giovedì 1 giugno 2023

La Rossa del Sud... la mela Annurca regina delle mele...

Considerata la “regina delle mele”, per le sue proprietà nutritive ed organolettiche, la “Mela Annurca” vanta nel territorio napoletano e in Campania almeno due millenni di esistenza. Tale retaggio non è una leggenda, come lo possono dimostrare i tanti riferimenti storici e archeologici rinvenuti, tra cui alcuni dipinti scoperti dagli scavi a Ercolano e, in particolare, nella “Casa dei Cervi”.
La mela “Annurca” era quindi coltivata e anche molto apprezzata "sulle tavole", nel mondo romano e, in particolare, nella rinomata e celebre nostra “Campania Felix”. Molto probabilmente il luogo di origine di questo eccellente cultivar sarebbe stata l’area puteolana, come si deduce leggendo le pagine dell’opera di Plinio il Vecchio: “Naturalis Historia”.
Secondo alcune interpretazioni storiche, la zona di provenienza risulta essere l'area di Pozzuoli  e in particolare il lago di Averno (considerato fin dall’antichità la porta degli Inferi), sarebbe stato Plinio il Vecchio ad aver sostenuto la primitiva denominazione della mela, attribuendo il termine di "Mala Orcula", proprio per il fatto che essa era prodotta nei dintorni del lago di Averno (quindi dal termine “Orco”, che si collegherebbe a quello di “Inferi”).
Andando avanti nei secoli, troviamo la testimonianza del filosofo e scienziato napoletano Giambattista della Porta (Vico Equense, 1º novembre 1535 – Napoli, 4 febbraio 1615), nella sua opera "Pomarium", pubblicata nell’anno 1583, che rappresenta un vero e proprio trattato sulla coltivazione degli alberi da frutta. Nel liber è riportato quanto segue: “... Qua orbiculata dicuntur cum suaviter stringant, habent: dulcedinem itat stomaco fint utilia: Plinius. Orbiculata à figura orbis in rotunditatem circumaƐti, hæc in Epyrum primum provenisse argumento sunt: Græci, quiepyrotica vocant. Palladius toto anno servari posse ait à Varrone, Columella, & Macrobio orbiculata dicta Maturescunt Augusto mala, que ad nos Puteolis asportantur, cortice toto rubro, ut cruore perfusa videantur, sapore dulci, in extrema maturitate ut mora nigrescunt, vulgo Mela orcole dicta: videntur mibs à Plinio descriptamala…”.
(ovvero, in sintesi, ... le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…).
Altro particolare asserito da Della Porta è quello ruguardante la primitiva origine della varietà di mela, che risalirebbe alla regione Egea, perché già conosciuta dagli antichi greci.
Quindi dal termine “Orcole”, per degradazione letterale avvenuta nei secoli, si sarebbe passato a "anorcola" e, poi, a "annorcola", fino a giungere alla seconda metà dell’’800, quando troviamo scritto definitivamente la parola “mela annurca”. Infatti nel “Manuale di Arboricoltura”, scritto da G. A. Pasquale, nell’anno 1876, compare ufficialmente e per la prima volta il termine di Mela "Annurca". Ecco il testo: “Mela annurca (de' napolit.) Pomo di mezzana grandezza, quasi rotondo, rosso-carnicino marmorizzato; polpa senza odore, zuccherina, saporosa. Si conserva per l'inverno, ed è commerciabile. È ancora la più comunemente usata a Napoli, e propria delle sue campagne. Fra tutte la più deliziosa. Nel resto delle provincie meridionali manca, o vi è rara.”
Tradizionalmente coltivata nell'area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la "Melannurca Campana" (I.G.P.) si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree del territorio aversano, maddalonese e beneventano, poi, via via, nel nocerino, nell'irno, nei picentini e, infine, in tutta l'area dell'"alto casertano". Proprio qui, già da alcuni decenni, con la regressione delle superfici agricole dell'area napoletana, a causa della conurbazione delle zone costiere, ha trovato il territorio ove essa è più intensamente coltivata.
La particolarità di questo cultivar di mela, a differenza delle altre varità di mele, che maturano sui rami degli alberi, è quella che i frutti vengono raccolti acerbi e poi posti a maturare su caratteristici "letti", chiamati "meleti". La tecnica è il risultato di una lunghissima esperienza e giustificata dal fatto che la mela presenta un picciolo estremamente sottile e non capace di sostenere il peso del frutto, che altrimenti cadrebbe al suolo prima della maturazione. La raccolta dagli alberi avviene in autunno, mediante caratteristiche scale, un tempo di legno, strette e lunghissime ('e scalille). I letti di maturazione erano realizzati, fino a qualche decennio fa, con canapa e poi con paglia, solo recentemente sono stati sostituiti con segatura di legno o altre fibre. Le strutture dei "meleti" sono protette dalle grandinate con tetti provvisori realizzati con assi di legno e reti, ma un tempo si usavano i fusti di granoturco o di canapa.
La base del "letto" è realizzato con il terreno compattato e poi sagomato per favorire il deflusso dell’acqua piovana; a tal fine sono realizzate anche una serie di canalizzazioni in pendenza. Per favorire la maturazione e l’equa colorazione della buccia delle mele (arrossamento), le mele sono costantemente ruotate (alcuni gradi a giorni stabiliti), anche per evitare il ristagno dell’acqua nelle cavità dei piccioli, che causerebbe la marcescenza. Alla fine della maturazione, le mele vengono raccolte in apposite casse di legno (oggi di plastica), avvolte in fogli di una particolare "carta paglia", di colore giallo, molto dura e ruvida. Nelle "rastrelliere" dei fruttivendoli le mele fanno ancor oggi bella mostra, accompagnate e abbellite con i rami delle piante o di altri arbusti e sono costantemente inumidite con spruzzi d'acqua fresca... Altra importante caratteristica è la durata di conservazione, infatti possono essere conservate facilmente, a temperatura ambiente, assicurando la disponibilità per tutto l'anno.
Pur se già noto fin dall’antichità, recenti studi condotti da alcuni dipartimenti universitari hanno dimostrato scientificamente che la mela “Annurca” possiede molteplici proprietà benefiche per l’organismo e per la salute umana, se consumata regolarmente; in particolare, la proprietà più importante è certamente quella di contrastare gli alti livelli di colesterolo nel sangue, inoltre può stimolare la diuresi, la digestione ed è anche indicata per i malati diabetici, per i suoi bassi livelli di zuccheri contenuti.
Come tutte le mele, la mela “Annurca” ha un elevato potere antiossidante, grazie sempre ai polifenoli, utile quindi a mantenere in salute organi e tessuti, contrastando efficacemente l’invecchiamento cellulare e proteggendo l’apparato cardiovascolare.
Inoltre, il contenuto di acido ossalico rende la mela “Annurca” molto utile per la salute della bocca.
Dalle schede tecniche disponibili apprendiamo che la mela “Annurca” è inoltre caratterizzata da un alto contenuto di acqua (circa l’84%), è molto ricca di vitamine, soprattutto del gruppo A, B, C e PP, acido malico, acido ossalico, ma anche diversi minerali, in primis potassio, calcio, magnesio, manganese, ferro e fosforo, mentre è povera di sodio”. Anche la quantità di fibre è abbondante, per lo più pectine (concentrate principalmente nella buccia), inoltre la mela "Annurca" contiene una discreta quota di carboidrati (di cui il 10% di zuccheri), mentre è povera di lipidi e proteine. Nonostante la dolcezza tipica di questo frutto, l’apporto calorico è molto ridotto, considerando che 100 grammi di prodotto forniscono soltanto 40 Kcal, similmente all’indice glicemico, molto basso.  
Per tutte queste qualità la mela “Annurca” è ritenuta particolarmente indicata per i pazienti immunodepressi, per quelli disabilitati e quelli che seguono un regime di dieta specifico. E’ proprio vero che per essa vale ancor di più il celebre detto: “Una mela al giorno fa bene e toglie il medico di torno…!”
Nell’anno 2006, alla mela "Annurca" prodotta in Campania è stata riconosciuta l'Indicazione Geografica Protetta (I.G.P.) "Melannurca Campana" (Regolamento (CE) n. 417/2006) - pubblicato sulla GUCE n. L 72 dell'11 marzo 2006). L'iscrizione al registro nazionale delle denominazioni e delle indicazioni geografiche protette è avvenuta con provvedimento ministeriale del 30.03.06, pubblicato sulla GURI n. 82 del 7.04.04, unitamente al Disciplinare di produzione" e alla "Scheda riepilogativa" (già pubblicata sulla GUCE unitamente al predetto Reg. 417/06). Nel 2005 è stato altresì costituito il “Consorzio di tutela Melannurca campana IGP", con sede a Caserta.
La zonizzazione della “I.G.P.” riconosciuta alla "Melannurca Campana", per le cultivar: “Annurca” e “Rossa del Sud”, oltre alla provincia di Napoli, abbraccia tutte le provincie della Campania.
Interessante è osservare in dettaglio i confini dell' "I.G.P" che delimitano il territorio della provincia di Napoli, perché, per quanto ci riguarda, è incluso anche gran parte del territorio dei quartieri di Piscinola e di Chiaiano, oltre a quello di Mugnano e di Marano.

Marchio "I.G.P."

Ecco le strade che determinano i confini della nostra zona: ”[…] La seconda area interessata confina a: Nord con il confine del comune di Mugnano di Napoli passando per via Cupa della Filanda proseguendo in direzione Sud-Est, per Via Piedimonte d’Alife, via Vicinale Vecchia Miano-Piscinola, in direzione sud per via Miano, in direzione Est per viale Colli Aminei, via M. Pietravalle, in direzione Sud per via Pansini, via Montesano, in direzione Nord per via G. Quagliariello, strada Comunale Santa Croce a Orsolone, via Cupa della Paradina, strada comunale Margherita, Cupa I° Vrito, sino a incontrare il Comune di Marano di Napoli […]”.

Salvatore Fioretto 

domenica 21 maggio 2023

Il gioco con le biglie... detto "'a pallino"... Regole e curiosità di un gioco antico, un tempo molto praticato!

Abbiamo già descritto in un apposito post, pubblicato alcuni anni fa, i giochi che i bambini e i ragazzi del territorio conducevano nei cortili e per le strade del nostro quartiere. Tra questi giochi di società, quelli più in voga tra i maschietti erano sicuramente quello con le biglie, detto "'a pallino" e quello con le figurine dei calciatori, detto "'o pacchero".
Dedichiamo questo post alla descrizione di quanto concerne il primo di questi due giochi, ovvero il gioco con le biglie, chiamato qui da noi: "'o ghiuco a pallino"; gioco che era praticato sulle superfici libere dei cortili e sui marciapiedi stradali.
Aprendo un piccolo inciso storico, possiamo affermare che il gioco delle biglie è antichissimo, probabilmente risalente al periodo dell'Antico Egitto, quando le biglie erano ricavate da piccole pietre tondeggianti raccolte sulle sponde del Nilo e opportunamente levigate dai fanciulli, fino a farle diventare sferiche. Si passò poi alla realizzazione di biglie in terracotta e qualcuno soleva ricavarle anche dagli ossicini di animali, opportunamente lavorati.
Con i secoli rimasero in uso le biglie in terracotta, ma erano estremamente fragili e soggette facilmente all'usura. Dobbiamo giungere ai primi decenni del secolo '900, per trovare la diffusione di biglie in vetro, con dimensioni standard e variabili, da 1 a 3 centimetri circa.
Per praticare il gioco delle biglie occorreva avere a disposizione un'estesa e libera superficie di suolo, alquanto piana, liscia e con assenza di buche. Tra i giocatori non era infrequente annoverare anche le ragazzine.
Per organizzare il gioco, oltre a possedere le biglie, occorreva realizzare una buca, che doveva essere unica e posta in posizione pressoché centrale rispetto all'area libera disponibile. Essa doveva avere delle dimensioni stabilite per condurre il gioco in maniera regolare, ossia non troppo profonda e abbastanza capiente, quindi avere delle dimensioni tali da poter recuperare agevolmente con una mano le biglie che vi si raccoglievano durante il gioco.
Le regole del gioco appaiono, alla lettura di oggi, non semplici e abbastanza complicate, ma in effetti queste procedure per i giocatori all'epoca dovevano apparire alquanto ovvie e scontate, perché in uso corrente, specialmente durante i periodi dell'anno con il bel tempo.
Il numero dei partecipanti al gioco potevano oltrepassare anche i dieci giocatori, tuttavia era però sconsigliabile organizzare gare affollate, per permettere una gestione ordinata delle sequenze di gioco.
Entrando nel dettaglio, per descrivere le regole del gioco, iniziamo col dire che i giocatori si dividevano in due categorie, chiamate: "cacciatori si" e "cacciatori no". Si diventava "cacciatore si" solo se si era riusciti a centrare la buca con la propria biglia, e quindi acquisendo il diritto di conquistare il "pallino" degli avversari, quando si riusciva a colpirlo con la propria biglia.
Ogni giocatore disponeva di una sola biglia e poteva abbandonare il gioco solo se aveva acquisito il titolo di "cacciatore si", e solo dopo aver recitato la formula, ad voce alta: "so' cacciatore e m'aizo" (sono un cacciatore e mi ritiro), altrimenti il giocatore doveva restare in gioco, fino a quando i giocatori avversari colpivano la propria biglia.
Praticamente da "non cacciatore" (cacciatore no) si poteva solo difendere e non si poteva ritirare. Ma se si riusciva ad andare in buca, si acquisiva il diritto di "chiamare" in buca un "non cacciatore", che poteva avvicinarsi alla buca, anche con l'opzione di uno o più palmi di mano di distanza (il "palmo" era uno dei sistemi di misura utilizzato), il cui numero lo decideva il "chiamante". Se riusciva ad andare in buca o avvicinarsi con dei palmi stabiliti, vinceva la posta il "pallino" del "chiamante", altrimenti ci si rimaneva esposti ad essere colpiti, perché avvicinati troppo all'avversario. Altro metodo di misura per le distanze tra le biglie era quello chiamato "zerracchio", che consisteva nella distanza formata tra l'estremità del pollice e quella del medio, in posizioni distese.
Se nel corso del gioco, il "pallino" dell'avversario era coperto da qualche oggetto estraneo, tipo un sassolino oppure un legnetto, il "cacciatore" aveva il diritto di pulire il campo di gioco, se recitava prima dell'avversario la formula: "cip se leva", oppure: "cip se sta".
Come per le regole del gioco che, come si è visto erano molto rigide, anche le dimensioni e la natura delle biglie erano standardizzate e avevano un proprio nome, generalmente riconosciuto.
Esistevano due tipologie di biglie, a seconda del materiale utilizzato per la loro realizzazione, e potevano essere di vetro o di porcellana. Le biglie di vetro avevano nel proprio interno "un'anima" colorata, che s'intravedeva dall'esterno e serviva per identificare le biglie appartenenti ai diversi giocatori, che in quel momento erano in competizione; a tale scopo anche le biglie di porcellana avevano dei colori distintivi, ma dipinti sulla loro superficie esterna bianca. Le biglie di porcellana avevano pressochè un'unica dimensione e venivano chiamate singolarmente: "'a purcella" (di porcellana), anche se non era raro trovare biglie più piccole.
Per le biglie di vetro, invece, si partiva dalla più piccola (all'incirca un centimetro), che era chiamata "Semmenzella", per poi passare via, via, alle misure più grandi, chiamate: "Mezzanella", "Mezzana", e "Pallino", fino ad arrivare a quella più grande in assoluto, chiamata "'o Palluottolo", avente un diametro di circa tre centimetri. Queste varie tipologie di biglie erano anche oggetto ad un mercato di scambio tra i giocatori, infatti ciascuna di esse aveva un valore multiplo rispetto alle biglie di dimensioni inferiori; ma c'e da dire che il loro valore era anche condizionato dal loro stato superficiale, ovvero se presentavano incrinature o imperfezioni, anche di origini costruttive, come nel disegno interno, oppure la presenza di bolle d'aria. Il loro valore era condizionato anche dalla loro disponibilità temporale al commercio minuto. Altri due parametri influenti erano la dimensione e la levigatezza, ovvero la "maneggevolezza" delle biglie, caratteristiche determinanti, a giudizio dei giocatori esperti, che permettevano di avere maggiori probabilità ad andare a segno... Per esempio, per avere un'idea del valore loro di scambio, la biglia più grande, chiamata "'o palluottolo", valeva dalle otto alle dieci biglie normali...
Considerato il commercio sostenuto di biglie, così come avvenne nel periodo compreso tra gli anni '50 e '70 del secolo scorso, molti commerciati del territorio, quali mercerie, ferramenta e anche quelli del commercio di detersivi, si erano organizzati e approvvigionavano constantemente discrete quantità di biglie dal mercato all'ingrosso, per poi vendere al dettaglio ai ragazzi giocatori.
Le biglie, che erano offerte in colori multi-diversificati, erano contenute a centinaia in sacchetti di plastica, di tipo a retina, che venivano mostrati nei negozi, appesi a rastrelliere, principalmente vicino ai banchi di vendita. Questi sacchetti a retina avevano un foro laterale (praticato nei negozi), che permetteva ai rivenditori di prendere le biglie agevolmente con una mano. Anche i ragazzi si erano attrezzati a contenere il loro bottino di biglie, per il trasporto e per mostrarle con orgoglio ai coetanei; spesso si faceva uso di vecchi calzini di lana spaiati, che si portavano a mo' di borsette, appesi alle cinture dei pantaloni o dei pantaloncini.

Questo post è stato scritto in collaborazione dell'amico Pasquale di Fenzo, che in passato ha scritto diversi post in questo blog; in particolare Pasquale ci ha aiutato a ricordare le regole adottate nel gioco delle biglie.

Salvatore Fioretto

venerdì 19 maggio 2023

Don Salvatore Esposito, intraprendente e indimenticato presbitero in terra napoletana e beneventana…

Sulla scia dei nomi dei tanti personaggi originari del quartiere di Piscinola, dei quali questo blog ha trattato le loro biografie, non potevamo tralasciare la figura di un altro grande piscinolese, la cui memoria è ancora oggi forte ed è nostalgicamente ricordato dai tanti che l’hanno conosciuto e apprezzato, ci riferiamo al frate cappuccino e sacerdote "frate Alfredo", al secolo don Salvatore Esposito.
Questo post è una conferma ulteriore che il quartiere di Piscinola, nonostante le sue piccolissime dimensioni geografiche, nonostante le tante metamorfosi urbanistiche subite, nonostante i tanti problemi sociali patiti e che l’attanagliano ancora oggi, ha una storia, con un bagaglio culturale e soprattutto un patrimonio umano, di degnissimo rispetto…!

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Salvatore Esposito nacque a Piscinola, all’epoca frazione del quartiere di San Carlo all’Arena, il 13 maggio 1945, nell'abitazione situata in via del Salvatore; i suoi genitori furono Alfredo Esposito e Antonietta Faro. Visse i suoi anni della fanciullezza in maniera spensierata e amato dalla sua famiglia, semplice e religiosa. Ebbe due fratelli, dei quali fu secondo di nascita: Mario e Clorinda.
Alle prime manifestazioni di quella che sarà la sua grande vocazione religiosa, decise di entrare nell’ordine dei frati cappuccini e di farsi frate. Iniziò il percorso di noviziato, in età giovanissima, a 16 anni, il 24 dicembre 1961, nel convento francescano situato a Cerreto Sannita, in provincia di Benevento. Sempre in questo luogo emise la professione religiosa temporanea, il 25 agosto 1962 e, successivamente, il 29 maggio 1966, nella chiesa di Sant’Eframo Vecchio a Napoli, i voti solenni e perpetui. Da francescano prese il nome di “frate Alfredo”: nome che ci rimanda al ricordo del suo papà.
Dal 1966 al 1970, seguì con profitto il corso di teologia tenuto nello stesso convento di Sant’Eframo Vecchio. Seguirono gli studi superiori, dal 1970 al 1972, presso la Pontificia Facoltà Teologica dei Padri Gesuiti di Posillipo (Napoli), al termine dei quali seguì l'ordinamento sacerdotale.
A distanza di tre anni dalla sua ordinazione, fu presentato dai superiori nella parrocchia di Sant’Eframo, il 19 agosto 1974 e ivi nominato Vicario Economo dalla Curia di Napoli, il 6 settembre 1974, con le facoltà a decorrere dal 20 settembre seguente.
Egli era già addentrato nella conoscenza della parrocchia, essendo stato per tre anni vicario del parroco di questa chiesa,  don Eugenio Napolitano.
Ecco come la sua figura viene ricordata in una testimonianza rinvenuta sul web, nel sito della stessa parrocchia di Sant'Eframo: “Molto aperto ed entusiasta alle idee conciliari del momento, proclamate sul piano pastorale dall’Arcivescovo di Napoli Card. Ursi, e attento uditore degli insegnamenti di quest’ultimo.
Da parroco si lanciò nell’attuazione di tutto un programma nuovo; si era convinto che bisogna valorizzare tutte le vocazioni e pensava a una Chiesa tutta ministeriale, con le più svariate collaborazioni, a partire da quelle dei lettori e degli accoliti. Si serviva molto dei volontari adulti, attraverso i quali cercava di giungere anche ai lontani.
Colse la disponibilità e promosse la formazione del diacono permanente Antonio Mattera, la cui ordinazione avvenne nella nostra Chiesa, e la cui collaborazione gli fu sempre di valido aiuto.
Per una Liturgia celebrata efficacemente, promosse col Superiore locale l’adeguamento dell’area del presbiterio in Chiesa, con l’altare rivolto al popolo; promosse gli incontri di letture bibliche per gli adulti e nelle stesse famiglie. Non aveva catechisti sul tipo di quelli tradizionali, si serviva di alcuni giovani che egli preparava personalmente e che gli erano molto vicini.
Il fulcro della sua azione pastorale aveva il suo momento fondale negli incontri e nei colloqui spirituali, oltre che nel sacramento della confessione, da lui molto curato. Si sviluppò un dinamismo spirituale incredibile intorno a lui: veniva gente anche da lontano, per incontrarlo; c’erano sempre lunghe file davanti alla porta, ogni giorno; era oberato nel vero senso della parola, da mattina a sera. […].
Il Card. Corrado Ursi era contento di lui e, più volte altrove, mostrava come esemplare la conduzione della parrocchia di Sant’Eframo; diceva: “Andate sul colle di sant’Eframo e vedete come si conduce una parrocchia!”.
Dotato di doni speciali, aveva una grande devozione verso la Madonna; questo conferiva un fascino al suo carisma di parroco; ma era anche una persona assai semplice e quasi infantile; è stato questo ultimo aspetto che lo ha esposto al profitto di persone interessate, che hanno eroso dal di dentro tutta la sua opera; ne risentiva la sua stessa salute e dovette lasciare la Parrocchia.
Dal 1980 al 1989 fu designato viceparroco nella chiesa parrocchiale del "Sacro Cuore" a Benevento, mentre dal 1982 divenne insegnante nella scuola media “Federico Torre”, a Benevento,
Morì tragicamente, a soli 44 anni, il 17 novembre 1989, a seguito di un incidente stradale, avvenuto alle porte della città di Benevento. Ai suoi funerali parteciparono una folla straordinaria, raccolta nel dolore e profondamente commossa. Venne sepolto nel cimitero di Miano e dopo tre anni le sue spoglie furono traslate al cimitero di Benevento (come si apprende, per volontà popolare…!).
A dimostrazione dell’opera di questo religioso, divenuto sacerdote e parroco di una comunità ecclesiale e civica raccolta, riportiamo gran parte della bella testimonianza scritta da un suo amico e insegnante, il prof. don Pasquale Maria Mainolfi, divenuto docente di teologia morale, che l’ha conosciuto nel periodo dell'insegnamento. Questa bella testimonianza è stata scritta a distanza di 25 anni dalla scomparsa di don Salvatore, nell’anno 2014.
Il popolo beneventano che ha esperimentato la dolcezza e la forza coinvolgente del suo generoso ministero sacerdotale non lo ha dimenticato. I suoi figli spirituali trasportarono la sua salma dal cimitero di Napoli (cimitero di Miano n.d.r.) a quello di Benevento, dove attende l’ora della resurrezione finale.
Serbo un ricordo personale indelebile e colmo di stima per averlo avuto collega d’insegnamento nella scuola media “Federico Torre” di Benevento a partire dal 1982.
Una folla straordinaria ai suoi funerali, a motivo del gran bene procurato alle anime come direttore spirituale, esorcista. Sacerdote straordinariamente mariano, colmo di molti carismi messi al servizio della gente
Diceva: «Il mio sacerdozio è la spiga di frumento macinata perché diventi Ostia d’amore».
Tutti ne hanno ammirato e apprezzato, anche tra il clero e i confratelli cappuccini, il dinamismo apostolico, la creatività pastorale, la grande apertura ecclesiale.
Dotato di ottima preparazione, formato alle idee del Concilio Vaticano II, aveva sviluppato soprattutto in campo catechetico un’ampia partecipazione dei laici. Sprigionava una sorprendente ricchezza spirituale ed era riferimento sicuro per tanti giovani e per tante anime.
Di intelligenza fervida e generosa, si preparava sempre con scrupolosità. Lo animava una visione ecumenica ed ecclesiale assai ampia, accoglieva tutti con rispetto e francescana simpatia.
Anime assetate di verità e seriamente impegnate sui tornanti della santità, lo hanno seguito, vivendo il Vangelo con coerenza.
Cuore buono, cuore semplice, cuore di bambino, sedotto dal fascino del Cuore Immacolato di Maria. Ha sofferto molto per le incomprensioni e le false accuse subite. Ma questo è il sigillo delle anime eccezionali.
Ancora oggi, a 25 anni dalla morte improvvisa e tragica, avvertiamo con gratitudine il profumo della sua sorridente e luminosa testimonianza al servizio dell’Amore e dell’Unità nello Spirito Santo. Cresciuto all’ombra della Vergine Maria ha diffuso ovunque il profumo della bellezza e della bontà.
La Chiesa, preoccupata per le inevitabili forme di fanatismo e le voci di miracoli, ha messo il frate sotto stretta sorveglianza fino alla sospensione a divinis del 7 febbraio 1980, la vita nascosta al convento di Nola, a casa della mamma e al convento di Pozzuoli, fino alla riabilitazione e l’invio a Benevento, nello stesso anno, dove Padre Alfredo Esposito riprese il nome di battesimo e fu chiamato da tutti Padre Salvatore.
Un cammino doloroso. Una vita crocifissa. Una testimonianza di luce che non conoscerà tramonto. Ha portato nel cuore il mistero dell’Amore. Uomo eccezionale e generoso, ha fatto del convento un porto di mare per accogliere sempre tutti con squisita gentilezza, felice di comunicare agli altri la via della gioia che al Cielo conduce. Ha avvertito il brivido della bellezza.
Umile, sincero, intelligente, senza falsità, ha sentito il tormento nella ricerca della verità e la fatica nel salire la santa montagna di Dio. Ha vissuto le sfide, le ansie e le contraddizioni del nostro tempo. Ha offerto a Dio un sacrificio di lode senza fine cantando con la sua voce potente e con le opere compiute.
Il popolo ha pianto la sua prematura dipartita per l’Eternità. Sono belli i colori del suo tramonto come quelli dell’alba dei primi fervori sacerdotali. Ha conservato la fede ricevendo da Gesù la corona di giustizia.
La Madonna lo ha custodito nel suo materno Cuore, accogliendolo teneramente in Paradiso. Ed ora dalla finestra del Cielo ci guarda con amore di padre e ancora ci benedice. Padre Salvatore, grazie per la tua amicizia e per il tuo amore.

In un altro scritto, sempre dello stesso autore, si legge:
E’ sempre un’operazione d’amore e di civiltà far rivivere nel presente le esperienze belle del passato. Ecco una sua espressione che permette di aprire una piccola finestra nell’abisso della sua offerta sacerdotale: “Io soffro per coloro che soffrono senza una speranza”.
Ed ecco come lo ricorda una delle sue figlie spirituali: “Là, tra quei portici, un uomo avanza! Porta tra le mani un testo. Si ferma. Spinge lo sguardo nell’infinito. Il viso s’illumina. E’ dentro di lui il riflesso dell’universo come punto d’amore infinito a cui l’altro si aggrappa. E di quell’uomo, in quell’angolo, resta solo la luce”.
Un contemplativo attivo, impastato di Cielo ma con i piedi per terra per donare pace.”


Altre parole a commento di quanto riportato nel post sono ritenute superflue, lasciamo il caro lettore (come succede anche a noi), a una silenziosa meditazione, perché sicuri che questo racconto abbia destato un contributo non insignificante per la sua edificazione, culturale e anche spirituale.
Salvatore Fioretto

 

venerdì 12 maggio 2023

Là dove c'era l'erba... ora c'è una città....!

Gli anni '70 del secolo scorso l'hanno segnato la metamorfosi di gran parte del territorio posto a Nord di Napoli, soprattutto del quartiere di Piscinola e di altri centri vicini, con la scomparsa definitiva di estese zone agricole ivi esistenti. Per il quartiere di Piscinola la trasformazione del territorio è stata un cambiamento epocale e radicale, a causa della perdita definitiva della zona agricola, detta "Dello Scampia", che costituiva gran parte del sua estensione geografica e il principale sostentamento economico di molte sue famiglie, e con essa anche la perdita di un'identità comunitaria, che costituiva il "cuore propulsore" di usi, costumi e di tante tradizioni. L'antico toponimo di "Scampia" deriverebbe da "Scampagnato", ossia campagna libera e sterminata, senza ostacoli e senza case...
Non abbiamo trovato foto che possano testimoniare lo scempio che avvenne in quegli anni, vale a dire lo sconvolgimento subito dal territorio, per permettere la realizzazione dei programmi di edilizia popolare, previsti dalla legge “167”. Per descrivere questo passaggio della storia del territorio, abbiamo trovato questi due scritti, già pubblicati nel libro "Piscinola, la terra del Salvatore" (ed. The Boopen, anno 2010, di S. Fioretto): il primo, è tratto dal romanzo: "Maddalena", scritto da Fortunato Calvino, mentre, il secondo, è tratto dal libro: "Storia di Periferia", di Carmine Montesano. I titoli dati ai due brevi racconti sono stati scelti in questo post, per evidenziare alcuni passaggi del loro contenuto.


‘O rrè d’ ‘e papaveri…! (da "Maddalena", di Fortunato Calvino)

Molto commovente è questo brano tratto dal libro “Maddalena” (di Fortunato Calvino, anno 1996), nel quale lo scrittore esegue una descrizione nostalgica della campagna piscinolese scomparsa. Il dialogo avviene tra i due personaggi protagonisti del libro: Salvatore e Maddalena, nel mentre questi si rivedono a casa di Salvatore, dopo molto tempo… Maddalena è stata internata dieci anni in manicomio, ma ne esce guarita e cerca così di recuperare il tempo perduto…

“[…] Tenimme tanti ccose ‘a raccuntarce, tante. ’E vire sti quadre, so’ state pittate quanno ero guaglione. ‘O pittore era n’amico ‘e famiglia ca steve ‘e case a Piscinola, dint’ ’a na campagna. Ogni dummèneca steveme a pranzo ‘a casa soja. Isso pittàve ‘e cagne ‘e stagione. Guarda ccà: Vièrno, ‘a bella stagione, l’autunno…quanne ferneve nu quadro ‘o regalave a Papà. ‘E maje pazziato dint’’a nu campo ‘e papaveri? Io sì, saglievo ncopp’’a na muntagnella ‘e terra a là ‘ncoppe me sentevo ‘o re de papaveri ca era l’esercito mio. (Si avvicina a un quadro) Stu campo ca vire è ‘o stesso ‘e chillo ca te sto parlanne io, sulo ca oggi dint’’o stesso posto nun esiste cchiù niente, sulo palazze, palazze! […]. 

"Un ciclone devastatore...!” (da "Storia di Periferia" di Carmine Montesano)

“[...] Dall’inizio degli anni ‘70, in conseguenza dello stravolgimento subito dall’ambiente, è radicalmente mutata la composizione sociale ed economica della popolazione. Il programma residenziale previsto dalla legge 167, abbattutasi con la forza di un ciclone devastatore ha sconvolto le antiche strutture sociali, provocando anomia e disaffezione.
Le campagne vanto della zona, si sono ridotte a uno sparuto ciuffo di alberi, che qui e là punteggiano l’abitato, ne ricordano con nostalgia l’antica vocazione agricola ed ammoniscono con il loro maestoso silenzio, come possa essere improvvida l’azione dell’uomo quando obbedisce a scelte che non rispettano le comunità e ne mortificano la cultura. L’importanza del rapporto uomo territorio è stata completamente trascurata, a contraddire la raccomandazione del filosofo Considerant:“Stabilita la condizione dell’uomo, con i suoi bisogni, i suoi gusti, le sue inclinazioni originali, determinare le condizioni del sistema di costruzione più appropriato alla sua natura”.

La cecità degli uomini ha radicalmente invertito e posposto i termini della questione. Gli addetti all’agricoltura sono letteralmente scomparsi e sono andati a gonfiare il settore dei lavoratori dipendenti del Comune di Napoli, un sicuro rifugio all’incertezza dell’avvenire che si preparava per loro.
Il commercio è sempre ridotto nei limiti della categoria dell’eliminabile, perché sarebbe veramente difficile immaginare un insediamento abitativo senza salumerie, macellerie, fruttivendoli, ecc..
La civiltà contadina, le strutture sulle quali si ergeva la costruzione dell’immaginario popolare, la capacità aggregante dei suoi miti e riti, si sono spazzati via per cedere il passo ad un informe individualismo che non trova sistemazione in nessun definibile modello di civiltà e che sfocia in un pericoloso anarchismo anomico”.

 
I due scrittori, Fortunato Calvino e Carmine Montesano, descrivono in modo ineccepibile il danno irreversibile che ha subito in questi anni il nostro territorio e con esso la cultura, i valori e le tradizioni secolari. Questo tragico momento fa, purtroppo, da spartiacque “epocale” tra la Piscinola di una volta, con la spensieratezza della sua gente e le sue tradizioni, con quella che rappresenta la Piscinola di oggi: niente qui sarà mai più uguale a prima...!

Concludiamo questo post con una breve ma significativa poesia a tema, tratta dal libro, già menzionato: "Piscinola, la terra del Salvatore" e invitiamo i cari lettori, come sempre facciamo, a leggere i due libri presi in riferimento.

 

A primmavera mo è nu suonno...!

Che fine ha fatto ‘a primmavera nosta?!
Ce mancano ‘e culure,
D’ ‘e sciure d’ ’e ciardine…
Ce mancano ‘e profume,
D’ ’e prati d’erbe e vviole!

‘A primmavera nosta è mmorta...!
Tutto s’ è purtato appriesso ‘a essa,
‘O rrosa d’ ’e pastene ‘e perzeche,
‘O ghianche d’ ’e sciure ‘e cerase,
Pure ‘e limone e ll’arance prufumate…!

Comm’erano belli chilli mese Abbrile,
Quanno ‘e sciure carenno d’ ’e piante,
‘O viente se purtava pe’ ll’aria luntano…
Pareva na nevicata culurata,
Tutto ghianco e rosa se pittava!…

Tutt’era ‘nu sfavillìo ‘e culure…
E pe’ sta festa, turnavano papisse e palummelle…
Comme pe’ dà 'na mano a 'sta natura!
Ca s’era scetata d’ ’o suonn’ ‘e vierno, n’ata vota…
E accussì, tutto turnava sempe ‘o stesso, accussì ogni staggione…!

Cu’ ‘o primme raggie ‘e sole tiepido,
Tutte ‘e piante cacciavano ‘e fugliulelle ‘e latte,
E ‘nsieme a cheste, bocciuoli ‘e sciure…
Ognuno cu’ ‘o culore ‘e cu’ ‘na forma soja,
Ognuno cu’ ‘nu prufumo, assaje frisco e bello!

Che malincunia me vene, pensanno,
Ca ‘e giuvane ‘e ogge e chill’ate c’appriesso venano,
Nun hanno cchiù ‘a furtuna,
‘E vedè 'stu spettacolo d’ ’a natura vicino a ‘e case lloro…
Ma ‘o munno accussì và, quaccuno ‘o po’ cagnà...?

Salvatore Fioretto