venerdì 12 novembre 2021

Quel borgo antico chiamato "la Toscanella"

Descriviamo in questo post i brevi tratti storici di un'altra nota località del nostro territorio, situata nell'antica terra di Pulvicae (Polvica, presso Chiaiano); ci riferiamo alle origini storiche de la Toscanella. Abbiamo consultato per lo scopo il volumetto, già preso in prestito in altre circostanze, dal titolo: "Santa Croce ai Camaldoli - Napoli, 1688 - 1988, Ieri, oggi, domani". A cura di Don Camillo Degetto, dal quale riportiamo il paragrafo dedicato:

"Quando la cappella di Santa Croce fu eretta a Parrocchia, nella cura fu compresa la cappella detta di "Santa Maria a Toscanella".
Era un luogo che nel 1714 comprendeva sei nuclei familiari di contadini: Giulio Coppola, coniugato con Giuseppina De Sanctis; Giuseppe Riccio, coniugato con tale Trinchilla; Aniello Semiolo, coniugato con V
ittoria Fontana, Stefano Semiolo, coniugato con Angela Riccio, Giovanni Maisto, marito di Angela Capuozzo e tale Giovanni Sollo, marito di Mattia Ligorio.
Le anime da comunione (cioé dagli otto anni in su) erano 31.
Nel 1799 la cappella era di giurispatronato dei signori Piscicelli-D'Aragona. Attualmente
(anno 1988) i D'Aragona posseggono ancora dei fabbricati colonici nella via del Portone, verso il Frullone.
Essa si trovava proprio al limite del territorio della città di Napoli, in cui era compresa.
L'incrocio di Toscanella, detto poi "Fondina", aveva una certa importanza: di lì, attraverso la via del Portone, poteva raggiungersi il Frullone (da non confondersi con l'attuale ospedale Psichiatrico "Frullone", che ne porta il nome situato proprio sulla scogliera del Frullone), quindi S. Rocco e Napoli, senza dire che la via incrociava, prima di raggiungere il Frullone, la strada che portava "ai Quaranta" e l'altra che, per la masseria di Nicola Bisogni, portava a Ponte Caracciolo (queste strade esistono tuttora). Sempre all'incrocio di Toscanella partiva la strada che portava a Santa Croce; l'altra che portava alle attuali masserie dei Rusciano, al limite del fondo dei Monaci di S. Teresa della Madre di Dio, e quella che conduceva  al Casale di Polvica, dove era il palazzo del Barone e quello del Governatore o Capitano del feudo.
Nel 1779, come si rileva dalla mappa di Giambattista Porpora, ingegnere della Regia Camera della Sommaria, per raggiungere Santa Croce, a Polvica, vi era un'altra strada, accosto all'edicola della Madonna della Croce, alla via  Croce che passava a confine della masseria Paratina, ancora oggi visibile dal largo antistante il cimitero di Chiaiano.
Con decreto dell'Arcivescovo del 29 ottobre 1884, il Rione Toscanella fu scorporato dalla curia parrocchiale di S. Croce e annesso al beneficio della parrocchia di S. Nicola di Bari in "pago pulvicae", cioè al casale di Polvica. Lo stesso parroco di S. Croce, don Luigi Verrusio, non si oppose allo scorporo, attese le difficoltà di comunicazione fra Toscanella e S. Croce.
Verso la fine, salendo da Polvica, dalla Via antica Toscanella, vi era la masseria detta "la Caracciola" dove, nel 1646, vi era la cappella di S. Nicola che apparteneva a Anniballo (Annibale) Capace, che nella S. Visita di quell'anno fu  rivenduta piena di foglie e utilizzata per deposito di vino.
Molti si domanderanno perché il ponte comunemente viene denominato "della Caracciola" e non Ponte Caracciolo. Nei secoli scorsi spesso i cognomi diventavano maschili o femminili a seconda del sesso della persona cui si riferivano; così per Caracciolo che, riferendosi a masseria, diventava masseria la Caracciola".
In merito alla via Barone, a cui si riferisce il testo, il toponimo deriva sicuramente dal Barone Salinas, che un tempo aveva la sua nobile residenza in questa parte del territorio. Di questa struttura restano solo alcune tracce architettoniche sopravvissute. Nel territorio era presente anche la masseria detta dei Teresiani, con annesso tenimento di proprietà dei padri di questo ordine, che avevano in zona anche altri appezzamenti agricoli.
Altra menzione della via Toscanella la troviamo nella celebre guida: Napoli e i napoletani - Guida generale pratica illustrata”, anno 1935. Ed. “La Voce di Napoli”. A pagina 70 si legge: “Polvica (frazione) di Chiaiano. Trovasi a termine del Corso Umberto I° (da via S. Maria a Cubito) e comprende le seguenti vie e piazze: Nicola Romano, Barone, Toscanella, Croce, Chiesa, Napoli e Arco di Polvica”.
Mentre a pagina 91, si legge: “Toscanella (via) Chiaiano. In continuazione delle vie: Corso Umberto I° e Barone – va alla località Ponte Caracciolo, incontro via Margherita.” Infine, a pag. 34 si legge: "Cupa Capuozzi: In continuazione di via Toscanella. Si perde nelle campagne”.

Come si deduce dalla lettura, la maggior parte delle notizie sono state prese dai registri parrocchiali delle chiese del luogo, che sono preziose testimonianze storiche dei territori trattati, a volte uniche fonti disponibili da consultare. In merito all'etimologia del termine "Toscanella" ancora nulla sappiamo di certo. Secondo le fonti consultate, doveva essere il nome di una masseria  esistente in antico tempo nel territorio, ma non si conosce l'origine del termine; tuttavia diverse località dell'Italia centrale presentano il toponimo di "Toscanella", come nel Lazio. Infine, alcune mappe antiche del territorio mostrano il percorso del corso d'acqua che scorreva sottostante al ponte "della Caracciola".

Salvatore Fioretto

venerdì 5 novembre 2021

Il grano e le noci... la ricchezza del nostro popolo...!

Il grano… simbolo di abbondanza!

Il paesaggio agricolo, che un tempo circondava Piscinola, ha conosciuto per secoli il caratteristico colore giallo-oro del grano.

Questo frumento è stato, infatti, coltivato in maniera intensiva fino agli anni ‘40-’50 del secolo scorso, spesso nelle zone agricole sottostanti i vitigni e le piantagioni di alberi da frutta.
La semina e la mietitura del grano erano effettuate esclusivamente a mano. La prima utilizzando piccoli aratri manuali (ferrillo), mentre la seconda con l’aiuto di piccole falci (sarrecchie).
Appena eseguita la semina del grano, i campi dovevano essere sorvegliati costantemente per non farli depredare dagli uccelli. Per tal motivo, a bambini e ragazzi veniva affidato il compito di allontanare gli uccelli dai luoghi della semina. Essi si munivano di bastoni e di contenitori metallici (buatte), con i quali si recavano nei campi producendo rumori fastidiosi per i volatili e cantando ad alta voce questa cantilena:

 Sciò sciò l’auciello,
‘a dint’ ’o ggrano d’ ‘e zzio Aniello,
Sciò sciò auciello…!
Sciò, sciò…!

Il grano, dopo la mietitura, era raccolto in piccoli fasci, legati tra loro utilizzando alcuni steli della stessa pianta.
I fasci erano, quindi, disposti in covoni, per proteggerli dall’umidità notturna o da eventuali piogge. Successivamente grandi quantità di grano erano trasportati nel centro di Piscinola, per essere trebbiato.
Nei pressi di via Napoli Piedimonte d’Alife (‘o canciello) si disponeva di una grande trebbiatrice, che di volta in volta eseguiva la trebbiatura del grano raccolto da ogni singolo contadino.
Questa operazione era considerata una ritualità nel mondo contadino di allora, proprio come un avvenimento di festa, tanto che ogni anno accorrevano per l’evento molti ragazzi e bambini, ma anche donne, uomini e anziani. Tutti erano intenti ad ammirare il concludersi di un ciclo della natura, ma anche ad osservare la gioia che si leggeva sui volti dei contadini, per il buon raccolto portato a termine.

Se la quantità di grano prodotta era invece modesta, la separazione dei chicchi di grano dalle spighe era fatta, come già si è detto, a mano, nelle aie delle masserie. Tuttavia la lavorazione del grano non finiva con la trebbiatura e la pulizia. I semi di grano, infatti, erano riposti in sacchi di canapa, adagiati sui pianali dei carri e portati al mulino, per essere trasformati in farina.
I mulini si trovavano nelle zone di Secondigliano, di Mugnano e di Calvizzano.





L'arte della panificazione

Scavi di Pompei, macina del grano e forno
Tutte le masserie ed alcuni cortili del centro storico di Piscinola disponevano in passato di un forno a legna, adibito alla cottura del pane e delle pietanze casalinghe.
Poiché il forno, come è noto, era un bene di proprietà comune, tutti potevano utilizzarlo, ma dovevano pure concorrere alla manutenzione e alla riparazione. Spesso si dava “ospitalità” anche a qualche vicino, il cui forno non era temporaneamente disponibile per manutenzione.
Durante le festività di Natale e di Pasqua ed in occasione della festa del SS. Salvatore si sfornavano una grande quantità di teglie (ruoti) di capretto, pizze rustiche, tortani, casatielli, dolci, panettoni, biscotti e naturalmente di “pastiere”; ma l’uso prevalente dei forni consisteva nella cottura del pane casalingo e dei suoi derivati, soprattutto le “freselle”. In ogni famiglia il pane veniva prodotto con cadenza settimanale.
I forni venivano sempre alimentati con le “fascine“ raccolte nelle campagne. Ovviamente, a ogni cottura, gli utilizzatori dovevano provvedere a fornire la propria quota di legna.
Le “forme” di pane venivano preparate in ogni famiglia abilmente dalle mani esperte delle donne anziane, la sera prima della cottura. Si utilizzava allo scopo farina di grano duro; quella che oggi chiamiamo di “tipo integrale”. Per il lievito si usava uno o due pezzi di pane fatti fermentare qualche giorno prima.
Di solito, quando la panificazione non era giornaliera, ci si scambiava tra i vicini il lievito di pane.
La formazione del pane avveniva secondo una procedura secolare, tramandata da madre in figlia, che prevedeva una manipolazione interminabile dell’impasto: per avere un pane fragrante e soffice.
L’impasto era preparato all’interno delle case, dentro un recipiente di legno (mattala), utilizzando un affilato attrezzo di ferro per scarificare le superfici. La lievitazione dei pezzi di pane avveniva durante la notte. I pezzi erano adagiati in contenitori di legno (dette pianelle) e coperti con teli di canapa. Già alle prime ore dell’alba si procedeva ad accendere il fuoco nel forno e alimentarlo con fascine e altro legname, fin quando la temperatura della camera di cottura non raggiungeva i valori richiesti.
La valutazione era basata solo sull’osservazione e sull’esperienza. Si puliva, poi, attentamente la superficie del forno, asportando la cenere e i carboni ancora presenti, mediante una scopa di “palma” fissata ad un lungo asse di castagno. La scopa veniva immersa nell’acqua più volte, per non farla bruciare.
Dopo la pulizia del forno, si procedeva a infornare il pane con una lunga pala di legno. Una volta completata la sistemazione dei pezzi, si chiudeva la “bocca” del forno con una portina di ferro e si posizionava nella parte antistante della cenere ardente. Sulla volta della portina, dove c’era della fuliggine, si disegnava con le dita una croce e si invocava la Provvidenza, dicendo la frase: “…Crisce ‘e fatte santo” (ossia lievita e santificati).
Durante la cottura si controllava ripetutamente il pane, spostando e capovolgendo ripetutamente i pezzi, mediante un asse di legno (scazzaturo).
Quando il pane era finalmente cotto, si procedeva a sfornarlo ed a pulirlo accuratamente dalla cenere, mediante teli di canapa. Dopo un breve raffreddamento, i pezzi di pane venivano posti in cesti di castagno (sporte) e trasportati in casa, spesso sostenuti abilmente sopra testa.
Le “freselle" erano ricavate da piccoli pezzi di pane a forma di ciambella e presentavano due fasi di cottura. Si procedeva ad una cottura iniziale, dopo la quale le ciambelle si sfornavano e si tagliavano in due metà sulla linea circonferenziale.
Successivamente si rinfornavano i pezzi, provvedendo a farli cuocere lentamente, fino a quando non assumevano la consistenza richiesta, ossia l’essere diventati dorati e croccanti.
C’è da dire che il pane di una volta, al contrario di quello di oggi, durava almeno una settimana senza indurirsi, mantenendo quasi invariato il sapore e la freschezza.

Le noci
La raccolta e la lavorazione delle noci rappresentavano un altro dei momenti d’aggregazione più importanti della civiltà contadina delle nostre zone e dimostrano quanto fosse forte il legame di solidarietà storico che si era instaurato tra le famiglie piscinolesi.
Le foto aeree del territorio di Piscinola eseguite nel 1929, ma anche quelle eseguite negli anni ‘40 e ‘50, mostrano un territorio pieno di alberi di noci, distribuiti nella piana di Scampia: costeggianti le strade principali, le stradine interpoderali, le cupe e la linea della ferrovia Napoli-Piedimonte.
L’albero di noci ha trovato dalle nostre parti un’ambientazione favorevole per la sua coltivazione, sia per la buona posizione geografica e morfologica, perché predilige un terreno asciutto, particolarmente ricco d’elementi minerali favorevoli al suo sviluppo, sia perché il clima ventilato scongiura il manifestarsi di pericolose malattie vegetali, a cui il tipo d’albero è sempre stato soggetto.
La lavorazione delle noci ha trovato sempre un mercato favorevole e, dopotutto, gli alberi erano anche un ottimo investimento a lungo termine, perché il legno era ed è, tutt’oggi, considerato pregiato nell’industria dei mobili e di altre applicazioni del settore, come parquet, strumenti musicali, ecc.
Gli alberi non richiedevano di particolari cure.
Solo quando erano nella fase di crescita dovevano essere tutelati da una specie di grosso verme, che scavava nel fusto enormi e dannose gallerie.
Raramente necessitavano di potature, se non quelle utili per guidare le giovani piante e quelle occorrenti per la pulizia dai rami secchi. Non occorrevano neanche trattamenti o concimazioni.
L’attività principale era la raccolta delle noci.
Essa aveva luogo a settembre, quasi sempre dopo la festività del “Nome di Maria”, dipendeva comunque dal clima. Infatti l’evento decisivo per la raccolta era la caduta delle prime pioggerelle settembrine, associate al clima ancora caldo.
Questa condizione meteorologica favoriva l’apertura del mallo e il distacco delle noci dai rami. La raccolta delle noci (scugnare ‘e noci), avveniva mediante la bacchiatura, ossia con l’aiuto di grossi assi o pertiche di legno di castagno (fruvoni), lunghi fino a 5 metri.

La raccolta delle noci (disegno)
Con queste pertiche si soleva bacchiare (ossia “scrollare”) le cime dei rami e quindi far cadere le noci. Per raggiungere le cime degli alberi, che a volte superavano i 20 metri di altezza, i bacchiatori (‘e scugnatori) eseguivano una vera e propria scalata della pianta, come veri e propri equilibristi, senza scarpe e senza alcuna protezione. Quando raggiungevano un ramo di appoggio “favorevole”, gli “scugnatori” si posizionavano in maniera stabile, seduti o appoggiati su uno dei rami e iniziavano a bacchiarli, agitando il “fruvone” con le due braccia.
Quando la bacchiatura terminava, essi si spostavano su un altro albero vicino, mentre una squadra variegata di anziani, bambini, donne e uomini procedeva a raccogliere le noci cadute al suolo.
Le noci erano raccolte in cesti (sporte) e, successivamente, riposte in sacchi di iuta o canapa, per il trasporto ai luoghi di trattamento e d’immagazzinaggio.
I sacchi pieni di noci si legavano e si trasportavano nella masseria, con l’aiuto di carriole o carri.  Nella stessa sera o in quella del giorno seguente, le noci erano versate in un’apposita macchina specializzata per l’eliminazione del mallo. Questa macchina era composta da una sorta di crogiuolo in acciaio, tutto rivestito con legno e chiodi, con la base circolare rotante.

"Smallatura" delle noci, foto di gruppo in cortile di via V. Emanuele a Piscinola, anni '60

Il movimento di rotazione era conferito da un motore a scoppio carrellato e da una grossa cinghia di trasmissione in cuoio.
Quando le noci erano nella macchina veniva spruzzata anche dell’acqua per favorire la pulizia delle stesse dai residui di mallo. Nella parte sottostante la macchina fuoriuscivano i residui di mallo, che attraverso un breve canale erano immessi nella campagna circostante. Il mallo costituiva un ottimo concime naturale.
Le noci pulite erano estratte dalla macchina attraverso una porticina laterale ed erano successivamente riposte su un grosso tavolato, per essere selezionate. Dopo la selezione, le noci venivano messe ad essiccare, distribuite sui solai delle abitazioni (lastreco).
L’operazione di essiccatura durava circa una settimana.
Ogni sera, eccetto la prima, le noci dovevano essere raccolte in cumuli, mediante attrezzi di legno a forma di rastrelli. I cumuli andavano coperti con sacchi e tende, per proteggere le noci dalla brina notturna o dalle eventuali piogge. Il contatto con l’acqua o l’umidità notturna avrebbe, infatti, favorito l’insorgenza di muffe e l’apertura dei gusci.
La distribuzione delle noci sul solaio doveva essere molto accurata, perché lo strato di noci doveva risultare uniforme per avere un’essiccazione omogenea. Terminata l’essiccazione, le noci venivano raccolte in sacchi e riposte nei depositi fino al momento della loro vendita.
Il commercio delle noci poteva avvenire in due modi: “per conta” o “per peso”. Il metodo “per conta”, ossia per numero di noci contate, era adottato quando le noci erano venute “verdi”, ancora con il mallo; mentre quello “per peso” era utilizzato quando le noci erano vendute “secche”.
Per avere un numero di noci equivalenti a un chilo di noci secche si dovevano contare almeno “cento noci” verdi con mallo e si doveva poi aggiungere a queste una certa percentuale di noci, per sopperire alle parti difettose e agli scarti. Spesso per la vendita ci si affidava ai sensali della zona (‘o sanzaro).
Quando le quantità di noci raccolte erano modeste ed erano destinate al solo uso familiare, la pulizia ed il lavaggio delle noci erano eseguiti a mano (scurzare ‘e nnoce). Anche in questa circostanza un nutrito numero di parenti e amici si raccoglieva nei cortili e procedeva a “scurzare” le noci. L’evento, che si ripeteva annualmente, si trasformava spesso in una piccola sagra, con tanto di canti, schiamazzi, racconti, risate, degustazione di buon vino e dell’immancabile caffè. Alla fine dell’attività tutti i partecipanti si trovavano con le dita delle mani colorate di “nero pece”…!!

Rievocare oggi, quando siamo nel cosiddetto terzo millennio, questi aspetti storico-antropologici del nostro territorio, ci porta a percepire una delicata sensazione di bellezza e di purezza e, soprattutto, la vita di un popolo che scorreva legata alla coltivazione della terra, che si rinnovava col cadenzare delle stagioni e con i suoi raccolti genuini e abbondanti. Era quello un rinnovarsi della vita, perché il raccolto era visto come una garanzia per il sostentamento della famiglia, assicurato per un intero anno. Altri tempi diremo oggi; purtroppo il cosiddetto benessere, di cui ci fregiamo di godere, ci ha privato invece di poter apprezzare queste semplicità della vita e la bellezza della natura incontaminata e, con esse, di avere un più sentito senso di appartenenza al territorio. 

Salvatore Fioretto

 

I testi pubblicati in questo post sono stati interamente tratti dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore", anno 2010, ed. The Boopen, di S. Fioretto. Le foto inserite sono tratte in gran parte dal Web da siti diversi, a cui si rimanda per la consultazione.

venerdì 29 ottobre 2021

Miano nella Campania Felice. Origini storiche del Casale di Miano, tratte da G. Monaco

"Siamo andati frugando tra le opere degli scrittori che prima di noi hanno fatto almeno cenno della storia del nostro Villaggio, ed abbiano trovato materia, se non esaudiente, almeno bastante per farci conoscere qualcosa sulla esistenza di Miano in quei secoli che dall'insipienza di molti sono chiamati ancora oggi i giorni oscuri del Medio Evo."

Tavola Peutingenaria (XII- XIII secolo)

Cosi iniziava il "Capitolo III" lo scrittore don Gabriele Monaco, nel suo saggio storico "Miano nella Campania Felice" (anno 1977, ed. Laurenzana Napoli), per introdurre le antiche origini storiche del Casale di Miano, ossia del quartiere di Miano che oggi ne eredita il toponimo. Il capitolo s'intitola: "Miano dai tempi del Ducato a quello degli angioini".
Abbiamo pensato, per onorare la storia del territorio, così importante ed a noi vicino, di riprendere un po' il tracciato della sua secolare origine, alla pari dei tanti casali del circondario: Piscinola, Marianella, Secondigliano, Chiaiano e tanti altri, prendendo in prestito il testo menzionato. Ecco il continuo dell'interessante libro scritto da Gabriele Monaco:
 

Imperatore Federico II di Svevia

"A cavallo del primo e del secondo millennio dell'era cristiana Miano ormai occupava uno dei posti non insignificanti nella storia del territorio napoletano. Ora vedremo qualche pagina della sua storia  dai primi  decenni del secolo X all'epoca degli Angioini.
Dall'anno 921 all'anno 1034 abbiamo almeno 18 documenti - tutti atti notarili - che ci parlano con indiscutibile sicurezza dell'esistenza di Miano, in un primo momento come di una piccola località, poi come una vera "Pagus" ossia villaggio, abitato ormai come tanti altri "pagi" dello stesso territorio.
Data la mole della materia contenuta in tutti i documenti, noi separeremo, per così dire, gli argomenti in essi trattati. Diremo, cioè, in breve quanto serve ad ubicare Miano; in un secondo momento riporteremo i nomi dei personaggi in ciascuno di essi nominati, per poter dare ai lettori uno specchio delle singole persone e specialmente dei primi nuclei familiari che abitarono a Miano in quei lontani tempi, ossia, ben oltre mille anni or sono.

Ricostruzione di un casale dell'epoca in terra di Aversa
Da una "chartula donationis" del 24 febbraio del 921 si apprendono notizie di terre esistenti "in pulianum (da non confondersi con Pugliano ad Ercolano) loco calberitianum (=Calvizzano); e di terre "portionis nostre posite intra pertinente de fundum nostrum in casamiana: et eum tibi dedimus per mensura  a parte  orientis circa terra sancti andrea..."- Facciamo notare qui una volta per sempre che i testi saranno riportati così come giacciono nei documenti - siamo all'alba della nascita delle prime parole della lingua italiana, che si trovano nel celebre placito di Capua, conservato a Montecassino.
La nota di chi nel volume commenta questo passo ci ammonisce che egli ritiene essere indicati coi nomi "Casamiana e Puliano" dei luoghi e non ancora villaggi, sol perché da alcuni autori, anche antichi, essi non sono nominati tra i villaggi del nostro agro; tuttavia, a pochi anni di distanza, si parlerà di essi appunto come villaggi, ossia di luoghi abitati da nuclei di famiglie, villaggi che venivano promiscuamente chiamati "vici", "oppida", "terrae", "villae" e finanche "castra" ossia castelli. In una "chartula venditionis" del 1° maggio del 945 già si parla di Miano come di un "pagus" ossia villaggio.
Mappa dela città di Napoli, Antonio Lafreri, 1566
Detto documento parla di un tal Pietro abitante "de loco qui vocatur miana". Si parla ancora di "... integra una petia mea de terra que posita in campo de miana". Quoherente sivi (=Coherente sibi) ab uno latere terra monasterii sanctorum nicandri er marciani puellarum dei...". Detto monastero - esistente in Napoli - sarà dopo pochi anni, chiamato di S. Patrizia, essendovi stato deposto il corpo di questa vergine, il cui culto si è ripreso in maniera veramente straordinaria ai nostri tempi in S. Gregorio Armeno, ove le sante sue reliquie han trovato riposo, dopo il loro trasferimento avvenuto nel secolo scorso.
Carlo I d'Angiò. Palazzo Reale di Napoli
In questi due documenti vediamo fatta menzione di terre appartenenti a chiese esistenti in Napoli.
In una "chartula donationis" del 30 ottobre del 947, in cui si parla "de loco qui vocatur miana", si trova indicato un pezzetto di terra chiamata "viniole ad casacaldari" e di un'altra terra chiamata "casavidua"; una terza è la terra di "ihoanni papa...". "Viniole" ci autorizza a ritenere che la terra era coltivata a viti; i due toponimi indicano due distinte zone del villaggio che va ingrandendosi.
Si parla di un tal Bonito come di abitatore di Miana, che vende una terra sita appunto in "campo de Miana" in una "chartula venditionis" dell'8 febbraio 957.
Il 10 gennaio del 958 una "chartula venditionis" parla chiaramente di "abitatoribus in nominato loco miana" e tra questi è Pietro Manco, certamente uno degli antenati (se non addirittura il capostipite) dei nobili Manco viventi ai nostri tempi. Si parla di questo luogo Miana in ben tre documenti degli anni 965, in altri del 970 (in cui è indicato un posto chiamato "anglone") del 971, del 973, del 981, del 994, del 997.
Tavola coronografica della Campania in periodo ducale (secolo XI)

All'inizio del secondo millennio, e precisamente il 15 dicembre del 1001, troviamo indicato il "campo de miana". In un accordo tra il monastero dei Santi Severino e Sossio (strettamente parlando, si deve scrivere Sosso), e le figlie di un tal Giovanni nominato dischipulo si parla di una "terra que vocatur centula in loco qui dicitur miana".
Importantissima per la storia delle nobili famiglie di Miano, è una "chartula permutationis" del 15 febbraio del 1021, perchè essa, parlando di persone che dicono "...abitate videmur in loco qui nominatur miana" accenna chiaramente ad un tale Stefano detto scarola, figlio del fu pietro scarola.
Del periodo normanno (1129-1195) abbiamo un documento del 19 giugno 1130. Tra l'altro vi leggiamo il nome di "leone visconte de illa fidantia de caput de monte: filio quodam scampi visconte de illa fidantia de illi sorelli...". Parlando di confini di terre, il documento ci fa sapere che v'è una via pubblica che "va a miana ed a parecchie località".
Dei tempi degli Svevi, venuti con Arrigo VI, figlio dell'imperatore Federico I (Barbarossa), abbiamo notizie nelle carte angioine. Carlo I d'Angiò fu coronato re nel 1266. Nel periodo 1271-1281 è nominata la "Villa Miani". Nei quaderni della particolare tassazione dei tempi dell'imperatore Federico son ricordati alcuni individui "in villa Miani". Eccone i nomi: Sergio de Amarancio, Giovanni Coco, Ligorio Coco, Cesario Coco. In un cedolare di epoca angioina, in cui son notate le tasse imposte ai casali secondo il numero dei fuochi, ossia famiglie, al 27° posto è segnata "Mianella", ed al 28° "Mjana", e Miano era segnato tra i casali "popolari" e "tassati".
Carlo D'Angiò, che non era mai sazio di denaro - oltre che di sangue umano -, appena preso possesso del regno, ordinò di accelerare la raccolta di quanto era dovuto ai tempi di Federico imperatore, aggiungendo altre imposizioni".

Quanto abbiamo letto, dalla preziosa testimonianza di questo scrittore, è l'ennesima prova che il territorio a nord di Napoli, un tempo popolato da nobilissimi Casali, è pregno di storia e ha origini antichissime. Per questa sua antichità, esso merita rispetto e considerazione, alla stregua delle membra del "corpo" che è la città di Napoli, con la sua antica storia millenaria.      

Salvatore Fioretto

PS: Abbiamo riportato in testo integralmente, così come scritto, compreso i nomi dei luoghi e delle persone, che sono riportati in minuscolo.

Veduta della città di Napoli a volo d'uccello (Tavola Strozzi, fine XV sec.)