sabato 2 novembre 2013

Miniello... Il ricordo di un eroe silenzioso! di A.M. Montesano



In questi giorni, in cui si parla con giusto orgoglio delle quattro giornate di Napoli, mi balza alla mente il ricordo di una famiglia fieramente antifascista: quella di Carmine Cascella. 
Ho conosciuto questo signore, chiamato Miniello, negli anni ’50, quando ero piccolissima e lui, ormai, alla fine della sua vita. Mi ricordo di un vecchietto piccolo, curvo e fragile; eppure, Miniello era stato uno dei più fulgidi esempi di antifascismo. Proprietario di un accorsato negozio di barbiere, nel corso del ventennio fascista fu continuamente bersagliato dalle rappresaglie delle camicie nere: quando tutti chinavano la testa e, pur di lavorare, si piegavano ad attaccare sulla giacca l’emblema dell’odiato dittatore, quel piccolo uomo resistette all’incendio del negozio, alla miseria che ne seguì e a tutto l’olio di ricino che fu costretto a ingurgitare. 
Discreto ed equo nei suoi giudizi, sopportò in un dignitoso silenzio tutte le angherie ed ebbe parole di sereno conforto anche nei confronti di chi, suo malgrado, era costretto ad accompagnare al confino i dissidenti politici. 
Quando fu possibile, Miniello riprese la sua attività in un nuovo negozio situato in via Vittorio Emanuele, poco dopo il largo don Carlo, dove, ormai provato e stanco, fu affiancato dai figli Antonio(Totonno) e Paolo(Pauluccio). 
Don Carmine trasmise la sua passione politica a tutta la famiglia: oltre che a Paolo e a Totonno, diventato poi uno dei più conosciuti parrucchieri di Piscinola, alla moglie Lucia, una casalinga riservata e sempre intenta al benessere della famiglia, ai figli Maria(Marittina), Flora, Salvatore e Gigi. Fra questa famiglia, che abitava nel mio stesso palazzo in via Vittorio Emanuele, e la mia a volte si accendevano appassionate discussioni ma non nacquero mai screzi; anzi, fra noi, ci furono sempre  un grande affetto, rispetto reciproco e collaborazione. 
Ecco, io credo che anche di questi uomini si debba parlare, oltre che di quelli che hanno combattuto sulle barricate, di questi eroi silenziosi che non hanno rinnegato la propria fede, nonostante le violenze subite, credendo, fino alla morte, in un ideale di pace e di uguaglianza.
AnnaMaria Montesano
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Scorcio dell'antico "Cape 'e Coppa" a Piscinola, anno 1978 (via V. Emanuele)
                                                                    

giovedì 31 ottobre 2013

Angolo poetico del venerdì: Don Carlucciello... mio padre! - scritto da A. Cascella


A proposito dell'angolo poetico del venerdì, con grande piacere, per l'opportunità di avere questo spazio, desidero pubblicare la poesia, da me arrangiata da una nota poesia di Roberto Benigni dedicata a Massimo Troisi, che scrissi per descrivere mio padre Carlo Cascella (detto mastu Carlucciello), duranti i lunghi e sofferti 17 giorni di terapia intesiva, prima della sua dipartita. 
Papà era molto noto a Piscinola e mi ha lasciato grandi insegnamenti, attraverso l'esempio, il suo modo di vivere e la sua condotta.                                                                   
                                                                                     Anna Cascella
 
Don Carlucciello... mio padre!
(A mio padre, Carlo Cascella)

Non sempre sapevo cosa teneva "dint'a capa", 
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un mastu Carlo, non se ne fa un altro.
Morto Carlucciello muore l’armonia
nascosta in qualsiasi dolce canzuncella,
che parla ‘e Napule, ‘o Vesuvio e Pullecenella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di "fuje 'a lloco", "jamme belle", "statte sora",
"’e nuosto", "isd-isd", "vuò balla’ nu tango", "azz’!".
Era come parlare col Vesuvio,
era come ascoltare del buon Jazz.
"...Non facciamolo sedere al primo banco!",
urlavano le dotte camicie nere,
"...Questo Cascella non deve capire,
tanto più che all’ultimo banco non vere quasi niente!".
E, invece, anche se solo qualche anno dopo,
riesce pure 'a studià!
Con lui ho capito tutta la bellezza della vita: 

l’amore per il partner, i figli, la famiglia e Dio,
la passione nel sostenere le proprie idee,
l’importanza di coltivare le proprie passioni,
la dignità del proprio lavoro, l’onestà,
l’amore e il rispetto per la natura,
l’importanza di aiutare chi ha più bisogno di noi,
la cura della propria persona e del vestire,
la pazienza e la capacità di gestire i momenti difficili della vita,
e tante, ma tante altre cose
e non m'ha mai parlato di altrui teorie,
e non m'ha mai raccontato altre storie.

O Papà mio, io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
e ti porterò sempre nel mio cuore
e mai mi stancherò di parlare di te
ai miei figli, ai miei nipoti e
a tutti quelli che vorranno sentir parlare di Te !!!!

Con profondo Amore
Tua figlia Anna (da Te detta Annarella)

giovedì 24 ottobre 2013

... ma il "Mare Verde" di Marotta potrebbe essere piscinolese...!? Di P. Di Fenzo



Lo scrittore e giornalista Giuseppe Marotta
Mare Verde" è una canzone musicata dal Maestro Salvatore Mazzocco, ma non tutti sanno che i versi furono scritti da Giuseppe Marotta, l'autore de "L'oro di Napoli". Don Peppino Marotta scriveva canzoni per diletto, come attività secondaria, ma in realtà teneva moltissimo ai suoi testi musicali, tanto che, come è riportato nella sua biografia a cura di Vittorio Paliotti, Don Peppino fu protagonista di un episodio alquanto insolito per un uomo mite come lui. Si era nel 1961, quando questa canzone, cui teneva particolarmente, interpretata da Mario Trevi e Milva, fu cantata al "Giugno della canzone Napoletana", importante manifestazione canora, che quell'anno sostituì il Festival di Napoli. Ebbene, la canzone si classificò seconda perché un giurato le assegnò un voto bassissimo, mentre, col massimo dei voti, spianò la vittoria a "Credere", una modesta esecuzione dalla stessa Milva e Nunzio Gallo, di cui si sono perse completamente le tracce. Marotta si recò in Galleria, passò, forse apposta, al bar dove era solito intrattenersi quel giurato, il quale vedendolo esclamò: "Don Peppino bello, cosa posso offrire?". "Oggi offro io!" rispose lo scrittore e gli scaricò tanti di quei paccheri, che ...glielo dovettero togliere da sotto...!  Un'altra attività secondaria di Marotta era la critica cinematografica. 
Pubblicò un libro dal titolo "Di riffe o di raffe", tipica e intraducibile espressione napoletana, che raccoglieva le sue recensioni cinematografiche. Articoli riferiti a film, a volte pessimi, ma che costituivano solo lo spunto per permettere a Marotta di raccontare i "fattarielli" della sua Napoli, come ben seppe fare poi in seguito anche Luciano De Crescenzo col suo Prof. Bellavista. Era conosciuto dalle maschere di tutti i migliori cinema di Napoli, quel signore che si sedeva nelle ultime file, e scriveva con una strana penna, formata da due parti, la penna e vera propria e la parte superiore, che montava una piccola torcia a pila, che gli permetteva di prendere appunti nel buio della sala, mentre seguiva il film. 
Io quella penna l'ho vista...!! 
O almeno credo di averla vista. Allora pensai che fosse una sorta di arma impropria, come una canna di pistola sormontata da una specie di mirino, che fuoriusciva dal taschino di una giacca.
Ricordatevi questo particolare...! 
Lo scrittore Giuseppe Marotta
Ci sono documenti dell'epoca, che dimostrano che all'inizio del secolo scorso, il proprietario terriero, l’avvocato Don Mimì Del Forno, chiese alle autorità il marchio di origine per un prodotto autoctono di assoluta unicità. Oggi si direbbe DOC: le Perzeche di "'Ndonio 'o Riccio", come le chiamavano... Pesche enormi, vellutate al tatto. Turgide e generose, invitanti come un seno di nutrice (espressione Marottiana). 
Il fondo di don Mimì Del Forno era coltivato da mio zio, che chiamavo zio Peppe, e spesso da piccoli frequentavamo.
Don Mimì Del Forno, che tutti chiamavamo "'O signore", era solito accompagnarsi nella tenuta di Piscinola con alcuni amici ed amiche, tutte bellissime, che sfoggiavano eleganti vestiti e cappellini fatti con stoffe ricercate che abbagliavano letteralmente le mie cugine. Io e Carminiello eravamo più abbagliati dalle signorine. Gli uomini avevano sempre nomignoli vezzeggiativi, un po’ come il “Barone degli Ulivi” di Totò, in "Signori si nasce", che si faceva chiamare Zazzà.
Un vezzo dell'epoca per i nobili: venivano sempre in calesse. Oltre a Don Mimì, mi ricordo un don Ciccio e un don Alfò. E c'era anche un Don Peppino... Era quello che mi incuriosiva di più, perché portava sempre con sè uno strano oggetto, come una canna di pistola col mirino che fuoriusciva dal taschino della sua giacca. Ve la ricordate quella strana penna che Marotta usava nel buio delle sale cinematografiche…!?
Doveva, o poteva essere, lo stesso oggetto.
Giuseppe Marotta con il cantante Aurelio Fierro
Perché, per me, si trattava di Giuseppe Marotta, che non era nobile, ma amava accompagnarsi coi nobili, i quali erano onorati della sua amicizia. Una frase tratta da una sua opera, potrebbe rivelarsi chiarificatrice: "Mi rendo conto oggi, solo oggi, che il destino, o chi per esso, tollera i ricchi, ma li adopera come ingenui strumenti, li obbliga a non turbare l'ingiustizia e l'inimicizia universali", oppure, forse ricordandosi della fame e la miseria patite da ragazzo, orfano di padre, cresciuto con la sorella Ada e la poverissima mamma, per esorcizzare e allontanare i guai, soleva dire: "Avete malattie, corna, pene di qualsiasi genere? Per carità, tenetevele!".
Giuseppe Marotta, benché nato a Capodimonte, aveva vissuto la sua infanzia in Via Materdei, dove tornava spesso a trovare i sui amici di una volta, tra cui alcuni erano nobili. Coincidenza vuole che il palazzo della famiglia Del Forno, ubicato tuttora tra piazzetta Materdei e Via S. Gennaro a Materdei, era vicinissimo alla povera abitazione di Marotta. Potrebbe trattarsi di un'amicizia d'infanzia, di quelle che durano nel tempo. Vorrà dire qualcosa? Per me si.
Portale di ingresso al tenimento della famiglia Del Forno a Piscinola
Il biografo postumo dello scrittore, il Prof. Vittorio Paliotti sostiene che la canzone "Mare Verde" fosse stata ispirata a Marotta dalla vista del prato dello stadio S. Paolo di Napoli. Benché io consideri quello stadio come il tempio in cui sono state officiate le gesta del più grande giocatore di tutti i tempi…, mi permetto, molto sommessamente, di dissentire. Marotta in tutta la sua vastissima bibliografia non ha mai, dico mai, accennato a un evento sportivo. Forse non era neanche tifoso di calcio. Era nota la sua proverbiale pigrizia. Mi chiedo come può il terreno di uno stadio di calcio ispirare versi come: "Nun è campagna è mare, mare verde, nu golfo d'erba, na scugliera e fronne, ca luntano se perde sott'o cielo d'està"? Chiudete gli occhi... un po' di fantasia... e potreste rivedere la Scampia che fu... 
Chissà se durante quelle passeggiate in calesse con i suoi nobili amici, non avesse conosciuto una giovane e bionda contadina a cui dedicare: "L'ombra te veste, ma te spoglia 'o sole, si' d'oro comm'o grano...". Poi continuava con: "Dorme nu bosco e canta na surgente, sisca nu treno sott'a na muntagna, va sbarianno c'o viento, na palomma cà e la". Se si trovava al S. Paolo, quella farfalla doveva essere scappata da un'altra canzone, magari di Dorelli: "vola la farfalla impazzita oh oh...". Il treno era chiaramente la "Piedimonte", di cui parleremo più in là e le montagne, senza i palazzoni attuali, erano le colline del casertano che si intravedevano all'orizzonte. 
E la sorgente? Non era una licenza poetica: c'era anche quella! I piscinolesi erano ingegnosi. Le strette stradine del paese, lastricate di basoli lavici, erano tutte in pendenza: 'Ncopp 'o monte, era via Madonna delle Grazie, 'O Cap 'e coppa, via Vittorio Emanuele, Abbascio Miano era Via Napoli, i vicoli primo e secondo Plebiscito erano le due "Venelle" di  'O Cap 'a Chianca, Via G. A. Campano era 'Ncopp 'a Vianova 'e Chiaiano. Areta Vigna oggi è storpiata in Via Dietro la Vigna, che anche i documenti ufficiali confondono ancora con una inesistente Via Pier delle Vigne. Le acque piovane raccolte lungo queste strade, tutte in pendenza, confluivano Abbascio all'Acquarone, e da qui immesse in una grandissima vasca detta piscina, da cui Piscinola, ubicata al centro del paese.
Palazzo della famiglia Del Forno, a Materdei

Altra località era detta Piscinella, evidentemente sede di piscine più piccole. Ma tutte queste vasche erano collegate tra loro da canali che gli stessi contadini provvedevano a costruire e deviare alla bisogna. Non avevano niente da invidiare ai famosi Regi Lagni Borbonici, erano solo di dimensioni più ridotte, ma altrettanto utili ed efficaci. Ma, mentre la costruzione dei Regi Lagni era costata ingentissimi capitali ai Borboni, qua le cose si facevano in economia, con l'ausilio di qualche vanga, zappa o marazzola. Senza ingegneri, ma con ingegno, avevano sempre a disposizione l'acqua per rendere ancora più fertile questa già fertilissima terra. I campi si potevano allagare anche quando non pioveva, formando rigagnoli con rane e rospi, che attiravano anche bisce acquatiche. 
Con Carmeniello trovai anche una tartaruga ('a cestunia), che riuscimmo a salvare, dal divenire un ottimo secondo piatto...
Queste erano, o avrebbero potuto essere, le sorgenti descritte nel testo della canzone. 
Troppe cose combaciano, ma non ci sono prove storiche. 
Voi che ne dite? 
La pensate come l'esimio Prof. Vittorio Paliotti, che sostiene che la canzone fu ispirata a Marotta dal prato del S. Paolo? Io, certo, con qualche forzatura, un po’ di fantasia, ma tanto amore verso questo quartiere, sono portato a pensare che i versi di "Mare Verde" siano la perfetta descrizione di quello che furono questi luoghi. 
Fosse anche solo per poterne continuare ad intonare il finale: "...e ce perdimmo pe' stu mare verde...".
Pasquale di Fenzo 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Portale e strada di accesso al tenimento di proprietà Del Forno a Piscinola

Angolo poetico del venerdì: Un ricordo della festa del SS. Salvatore a Piscinola, di A.M. Montesano.



Processione anno 1987 in via Vecchia Miano
"Guagliù, ‘e pale, stanno mettenn’‘e pale!”, era il grido che preannunciava la festa del sei agosto a Piscinola, intitolata al SS. Salvatore. Ed era tutto uno spiare e intralciare l’operato degli uomini intenti a piantare i pali azzurri su cui sarebbero state montate le luminarie! Anche quando le luci erano ancora spente, sembrava che la monotonia di un’ estate non sempre benedetta dai bagni di mare si accendesse improvvisamente di colori e promesse. Quando, poi, finalmente, risplendevano le luci, il quartiere diventava un mondo incantato, dove ogni moccioso era Aladino e ogni bimbetta una principessa.
Già una settimana prima del 6 agosto, zum pà pà, zum pà pà..., la musica della banda di Piscinola, tra cui ricordo con commozione il clarino di don Felice Di Chiara e i tromboni di zi’ Peppe e di suo figlio Raffaele, seguita da una schiera di monelli, risuonava per le strade e raggiungeva i contadini devoti, che offrivano galline, formaggi e prodotti della terra, e i commercianti che donavano gli articoli della loro bottega; il tutto, poi, la sera della festa, sarebbe stato venduto all’asta che, da noi, veniva detta ‘a vénneta
A questo punto, mi sia concessa una breve digressione personale: uno dei più celebri banditori d’asta fu mio nonno materno, Vincenzo Aruta ‘o pazzariello, che faceva della vendita un vero spettacolo, grazie ad uno straordinario senso dell’umorismo che ha poi trasmesso a molti dei figli e dei nipoti. L’ultima volta che la banda lo richiamò suonando sotto il suo balcone, situato sopra la sede dell’associazione del Sacramento, la mia mamma, che si era appena imparentata con la riservata famiglia Montesano, lo scongiurò di rinunciare e di restare in casa, per non farle fare brutta figura; la mamma scongiurava e il nonno protestava, finché lui si arrese alle preghiere di lei; ma, dopo qualche ora, il farmacista dovette correre a mettergli le sanguette (sanguisughe) sul petto perché ‘O pazzariello si era sentito male per il dispiacere; la mia mamma non si è mai perdonata quell’episodio che decretò la fine del banditore più ricercato di Piscinola e dintorni. 
Processione anno 1978, in via Vecchia Miano
Ma torniamo a noi: qualche giorno prima del sei Agosto, già si sentiva per tutto il quartiere il “Sà... sà..., uno due prova” dal microfono piazzato sul palco di piazza Tafuri sul quale si sarebbero esibiti numerosi cantanti. E, poi, finalmente, arrivava il benedetto giorno della festa. Già nel pomeriggio, le donne, in attesa del passaggio della processione, esponevano ai balconi le loro più belle coperte di seta o di damasco, le più preziose lenzuola ricamate a mano e, a passare tra tutto quello sventolio di drappi colorati, pareva di percorrere le pagine delle Mille e una notte. Poi, un lontano, accorato suono di strumenti musicali annunciava la banda che andava a prelevare i membri delle varie associazioni religiose: quelle del Sacramento, di cui faceva parte mio zio Tonino Aruta, dell’ Addolorata, S. Giuseppe e SS. Salvatore, della Madonna delle Grazie, della Madonna di Loreto, del Crocifisso, che si distingueva per le piccole luci nei taschini delle giacche dei soci, i confratelli della congrega del Sacramento e le donne dell’Azione cattolica, devote al Cuore di Gesù, di cui faceva parte nonna Carmela e che sfilavano portando sul petto e sulla schiena un “abetiello” con un grande cuore rosso. 
Processione anni '50, in piazza B. Tafuri
Le associazioni e la banda, diretta dal maestro Santoro, si recavano, poi, in piazza, attendevano l’arrivo dei sacerdoti e della statua del Salvatore, sorretta dai volontari, e iniziava la processione a cui si accodavano le fanciulle in abito da prima comunione e molti fedeli. Il corteo si snodava sott’’a chiesa, for’a vienova, per via Napoli, ‘ncopp’o principino e, finalmente, arrivava o’ cap’e coppa, dove tutti noi eravamo in attesa, per poi proseguire per via Vittorio Emanuele e ritornare in piazza. Chi in strada e chi dai balconi era pronto, con cesti profumati, per  spargere sul santissimo petali di fiori variamente colorati e profumati; qualcuno si inginocchiava davanti alla statua del Salvatore per grazie ricevute o da richiedere. La sera, bambini e genitori, tutti in ghingheri, provenienti non solo dal nostro quartiere ma anche da quelli vicini, si avviavano allegramente verso la piazza che si rivelava un trionfo di luci e di bancarelle sulle quali troneggiavano montagne di torroni di ogni colore e consistenza o secchi con gli spinosi frutti del fico d’India che il contadino provvedeva a sbucciare e ad offrire in punta di forchetta; ma i banchi più affollati erano quelli che offrivano le nostre saporose e insuperabili zuppe di cozze: le famiglie vi si spaparanzavano intorno, gustando sapori, odori, colori e la musica e le voci che erompevano dal palco, interpretando le più celebri canzoni napoletane e anche qualche brano d’opera. 
Processione anno 1987, in via Vecchia Miano
Più in là, tra le risate del pubblico, avveniva la famosa asta. Alla fine del concerto, le famiglie ritornavano a casa ma la festa non era ancora finita: chi poteva saliva sui tetti per ammirare al meglio il finale, gli splendidi fuochi d’artificio dei migliori fuochisti di Napoli. A mezzanotte, nell’aria tersa e nel silenzio delle strade, le voci si propagavano da un tetto all’altro con grande sonorità e chiarezza; esplodevano i fiori violetti, verdi, azzurri, seguiti da cascate di argento e d’oro ed era tutto un intrecciarsi di commenti “Cumpà, chesta comm’era? A me me pareva nu poco storta!“Ma che ne capisce tu, Totò? Tu nun saie manco si ‘a capa toia è tonna o quadrata!”. E giù risate, fra uno sgranocchiare di taralli e di torroni. Poi, tutto taceva, la festa era finita e la gente ritornava in casa tra il sogno e il rimpianto, mentre i fumi dei fuochi solleticavano ancora le narici e il cuore.      
                                                                                                              AnnaMaria Montesano


Ringrazio Carmela Montesano e Tonino Aruta per il contributo dei loro preziosi ricordi.

lunedì 21 ottobre 2013

Eroi non dimenticati... Una lapide ricordo per i caduti di Miano...!


Da circa trent'anni il monumento ai caduti di Miano non conserva più alla sua base la lapide in bronzo che un tempo riportava l'elenco di tutti i soldati caduti originari di Miano; oggi dopo numerosi atti teppistici e dopo le sottrazioni di alcune parti, il monumento è stato restaurato, ma, purtroppo, una semplice lastra di marmo bianco riporta, alla sua base, una generica dedica "Ai Caduti di Miano"! 
Per capire le origini e l'importanza di questo monumento ripercorriamo un po' a ritroso le vicende storiche correlate a esso.
L'idea di un monumento che ricordasse le gesta dei combattenti della Grande Guerra (prima guerra mondiale), originari di Miano, nacque da parte di un gruppo di militanti, ex combattenti, riuniti in un'associazione di reduci. La parte scultorea fu affidata al celebre artista scultore: Filippo Cifariello, padre dello sfortunato attore del cinema degli anni '50. 
La sua inaugurazione avvenne con una solenne celebrazione, la mattina del 5 maggio 1935. 
Foto del giorno della inaugurazione ripresa dalla villa Russo.
Ecco la cronaca riportata dal giornale "Il Mattino", del martedì seguente:

Dal giornale il Mattino del 7 maggio 1935:
"Domenica, il popolo di Miano ha vissuto una giornata di intensa commozione per la austera cerimonia dello scoprimento del Monuemnto ai caduti , ed ha ricordato le ore eroiche del sacrificio dei suoi settantuno figli immmolatisi per la Patria nella grande guerra.
Il monumento, che è pregevole opera di Filippo Cifariello, è  stato scoperto, dopo il discorso ufficiale [...] (segue lista di nomi delle autorità dell'epoca presenti).

Alla cerimonia inoltre sono intervenuti la signora Cerboni-Rossi delegata Provinciale dell'Associazione famiglie dei caduti in Guerra, la signora Centi Direttrice generale delle scuole, il dott. Boccuzzi che rappresentava il Questore e numerose personalità e rappresentanze.
 [...]
 
Bassorilevo in bronzo, poi trafugato

Particolare della piazzetta nel giorno dell'inaugurazione



















Dopo il discorso spesso interrotto da ovazioni, il parroco Nardi ha impartito la benedizione, quindi tra la piu profonda commozione della folla e mentre la banda del 31 Reggimento Fanteria, intonava l'Inno del Piave ha avuto luogo la cerimonia dello scoprimento.
Frontespizio dell'opuscoletto celebrativo
Il monumento in bronzo che abbiamo detto è opera di Filippo Cifariello, circondato da una artistica e suggestiva aiuola fiorita creata dal cav. Flaminio, rappresenta una vittoria alata che stringe tra le mani due alte palme. La simbolica  figura poggia su un masso granitico su cui sono incisi, a lettere rosse, i nomi delle battaglie combattute nella Grande Guerra. Sulla base, sotto il Bollettino della Vittoria, è scritto:
"Brevemente vissero - Romanamente caddero - Qui rivivono"  ( ndr).
Ai piedi del monumento  vengono quindi deposte due corone di alloro con nastri azzurri, rispettivamente omaggio dei caduti e dell'Associazione  Combattenti [...]".




Foto di oggi
 

















Inizialmente, attorno al monumento, erano poste delle ogive metalliche, collegate tra loro da catene e, all'interno, un piccola aiuola fiorita con una dedica in marmo bianco. Alla base del piedistallo, che simboleggia i monti delle celebri battaglie, erano poste quattro lastre di bronzo, una per ogni lato: sul lato anteriore c'era una lastra forgiata come una pergamenta, sulla quale erano incisi i nomi dei 71 caduti, contornati con frasche di alloro. Mentre, sulle lastre laterali, di cui solo una abbiamo anche la foto, erano rapppresentate, rispettivamente, un soldato morto giacente su un cannone e incoronato da una figura di "Gloria alata" e, sull'altra, era rappresentato un aereo in ricognizione. Non ricordiamo il soggetto della quarta lastra, ma probabilmente doveva essere scritto il nome del comitato e l'anno di realizzazione.
Purtroppo, come abbiamo accennato all'inizio del racconto, anche questo bel monumento ha subito nel corso degli ultimi decenni diversi attentati vandalici e delle spoliazioni. Circa 30 anni fa fu privato delle quattro lastre di bronzo. 
 
Lapide in bronzo con la lista di nomi, prima del furto
Una decina di anni fa la statua della "Gloria alata", che si vede sulla sommità, già privata in precedenza dei due rami di palma, fu letteralmente scaraventata al suolo con forza, per opera di ignoti balordi, con il preciso intento di trafugarla e poterla quindi vendere al mercato dei metalli, per il solo valore venale, noncuranti che essa fosse invece un'opera d'arte del famoso scultore Cifarelli. 
Per fortuna il furto non fu portato a compimento e le forze dell'ordine riuscirono a recuperare la refurtiva. 
La statua aveva comunque subito dei seri danni, ma, grazie all'interessamento delle istituzioni e di alcune associazioni locali, fu subito restaurata e riposizionata sul vecchio piedistallo, a distanza di soli pochi mesi dopo l'evento infausto. 
Le due palme in bronzo furono ricostruite e riattaccate nelle mani della statua.
Riportiamo l'elenco dei nomi dei soldati caduti, che un tempo si leggevano sulla lastra di bronzo centrale, affinchè non se ne perda ora in avanti la loro memoria... con la speranza che possano ritornare al più presto incisi, al loro posto, come un tempo.


Oggi, 25 aprile 2019, i cittadini di Miano, raccolti nel comitato civico "Vivi Miano", con l'intervento dei rappresentanti della Chiesa e delle Istituzioni locali, hanno rimesso al loro posto l'elenco dei 71 nomi dei soldati caduti originari di Miano, dando degna sistemazione al monumento. Il desiderio espresso in questa pagina di cultura è stato esaudito. Grazie!

Salvatore Fioretto
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)