusa in Europa dalle truppe americane. E fu così che, quando ritornò dal fronte, a nonno Vincenzo successe quello che viene descritto in una famosa canzone napoletana: “Nennella toia è morta e sta atterrata”; la giovane moglie era morta, lasciando orfana la piccola Angela. 
La preoccupazione più grande del nonno, distrutto dal dolore, era per la figlioletta: come badare a lei? A chi affidarla durante le lunghe ore di lavoro sui cantieri? Una matrigna non l’ avrebbe trattata male? Fu per questo che amici e parenti gli consigliarono di sposare la sorella della moglie defunta, la diciottenne Anna, detta Nanninella. La giovane cognata non aveva il giudizio e la bellezza della sorella ma possedeva una grande qualità: era la bontà fatta persona, e fu soprattutto questa qualità, che la caratterizzò fino alla morte, a far decidere nonno Vincenzo per il sì.  Il connubio fu saldo, anche se sembrò sempre stranamente assortito: il nonno era un bell’uomo e, soprattutto, era dotato di uno spirito geniale, tanto da diventare uno degli uomini più popolari e amati di Piscinola; la nonna, invece, visse nella sua ombra, dandogli altri nove figli (di cui due, frutto di un parto gemellare, morirono in culla) e, molte volte, nella sua mitezza, subì sorridendo gli scherzi del marito, come quando le fece credere che un cocchiere avesse agganciato, con la sua frusta, la coda di un aeroplano che aveva sollevato fino al cielo carro, cavallo e cocchiere. 
Il pazzariello abitava, con la numerosa famiglia, in un vecchio palazzo situato in via Vittorio Emanuele, tra la sede dell’associazione del Sacramento e la macelleria di Chianculone e, dal balcone della casa, risuonavano spesso in strada le vivaci battute che si scambiavano i genitori, le sei figlie e i due figli minori. Nonno Vincenzo era un abilissimo carpentiere e, grazie alla sua bravura, nel periodo tra le due guerre, il lavoro non gli mancò; anzi, spesso fu chiamato alla realizzazione di importanti opere, anche in altre regioni d’Italia; ma quello che lo rese indimenticabile non fu tanto la sua fama di grande lavoratore quanto quella di animatore nelle più importanti manifestazioni e nelle varie circostanze della vita di quartiere. “Ieri ho chiesto a mia figlia Angela di accorciarmi i pantaloni”, raccontava in tram agli amici, mentre si recavano al lavoro ” Mi ha detto che non poteva perché aveva da fare. Allora l’ho chiesto a Maria, poi a Michela, a Vera, a Pasqualina, a Salva, ma mi hanno dato tutte la stessa risposta. Sono uscito di casa molto dispiaciuto. Poi, le mie figlie, pentite, hanno cambiato idea e, così, senza dirlo alle altre, ognuna di loro mi ha accorciato i pantaloni…e stammatina, invec’e nu cazone, me so’ truvato na mutanda!”; e qui, la gente, che aveva fatto capannello intorno a lui, si spanciava dalle risate; come pure quando tirava fuori dalla tasca una camicina da neonato e vi si soffiava il naso, fingendo che le figlie gliel’ avessero data per errore invece del fazzoletto; o quando iniziava a grattarsi dalla testa ai piedi nel tram affollato, facendo spazio intorno a sé perché chi non lo conosceva bene lo credeva infestato da pulci e pidocchi. 
La famiglia Aruta. Vincenzo Aruta è il primo a destra
Nonno Vincenzo era amante della vita, delle belle donne e del buon vino e non si sottraeva mai agli inviti della collettività piscinolese quando c’era bisogno di un animatore dotato di carattere e di umorismo; il “contranome” che avrebbe, da lui in poi, contraddistinto la sua famiglia fu ‘o pazzariello proprio perché non disdegnò di andare in giro, bardato di tutto punto, a pubblicizzare i nuovi esercizi con delle trovate irresistibili; né mancò mai al suo compito di banditore d’asta, condotto al palco in sella ad un asinello e scortato dalla banda, nel corso della festa del SS. Salvatore; in quelle occasioni, si trasformava in un vero e proprio showman e la folla dei Piscinolesi, anche di quelli più severi, si sganasciava dalle risate; nel corso di una di queste aste, ad esempio, nel presentare alla folla un enorme reggiseno donato da una merceria, lo fece passare come appartenente a Maria, la più prosperosa delle sue belle figlie; inutile dire che le offerte per quel capo di biancheria salirono alle stelle, fra il divertimento generale. 
Poi, purtroppo, nel 1940 arrivò in Italia una nuova terribile guerra e le cose cominciarono ad andar male un po’ per tutti, specialmente per chi lavorava nel campo dell’edilizia perché, ormai, le case non si costruivano, anzi venivano distrutte dalle bombe. Per nonno Vincenzo e per la numerosa famiglia cominciarono tempi molto duri; come in tutte le famiglie in quel triste periodo, furono i giovani a doversi arrangiare come potevano; la fame dilagò e finirono le feste e l’allegria. 
Nel dopoguerra, la patologia cardiaca, di cui nonno Vincenzo soffriva, si aggravò e non gli permise più di condurre la vita di prima. 
Quando, all’inizio degli anni ’50, quest’ uomo indimenticabile morì, al suo funerale partecipò tutto il quartiere, tributandogli un omaggio di lacrime e di affetto. 
Io non ho avuto il piacere di conoscere nonno Vincenzo perché scomparve poco dopo la mia nascita ma vive in me attraverso le infinite leggende che mi sono state raccontate da amici e parenti e attraverso l’eredità, del suo folle e geniale umorismo lasciata ai figli, specialmente a Raffaele, Vera e Tonino, e alla schiera dei nipoti a cui ho l’onore di appartenere.
AnnaMaria Montesano
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)
  


giovedì 14 novembre 2013

Angolo poetico del venerdì: "Virtus Piscinola, basket ma... non solo"

Sabato prossimo sarà presentato il bel libro di Giuseppe De Rosa, dedicato alla storia della Virtus: squadra di basket, fondata a Piscinola nel 1945.
La rubrica de "L'angolo poetico del Venerdì" vuole omaggiare il libro che sarà presentato e la bella pagina di storia di Piscinola, che è la Virtus; realtà sportiva del quartiere che ha visto impegnati, per quasi 70 anni, tanti giovani piscinolesi, tutti accomunati dalla stessa passione per lo sport. 
Rimandiamo, tuttavia, a un prossimo post la trattazione storica di questa importante realtà culturale e sportiva di Piscinola.

Il libro di Giuseppe De Rosa, dal titolo "Virtus Piscinola, basket ma... non solo", sarà presentato sabato 16 novembre, ore 18:30, presso i locali del campo sportivo: "Don Domenico Severino", sito in via Nuova Dietro La Vigna - Piscinola. 
Non mancate!
Salvatore Fioretto


lunedì 11 novembre 2013

I gigli di Piscinola... una gioventù calpestata dalla guerra!

Oggi pochi ricordano, ma il quartiere di Piscinola ha pagato un tributo salato in termini di perdite di giovani vite, a causa e in dipendenza dell'ultima guerra mondiale. Direttamente o indirettamente decine di ragazzi hanno perso la vita o hanno subito gravi ferite, a causa di ordigni bellici esplosi accidentalmente, ma anche per errore o per volontà umana! 
Purtroppo, per la maggior parte di questi racconti, si tratta di episodi appurati solo attraverso alcune testimonianze orali, raccolte dagli anziani del territorio, che devono essere confermate con fonti e testimonianze documentate.
In via Vecchia Miano, poco dopo l'8 del settembre del 1943, tre ragazzini giocavano spensierati nel cortile antistante la strada comunale, quando qualcuno trovò delle bombe a mano tedesche, che divennero oggetto dei loro giochi innocenti e spensierati.... Purtroppo un bimbo strappò a sua insaputa la spoletta di un ordigno e saltarono tutti in aria, a causa del grande scoppio. Un bambino morì sul colpo, mentre un altro, gravemente ferito, morì poco dopo il ricovero in ospedale. Un terzo bambino sopravvisse perdendo un occhio.
Altro episodio analogo, ben più grave, avvenne nei pressi di Via Plebiscito, e qui, secondo le testimonianze, non poco contraddittorie, i bambini morti furono almeno una decina, di cui una bambina che si stava preparando per ricevere la prima comunione. La camera ardente fu allestita nella scuola T. Tasso, la bimba fu vestita col suo vestitino bianco. L'episodio cruento sarebbe avvenuto il 14 gennaio 1944.
Un fratello appena trentenne del sacerdote don Gennarino Musella fu ucciso in piazza B. Tafuri da una raffica di mitraglia tedesca, perchè pare che la sua permanenza indisturbata in piazza, allo sfilare di una pattuglia di perlustrazione, sarebbe stata considerata dai gendarmi tedeschi sospetta e, così, preferirono falciarlo, senza nemmeno fermarlo ed interrogarlo.
In prossimità della località Cancello, vicino ai binari della ferrovia Napoli-Piedimonte d'Alife, un ragazzino sarebbe stato fucilato per errore, perché scambiato per una spia.

Nella località di via Cupa Perillo (detta 'o Saglio e scinno"), la giovane e innocente Giuseppina Bianco, abitante in una masseria di Piscinola, divenne purtroppo oggetto di attrazione morbosa per un soldato di colore (forse marocchino delle truppe di liberazione), il quale con la forza delle armi tentò di abusare della ragazza, mentre era intenta a raccogliere il grano nei campi, assieme alla madre e il fratellino. La giovane tentò di scappare, ma il soldato, irritato e forse ubriaco, non esitò a spararle alla schiena, mortalmente. Giuseppina spirò tra le braccia della madre, nella cappellina della masseria vicina; perdonò il suo assassino... raccomandandosi alla Vergine di Pompei! 
L'episodio destò sconcerto tra gli abitanti di Piscinola e dintorni, tanto che le cronache raccontano dell'imponente funerale celebrato nella chiesa del SS. Salvatore, con grande partecipazione popolare e la messa funebre officiata dall'arcivescovo di Napoli, card. Alessio Ascalesi. Non è dato di sapere se il soldato assassino fu arrestato e processato. In ricordo di questa ragazzina, che oggi riposa tra i giardini del cimitero di Miano, è stata eretta una stele monumentale e dedicata una stradina, in prossimità di Via Aldo Moro (strada che si sviluppa a confine, tra l'attuale quartiere di Scampia e il  comune di Mugnano) ed è stato avviato il processo di beatificazione.
Abbiamo più volte sollecitato gli amministratori preposti, anche se verbalmente, di intitolare un giardino di Piscinola in memoria di tutti questi ragazzi vittime di una guerra non loro; come ad esempio l'area verde che si trova in Via Vecchia Miano, luogo dove avvenne il primo incidente raccontato, che non risulta avere ancora una denominazione nella toponomastica cittadina. Sarebbe bello che d'ora in avanti fosse intitolato: "Giardini dei Gigli di Piscinola", in memoria di questi sfortunati bambini, vittime della guerra. 
Uno spazio del quartiere andrebbe dedicato anche alla sua martire: Giuseppina Bianco.
Non disperiamo!
Chiediamo a quei lettori a conoscenza e in possesso di altre testimonianze fondate su questi episodi e su altri casi analoghi, ma dimenticati, di farcene trasmissione, affinché si possa approfondire lo studio e si possa trasmettere la loro memoria in futuro.
Salvatore Fioretto
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Ringraziamo l'amico Pasquale di Fenzo per la gentile collaborazione.

venerdì 8 novembre 2013

Don Lurenzo e Giusuppina... tra cantina e taverna!



Don Lurenzo e Giusuppina: erano fratello e sorella in arte cantinieri, vinai, che conducevano la loro cantina vendendo vino sfuso e preparando pranzi e cene a menù fisso.
Dapprincipio sul banco c’erano capienti "pizzipaperi" in terracotta smaltata poi sostituiti con contenitori di zinco da cinque litri con collo a becco, che riempivano direttamente dalle botti nel piano interrato, distinti per qualità: Sansevero rosso di Puglia, Gragnano, Terzigno, Guardiolo di Benevento, Zibibbo e vini di Sicilia che arrivavano in damigiane da 54 litri.
Vino che secondo le richieste, versavano nelle misure in vetro da 1 litro, mezzo litro e un quarto, inoltre vendevano birre in vetro, gazzose, aranciate, Coca-Cola e, poi bottiglie da un litro di "Spuma Rosa", una bevanda che ebbe un notevole quanto effimero successo, come il gelato SOAVE.
Sul bancone c’era una botticella di creta smaltata con piccolo rubinetto "Amaro Alpino" che recava impressa, su un lato, una bella ma curiosa e sconosciuta, a noi meridionali, stella alpina che in seguito seppi era il fiore dell’edelweiss dai petali lanosi, da dove mescevano minuscole prese d’amaro su richiesta dei clienti.
In seguito adottarono un più igienico impianto a fontanelle che succhiava vino direttamente dalle citate botti per riempire le bottiglie, ma la botticella con la stella alpina rimase sempre in bella vista sul bancone mentre i vecchi "pizzipaperi" messi a lucido da Zichi Baki (conosciuto stagnaro abitante in Abbascio Miano), andarono a rimpinguare la batteria di pentole in rame stagnato che campeggiava sulla retrostante cucina piastrellata, caratterizzando e rendendo antico e familiarmente piacevole l’intero ambiente, con i tavoli lunghi a otto posti, le sedie con gli schienali e sedili di paglia intrecciata e le immancabili tovaglie e salviette a quadroni rossi, bianche e blu e alcune mensole dove si esponevano fiaschi impagliati di vino rosso e bianco: i rossi del Chianti, la Valpolicella veneta, il rinomato Montepulciano, il bianco Est Est Est di Montefiascone, il Verdicchio di Jesi, i rossi e bianchi siculi della casa Regaleali, i Corvo di Salaparuta, i Pinot e tante bottiglie di Vermouth bianco e rosso, di Marsala all’uovo, qualche bottiglia di Strega e alcune di rosolio di anice e di liquore alla fragola.
I due germani si alternavano nella vendita, ma più spesso donna Giusuppina era affaccendata ai fornelli per quegli avventori che desideravano pranzare o cenare.


Tratto da "Cantine storiche di Piscinola" – parte I, di Luigi Sica
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Piazza del Municipio a Piscinola e al centro la storica cantina e taverna - cartolina anni '40 circa