venerdì 18 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! Frutta e primizie... (terza parte)

(segue dalla seconda parte)
Abbiamo fin qui descritto le colture orticole della nostra bella campagna che fu, ma come tutti sapranno le eccellenze della nostra terra furono i suoi prodotti frutticoli, che un tempo erano apprezzati e ricercati per la loro "squisitezza" e prelibatezza, soprattutto sulle tavole degli abitanti cittadini.
Raccoglieremo in questo post le varietà di frutta più antiche e diffuse, fermo restando che l'elenco, come è logico pensare, non è esaustivo perché, considerando la vasta estensione del territorio dell'Area Nord in esame, sicuramente ci saranno state altre varietà di frutta non registrate nei nostri taccuini, per l'assenza di testimonianze dirette. Provvederemo, come facciamo sempre, ad aggiornare nel tempo l'elenco, con altre varietà che via via scopriremo.
Prima di iniziare la trattazione, ricordiamo che la tipologia di agricoltura praticata in questo territorio era di tipo "intensiva e mista", infatti, contestualmente alle colture
di frutta e delle viti, nella parte sottostante ad esse si praticavano anche le colture di cereali (grano e orzo), la canapa e anche gli ortaggi (granoturco, fave, ecc.). A tal proposito le distanze tra gli alberi e delle viti erano determinate in base all'esperienza maturata nei secoli, conseguente a questa particolare pratica agricola adottata.

Pesca "Bellella di Melito"

Il genere di frutta più apprezzato e diffuso, prodotto nella piana di Napoli Nord, compresa tra Piscinola, Miano e Scampia, è stato quello della pesca, sia a pasta bianca che a pasta gialla (percoche). Già in passato in un altro post di questo blog abbiamo narrato l'attività di ricerca di nuove varietà di pesche condotta dall'avv. Domenico del Forno, che possedeva un fondo agricolo a Piscinola, con accesso dalla zona chiamata "Capo 'a Chianca". Del Forno, infatti, alla fine selezionò una tipologia di pesca precocissima, che fu anche pubblicizzata su alcune riviste specializzate dell'epoca (dalla Rivista di Ortofrutticola Italiana, ed. in Toscana, anno 1953); questa neonata varietà di pesca fu chiamata: "Pesca Mimì del Forno".

Altri selezionatori conosciuti di pesche furono i componenti della famiglia piscinolese che avevano un fondo situato anch'esso nella parte meridionale di Scampia, vicino a Piscinola, prossimi al cosiddetto "Fondo Cancello", che erano soprannominati: 'e Maricella.
La varietà di pesca da loro selezionata fu inizialmente chiamata "Torca Maricella" (in onore dei suoi scopritori), e successivamente: "Torca Maggiaiola". Ma c'erano anche altre varietà di pesche, che si distinguevano in "precoci" e "tardive". Le "precoci", che avevano sempre un buon mercato, per essere primizie sulle tavole cittadine, erano le varietà chiamate: "Maggiaiole", "Fiori di maggio" (Sciure 'e maggio) e "Morettine", queste maturavano già nel mese di maggio, mentre le varietà "tardive", che erano apprezzate per essere disponibili fino alla metà dell'estate, erano quelle chiamate: "Bellella di Melito", "Torche" e "Brasilese". Mentre la varietà principe di Piscinola, notoria a tutti per il suo inconfondibile sapore, era quella soprannominata "'Ntonio 'o Riccio". 
Per le pesche a pasta gialla (percoche), ricordiamo la varietà chiamata "'e Pitulanie" (forse da "Puteolane"), gustate in principio d'estate, tagliate a spicchi e immerse nei boccali di vino rosso, oppure conservate "sotto spirito".
Il ciclo di produzione e l'impianto degli alberelli di pesco era completamente autonomo qui da noi, nel senso che non si importava nessun elemento per eseguire la loro propagazione. Infatti, per produrre i nuovi alberelli di pesco, i cosiddetti "franco o portainnesti", si impiantavano alcuni alberi di pesco selvatico, che erano chiamati "Paccarelle". Queste varietà producevano delle pesche, ovviamente selvatiche, che maturavano a fine estate, di colore paglierino, dalle quali si traevano i noccioli, che poi venivano messi a germogliare, in un apposito "letto" di terra, chiamato "ossacane".
Prugne "Pappagone" bianche
Trascorsi due anni dalla semina, quando le pianticelle erano abbastanza sviluppate, si provvedeva al loro espianto e al conseguente trapianto nelle campagne, poste a distanza regolare, secondo una maglia quadrata dalle dimensioni stabilite dall'esperienza agricola, generalmente di circa quattro metri per lato.
Trascorso un anno ancora, si provvedeva a innestarle (a fine agosto), con la tecnica "a ùocchio", ossia "a gemma dormiente", scegliendo le varietà di pesco preferite, attraverso le marze selezionate dagli alberi noti e già fruttificanti. Ovviamente c'erano anche degli specializzati innestatori, che esercitavano l'attività, traendone un sufficiente sostentamento.

Altri generi di frutta, molto diffusi nelle campagne nostrane, erano le prugne e le albicocche. Per le prugne ricordiamo le varietà: "Pappagone" (sia nere che bianche), "Cardinali", "Ciocche Cardinali", "Prunarie", "Gocce d'oro", "Verdoni" e "Santa Clara". La varietà più tardiva, anche se più usata nelle zone collinari di Chiaiano, erano quella chiamata "Settembrine", estremamente dolci e succulenti che, come dice il nome, maturavano a settembre. Per le albicocche ricordiamo le varietà "Pellecchielle" e ''Cresommole d''o Prevete".
Esposizione di tutte le varietà di ciliegie prodotte a Chiaiano
Per propagare gli alberi di pruno e di albicocco si utilizzavano i polloni che si sviluppavano alla base delle piante, che a loro volta erano dei portainnesti selvatici del genere botanico Prunus.
Per le ciliege, che come è noto prediligono le zone collinari e un terreno asciutto e ben drenato, come quello di Chiaiano, Marianella, Mugnano e Marano, qui pure si disponevano diverse varietà antiche e prelibate. C'era, innanzitutto, la famosa e produttiva varietà "Recca", dalle origini leggendarie..., forse risalenti alla penisola Iberica. Ma c'erano anche le altre varietà antiche chiamate: "Campanare", "Campanarella", "Maiatica", "Ferrovia", oltre alle piante di Amarene e Marasche, che venivano coltivate in numero limitato per sostenere le produzioni casalinghe di: amarene, marmellate, ciliege "sotto spirito" e rosoli.
Riguardo alle pere, eccellevano le produzioni presenti nelle campagne ubicate tra Piscinola e Mugnano, con le varietà di "Mastantuono", "Cosce 'e Firenze", "Belledonne" e una varietà piccolina, precoce e molto produttiva di pere, che qui erano chiamate "Pere Annizzate".

Pere "Cosce di Firenze"
Mentre, per le noci, erano le campagne che si trovavano a Piscinola ad avere la maggior produzione, con intensivi e diffusi "nocelleti". Le foto antiche di Piscinola, riprese dall'alto, mostrano tutti i bordi delle strade, i confini, le delimitazioni di sentieri, i terrazzamenti e anche i margini della linea ferrata della ferrovia Piedimonte d'Alife, piantumati interamente con alberi di noce. Alcuni piscinolesi di un tempo si erano ben organizzati e anche attrezzati con macchinari da essi acquistati, per eseguire autonomamente la pulizia delle noci dal mallo ("macchine per scorzare" azionate con motori diesel), e per eseguire tutte le lavorazioni del ciclo di produzione fino a ottenere le noci secche, tanto che diverse famiglie provvedevano anche ad acquistare ingenti partite di noci al di fuori del territorio, quando queste erano ancora sugli alberi, ed eseguire tutte le lavorazioni di raccolta e di preparazione in proprio.
Uva "Piedirosso" (foto vitigno di Piscinola, anno 2004, di S. Foretto)
Per l'uva abbiamo già dedicato un post al vitigno più antico e diffuso nel territorio, descrivendone la storia, ovvero al "Piedirosso" ("Pere 'e Palummo"). Ma c'erano anche altri vitigni qui impiantati per la vinificazione, che erano quelli chiamati: "Mangiaguerra", "Parasacca", "Castagnara", "Code 'e cavallo" e un vitigno simile alla "Code di Volpe", che qui chiamavano "Pisciazzella", per l'abbondante produzione di vino bianco, ma dalla bassa gradazione. Per dare maggior colore e gradazione al vino rosso, si coltivavano i vitigni chiamati: "Marsigliese" e "Suricillo". Non mancava l'uva "Fragola", sia nella varietà bianca che rossa.
Uva "Fragola" nera
L'uva Fragola bianca era usata esclusivamente da pochi referenziati, come "uva da tavola", mentre l'uva Fragola rossa, oltre a essere usata come "uva da tavola", si vinificava, ottenendo un leggero ma profumatissimo vino, chiamato "Fravulella", molto apprezzato soprattutto dalle signore, per la sua bassa gradazione.
Ancora, per le "uve da tavola", ricordiamo la romantica "Uva Rosa" che adornava con i suoi vitigni pensili, dai grandi grappoli d'uva rosati, i cortili e le aie delle nostre antiche masserie. C'erano anche le varietà di "Zibibbo" (qui chiamata "Zizza 'e Vacca") e quella di Moscato bianco ("Muscarella"). Infine, gli acini dell'uva Pizzutello (uva cu 'o pizzitiello), erano utilizzati per la produzione di '"uva sotto spirito".
Fichi "Nataline"
Gli alberi di fico erano piantati specialmente nei giardini e nei terreni prossimi alle masserie. C'erano diverse tipologie anche per questa frutta, infatti troviamo le varietà: Troiane, Allardate, San Giovanni e San Pietro (queste ultime due avevano una doppia produzione annuale). Però quelle più produttive e anche di lunga durata, erano quelle nere chiamate "Nataline". Le "Nataline" erano dette così perché i frutti restavano a maturare sui rami degli alberi, fino alle festività di Natale, anche se già spogli delle foglie.
Altro genere di alberi da frutta, molto diffusi tra Piscinola e Mugnano, erano i cachi ("legnasanti"), i cui frutti perduravano fino all'autunno inoltrato, quando rimanevano appesi ai rami degli alberi e facevano bella mostra nel paesaggio ormai brullo di verde, tanto da  sembrare tanti "Alberi di Natale"!
Durante i viaggi sui treni della Piedimonte erano questi particolari del territorio che più colpivano l'attenzione dell'osservatore...
I frutti di cachi, della varietà chiamata "'a Vaniglia", erano precoci, usati per essere mangiati ancora duri e anche per realizzare dei mazzetti da appendere, per essere conservati per l'inverno.
Altra tipologia di frutta antica, oggi ormai dimenticata, erano le sorbe ('e sòvere). Gli alberi di sorbo erano sporadici, anche se presenti un po' ovunque, per consentire di avere una riserva di frutta nel periodo invernale; infatti le sorbe, che qui erano del tipo chiamato: "Nataline", iniziavano a maturare a Natale e duravano tutto l'inverno; esse si raccoglievano acerbe e venivano conservate raccolte in mazzetti, da appendere poi ai muri delle masserie o ai balconi delle abitazioni, dove subivano il cosiddetto "ammezzimento", ovvero la maturazione. Gli alberi di sorbo sono particolarmente longevi, tanto da diventare secolari.

Sorbe "Nataline"

Nella zona di Chiaiano (ma diffusi anche nei giardini del territorio in oggetto), era frequente incontrare gli alberi di gelso, che producevano frutta, sia a bacca bianca che nera ("'e Cevuze"). C'è da dire che questo tipologia di coltura è molto antica, strettamente collegata alla produzione della seta, un tempo qui molto diffusa: infatti, come si sa, per la sua produzione era necessario l'allevamento del baco da seta, che si nutriva ovviamente di foglie di gelso.
Per le mele, la parte da leone la faceva Mugnano e le sue campagne, con la rinomata e saporita varietà di mela chiamata "Annurca". Non mancavano anche le mele, dette 'a Limongella, per la loro piccola forma, anche le mele "a Banana" e quelle dette "Cape 'e ciuccio". Le mele "Annurca" erano messe a maturare su "letti di paglia" e fatte cambiare
periodicamente la loro posizione esposta al sole, dopo un prefissato intervallo di tempo.

Gelsi, varietà a bacca bianca e nera
Ricordiamo, ancora, che dai pini, alberi abbastanza diffusi nel territorio, specie nei tratti collinari, si raccoglievano le pigne (genere chiamato: "Pino Ponteche"), dalle quali si estraevano i pinoli: preziosissimi elementi utili in cucina per preparare le "braciole" e le "polpette domenicali", oltre a pizze e ai dolci tipici. Anche per questi abbiamo dedicato in passato un apposito post in questo blog.
Infine, per gli agrumi, la cui presenza ingentilivano soprattutto i giardini, i cortili e le aie del territorio, dedicheremo in futuro un apposito post per ricordare: i "Giardini delle delizie" di antica tradizione aristocratica e anche popolare.

Mele "Annurca" su letto di paglia

Considerazioni finali: Abbiamo cercato di trattare, in questi tre post dedicati alla "terra gentile e fertile" del nostro territorio, l'eccellenza della sua produzione agricola passata, raccogliendo tutto quello che si è tramandato per tradizione millenaria, attinto sia dai nostri ricordi personali e sia dalle numerosissime testimonianze registrate in questi anni, soprattutto dai tanti anziani, che ci hanno onorato di fornircele, sapendo di essere conservate a futura memoria.

Pere "Mastantuono"
Sicuramente l'attento nostro lettore,  leggendo queste testimonianze, avrà provato una sensazione di bellezza e di armonia, per l'equilibrio esistente tra i metodi di coltura e le sapienti conoscenze agricole degli abitanti, che qui sono state tramandate di generazioni in generazioni. Come pure crediamo che lo stesso lettore sarà stato colto da un sentimento di nostalgia, considerando, poi, cosa sono diventati oggi quei campi, un tempo generosi nel donare frutta, verdure e altri prodotti della terra. Non entreremo in merito alle motivazioni che portarono alle scelte compiute diversi decenni fa e alla metamorfosi subita dal territorio, e nemmeno le giudicheremo, in quanto esulano dagli ambiti di trattazione prefissati in questo blog, che sono racchiusi nella sola diffusione della cultura e della bellezza, che pur ancora oggi esistono nel territorio;
Uva "Mangiaguerra"
tuttavia, chiunque potrà dedurre che aver privato estese zone di questa periferia delle sue ampie campagne, un tempo esistenti, è stato un danno ingente, con il conseguente depauperamento della comunità e la perdita delle sue radici storiche identitarie, senza peraltro aver ricevuto in cambio nessun aiuto per consentire la conservazione della "memoria", nemmeno con una struttura storico-museale di tipo agricola, che avrebbe consentito di far ricordare alle nuove generazioni di oggi e di domani, quelle che furono i fondamenti vitali di questa comunità. Alla fine vale sempre il motto che: una comunità quando conosce da dove proviene, sa anche dove poter arrivare! Ma c'è sempre tempo per rimediare...

Salvatore Fioretto

Tutti i diritti per la pubblicazione del contenuto del blog sono riservati agli autori. E' vietato copiare e divulgare il contenuto degli scritti senza la loro esplicita autorizzazione, secondo le disposizioni di legge vigenti sul diritto d'autore e la proprietà intellettuale.

Albero di cachi, con i frutti ancora appesi

Filari con uva "Piedirosso", vigneto di Piscinola, anno 2004. Foto di S. Fioretto

venerdì 11 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! I prodotti dell'orto (seconda parte)

(segue dalla prima parte)
Tutti i contadini avevano nelle loro campagne o nei giardini, una zona dedicata esclusivamente alla coltivazione degli ortaggi ad uso domestico e, per quanto possibile, destinati anche al loro commercio. A tal proposito ecco come descrive la conformazione urbana e agricola di Piscinola il famoso architetto e scrittore Cesare De Seta, nel libro: "Iconografia delle città in Campania: Napoli e i centri della provincia" ... a cura di ‎A. Buccaro, ed. Electa, anno 2006: "Piscinola, dal caratteristico impianto trilobato, mostra nella suddivisione particellare la diffusa presenza di case dotate di orti retrostanti, oltre i quali si estende la campagna, nonché dei tipici impianti residenziali a corte e ...di masserie periferiche, che caratterizzavano dall’età antica l’intero territorio suburbano".

Broccoli di Natale (Vvruoccoli 'e Natale)

Questi orti erano a conduzione familiare, ed erano curati specialmente dalle massaie, dai fanciulli e dagli anziani, mentre gli uomini (giovani e adulti) eseguivano solo la zappatura e la semina. Deduciamo che questo era il motivo fondamentale che giustificava l'ubicazione di questi orti nelle zone più accessibili e vicine alle masserie e ai caseggiati, ma si trovavano sparsi anche nelle vaste campagne, in vicinanza soprattutto dei pagliai, dei ricoveri degli attrezzi e delle postazioni di stallo per cavalli e asini. In questi orti si praticavano, in ogni periodo dell'anno, diverse tipologie di colture, ben distribuite e suddivise tra gli ortaggi di varie specie (verdure, legumi e varie). I prodotti degli orti erano sufficienti a soddisfare il sostentamento di ogni nucleo familiare, nonostante che all'epoca ciascuno contasse al suo interno numerosi componenti.
Per assicurare una resa costante dei prodotti, la cosa importante da ricordare era quella di eseguire la periodica "rotazione" delle postazioni di semina, di anno in anno, affinchè non venissero esaurite le principali sostanze nutritive del terreno. Il cambiamento della coltura permetteva anche di apportare gli elementi e le sostanze carenti. Questa tecnica è riconosciuta, dagli specialisti di storia botanica, altrettanto antica e anch'essa tramandata dai romani.

Menestrella 'e Pasca

Fin dall'inizio della primavera erano gli ortaggi, cosiddetti "a foglia larga", a prevalere negli orti nostrani, assieme ai legumi.

I broccoli, chiamati semplicemente "minestra di Pasqua" ('a menestella 'e Pasca") rappresentavano una fonte di attingimento costante di verdure per le cucine domestiche, perchè le cime di questi ortaggi, che venivano utilizzate quando erano prossime alla fioritura, erano prodotte dalle piante a ritmo serrato. Occorreva però essere attenti a lasciare integre, durante il taglio, le gemme sottostanti e non farle fiorire, affiché si conservasse la continua loro produzione. Per tale motivo questi broccoli erano soprannominati in gergo locale: "'e cuoglio cuoglio".... La cosa interessante è quella che si poteva disporre della produzione di queste verdure fino ai primi caldi primaverili, praticamente fino alla fine del mese di maggio.


I semi di questa varietà di broccoli erano messi a dimora verso la fine di giugno, in piccoli "letti" di terreno (chiamati 'mpuosti p''a chiantimma), assieme ai Broccoli di Natale ('e Vvruoccoli 'e Natale), in modo che dopo ferragosto, al sopraggiungere dei primi temporali, già si disponeva delle pianticelle da utilizzare per il trapianto nei solchi di produzione ('e linee). I solchi venivano opportunamente preparati con ferrilli e zappelloni (aratri a mano e zappe a forma di triangolo).

I "Broccoli di Natale" erano già pronti per la raccolta nella prima metà di dicembre; essi rappresentavano gli elementi principali per preparare la rinomata "minestra maritata", mentre la menestella 'e Pasca era gustata assieme alla pasta (ai mezzani di Gragnano), con un semplice ma saporito piatto, che richiedeva l'aggiunta di un pizzico di peperoncino.

Friarielli

Altre verdure che non mancavano mai negli orti erano le rape ('e vvruoccoli 'e rape) e i prelibati friarielli: questi ultimi erano una particolare varietà della famiglia delle rape. Tuttavia, considerando che per la coltivazione dei friarielli erano necessarie ampie estensioni di campagna, ecco che gli antichi contadini avevano escogitato una tecnica di coltivazione molto ingegnosa, che potremmo dire "intensiva"; essa infatti permetteva la produzione di significative quantità di "cime di rape", simili ai friarielli, ma utilizzando solo pochi metri quadrati di orto. Le rape, una volta cresciute, venivano reimpiantate su questi "letti" di terreno, preparati a forma di rettangoli regolari e opportunamente concimati nella parte sottostante.
I "letti" (chiamati 'e pòrche) erano conformati con una leggera convessità dal centro verso la periferia, in modo da impedire il ristagno di acqua piovana e favorire il suo deflusso verso i solchi che delimitavano il perimetro. Le rape erano seminate a maglia regolare, distanti l'una dall'altra una trentina di centimetri circa. La tecnica era chiamato in gergo locale "'e vvruoccoli curnati": definizione che tradotta, intendeva significare: "broccoli governati". Infatti, se essi erano ben curati, all'inizio della primavera si otteneva una produzione costante e ininterrotta di "cime di rape", che perdurava costantemente fino all'inizio dei primi caldi di maggio. Col termine di "governo" s'intendeva, quindi, la costante raccolta di "cime", che doveva essere eseguita con continuità, affinchè si impedisse la fioritura (spigare), altrimenti le piante diventavano definitivamente improduttive.
Tra le rape c'era anche la varietà che si sviluppava producendo una sorta di bulbo alla base, che qui chiamavano 'e càtozze; queste parti delle rape erano alquanto dure da mangiare e venivano riservate all'alimentazione delle mucche; purtuttavia, per evitare che le bestie si strozzassero mangiandole intere, l'esperienza maturata dai contadini consigliava che esse dovevano essere preventivamente sezionate (spaccate) in due o quattro parti.
I legumi erano degli altri alimenti che non mancavano mai negli orti del territorio. C'erano  i piselli: quelli utilizzati erano quasi sempre della varietà locale, molto produttiva, chiamati 'e Santa Croce.

Piselli chiamati "Santa Croce"

Questi erano impiantati in file lunghissime e, data la loro significativa altezza di crescita (fino e oltre 2,5 metri), erano sostenuti e "guidati" su rami  di pioppo (frasche), opportunamente infissi nel terreno. Le file di piselli potevano essere affiancate e distanti l'una dalle altre, due metri circa; mentre nello spazio intermedio si piantavano altri ortaggi, sempre su "letto" di terreno, come: lattughe, insalate incappucciate e scarole.
Le fave che dovevano adornare e allietare le tavole primaverili delle case, erano raccolte fresche e accompagnavano i pasti, specie del periodo pasquale, assieme alla ricotta salata, alla pancetta, ai formaggi e vari salumi, oltre ovviamente al pane integrale ('e rrano) e al vino.

Fagioli piccoli chiamati "Villaricca"

Si procedeva anche a essiccarle per poterle utilizzare durante l'inverno, quando erano cucinate assieme alla pasta oppure con sugo di pomodoro.
I fagioli raccolti negli orti erano di diverse tipologie: c'erano innanzitutto quelli celebri, detti 'e fasulille, ovvero i fagioli che venivano raccolti quando erano ancora in via di formazione dentro al loro baccello (conche). Si mangiavano interi, lessi assieme alle patate bollite, opportunamente conditi con olio, sale e limone. Spesso si piantavano anche fagioli rampicanti, sorretti sempre da frasche di pioppi; anche questi erano cucinati come i primi fagioli sopra descritti.

Fagioli detti "cu ll'ucchitiello"

Per la produzione di fagioli freschi, preparati nelle pietanze con la pasta oppure a zuppa, erano coltivati 'e spellucarielli, la cui varietà prevalente era chiamata Borlotti. Mentre la produzione intensiva dei fagioli, da conservare secchi per il periodo invernale, richiedeva l'impegno di vaste estensioni di campagna; per questi era preferita la varietà nostrana, molto produttiva, chiamata 'e Villaricca, che erano fagioli di piccolissime dimensioni, ma molto saporiti. Non mancavano anche quelli dal formato grande, chiamati 'e cannellini. Altra varietà antica, prodotta soprattutto a Piscinola e zone circostanti, erano quelli chiamati "fagioli con l'occhietto" (cu ll'ucchietiello), sia nella varietà bianca che nera.

Patate della varietù chiamate "Ricciuni"

Le patate, di antica tradizione locale e molto adatta alla conservazione invernale, erano chiamati 'e Ricciuni. Erano queste patate di piccole dimensioni, spesso con peduncoli tondeggianti, ma erano molto produttive e saporite. Dopo ogni raccolto annuale, si aveva la premura di conservare una parte delle patate per la semina dell'anno successivo. Solo negli ultimi tempi furono introdotte qualità di importazione, come quelle provenienti dai Paesi Bassi, molto produttive, ma non eguagliavano nel sapore le patate nostrane. L'apprezzamento principale delle patate "Ricciuni" si aveva nel corso dell'inverno, quando si utilizzavano per essere cotte sotto la cenere del camino. Un sapore senza eguali...!

Le cipolle qui in uso erano le varietà che prendevano il nome del mese in cui si eseguiva la raccolta, ovvero: quelle bianche, chiamate 'e Maggiaiole e quelle rosse, chiamate ll'Austegne.
Non mancavano le colture di aglio e dell'aglione, che erano qualità tramandate di generazione in generazione, ad elevata produzione e soprattutto dal grande profumo. La produzione dell'aglio aveva tutta una procedura riservata alla loro pulizia, alla essiccazione e alla conservazione. In quest'ultimo passaggio, della conservazione, per ogni bulbo d'aglio raccolto (capa d'aglio) veniva conservato integro il suo tratto di peduncolo (per circa venticinque centimetri), destinato a essere legato assieme agli altri e realizzare così il classico "mazzetto" da appendere ai muri (mazzo d'aglio). Questi venivano appesi alle pareti dei balconi, agli usci delle casa, oppure negli androni delle masserie e duravano intatti per tutto l'inverno, fino al successivo raccolto.
I pomodori erano sorretti anch'essi dalle frasche di pioppo. Si utilizzavano generalmente i tipi detti 'a fiaschetto. Negli ultimi tempi sono stati introdotte le varietà del Vesuvio (dette cu 'o pizzitiello), le Mezze San Marzano e le Minturno, qualità di pomodori che non richiedevano grandi apporti di acqua per il loro sviluppo. Anche i pomodori erano conservati per l'inverno, ma con diverse tecniche: si producevano le caratteristiche collane, dette piennoli, per essere appese ai muri, oppure erano preparate conserve di pomodori in bottiglie o vasetti di vetro, con l'aggiunta di basilico. C'era però un altro metodo di conservazione, molto più antico dei primi, che era quello dell'essiccazione al sole, dopo averli sezionati in parti sottili ('e pacchetelle). Alla fine della loro essiccazione erano opportunamente ridotte in polvere con l'aiuto di mattarelli o mortai.

Il granoturco era impiantato su grandi appezzamenti di terreno per produrre cibo, utilizzato sia per l'alimentazione delle famiglie e sia per gli animali (galline e suini), anche le parti vegetali delle piante erano utilizzate: le foglie di rivestimento delle pannocchie secche ('e sbreglie) erano usate per il riempimento dei materassi, mentre i fusi delle pannocchie ('e tuderi), venivano bruciati nei camini. Con il granoturco si produceva anche la farina di mais ('a farenella), utilizzata per produrre migliacci fritti o pizze al forno (pizza 'e farenella). Mentre le pannocchie erano cotte su carbonelle ('e spighe arrustute) oppure lessate ('e pullanghelle).
Per i peperoni si coltivavano solo le varietà piccole e verdi, chiamati peperuncielli 'e sciumme (peperoncini di fiume), detti forse così perche richiedevano per la loro crescita e produzione un apporto significativo di acqua.
Mentre nei vasi di casa si coltivavano le spezie utili per la cucina: peperoncini piccanti (peperuncielli forti), salvia, rosmarino (rosamaria), prezzemolo ('o petrusino) sedano (ll'accio), basilico ('a vasenicola), e qualcuno anche l'alloro a cespuglio. Altro elemento utilizzato in cucina era l'origano ('a rècheta), che era frequente coltivarlo allo stato libero, sui terrazzamenti che delimitavano le strade ('e separelle): essa rappresentava una varietà selvatica, praticamente autoctona del territorio, sovente dalla crescita spontanea.

Varietà di zucchine "San Pasquale"

Si coltivavano anche la cicoria e la rucola. Quest'ultima era utilizzata in cucina per preparare delle speciali insalate, molto apprezzate dagli intenditori, composte dalle "cime" di rucola e dalle parti di erba portulaca: ricordate con il simpatico binomio di: 'a rucola e pucchiacchiello. Non mancavano nemmeno i ravanelli ('e rafanielli) e i finocchi. Per la coltivazione dei ravanelli erano privilegiati la varietà piccola e tonda.
Le zucchine erano sempre della varietà detta San Pasquale, e che qui davano degli ottimi risultanti sia per la produzione delle zucchine e sia specialmente per l'abbondante produzione di fiori di zucca ('e sciurilli): elementi principi per preparare le famose e prelibate "pastette 'e sciurilli" fritte.

Cime delle piante dei zucchini ('e Talli)

Forse non tutti sanno che al termine della loro produzione, venivano utilizzate in cucina anche le cime delle piante, opportunamente pulite (spellate) dalle parti puntigliose che coprivano i gambi. Le cime dei zucchini venivano, poi, bollite in bagnomaria e, infine, gustate in saporite minestre, con olio, sale e limone, accompagnate ovviamente da pane casareccio e vino...! Queste verdure così preparate erano chiamate dai contadini 'e Talli.
Le zucchine subivano un altro processo di trasformazione per la loro conservazione invernale, anch'esso remoto e dimenticato oggi. Erano infatti tagliati in listelli sottili e poi messi ad essiccare, esposti ai raggi del sole estivo. Alla fine venivano poi conservate nelle dispense, in appositi contenitori. Questi prodotti di lavorazione erano chiamati: 'e fèlle.

 Zucchine secche ('e Felle)

Delle zucche prodotte nei campi esistevano due tipologie: quelle per essere cucinate in pietanze (di forma sia tondeggiane che oblunga) e quelle destinate all'alimentazione degli animali nelle stalle (mucche e maiali), tuttavia da quest'ultime si ricavavano anche abbondanti quantità di semi di zucca. I semi di zucca ('e sèmmienti) venivano abbrustoliti nei forni, insieme ad altri legumi e semi secchi ('e spassatiempi), come ceci, nocciole e noci. C'era anche chi seminava arachidi e lupini, ma in modestissime quantità.
I funghi era un'altra leccornia del palato, tuttavia qui si ricavavano solo due varietà: quelli prodotti sui Pioppi (ma si sviluppavano anche alla loro base), chiamati
'e chiupppetelli e quelli ricavati dagli alberi da frutta, chiamati "'e semmentini".

Funghi di Pioppo ('e chiuppetielli)

I funghi di Pioppo si sviluppavano in gran quantità specialmente sulle chiome degli alberi secolari neri, solitamente alla fine di agosto. Nella parte alta dei Pioppi, infatti, erano spesso presenti delle particolari cavità scavate nel tronco marcito (chiamate 'e scafoncie), ed erano quelle le zone dove si sviluppavano prevalentente questa varietà di fungo, dal grande cappello bianco latte e dal profumo indescrivibile. L'altra varietà di funghi nostrani, chiamati 'e Semmentini, si sviluppavano alla base di tutti gli alberi secchi di frutta, solitamente tra ottobre e novembre. Questi funghi, dal sapore meno intenso dei primi descritti, si formavano anche alla base delle piante di rose rinsecchite e alla base di altri alberi secchi, addirittura come l'Alloro e le viti. (segue nella terza parte)

Salvatore Fioretto

 





sabato 5 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! Il ciclo biologico già ecosostenibile (prima parte)

Scaglie di Ossido di Rame (verderame)

Quando si ricordano le tradizioni contadine del nostro territorio non si può non soffermarsi sulle primizie e sui prodotti agricoli che la campagna donava  nel corso delle stagioni, soprattutto per i loro buoni sapori e i gradevoli profumi, che oggi risultano indescrivibili. A tal proposito, in passato, per  descrivere la nostra campagna, era correntemente utilizzato un aggettivo (oggi definiremo arcaico), che era "ferace", esso racchiudeva, in modo sintetico e univoco, il significato di terra estremamente fertile e generosa, ovvero di alta produttività, per la quantità e soprattutto per la qualità dei suoi prodotti. Basti pensare che la campagna del nostro territorio, che è parte della piana napoletana settentrionale, con Miano, Piscinola, Scampia, Mugnano, Calvizzano e altre località, pur essendo priva di sistemi di irrigazioni artificiali, con assenza di pozzi artesiani, canali e di altri corsi d'acqua, riusciva a garantire abbondanti raccolti, e spesse volte consentiva di fare anche due raccolti di ortaggi e di cereali nel corso dell'anno. Innanzitutto era il microclima del territorio che risultava essere così stabile e costante da garantire delle precipitazioni piovose distribuite nel corso dell'anno, sia quelle abbondati nel periodo primaverile e autunnale e sia quelle sporadiche, ma con intervalli costanti, nel periodo estivo, quando si avevano delle brevi ma intense precipitazioni a carattere temporalesco (senza vento e grandine), che venivano abilmente sfruttate, dall'esperienza e dall'intelligenza dei contadini, per dare un apporto costante di umidità alle colture, anche nel periodo caldo, tanto da poter eseguire una seconda semina. Inoltre, gli ingegnosi contadini del passato avevano sperimentato e applicavano abitualmente anche dei sistemi di coltivazione delle colture che consentivano di trattenere per lungo tempo l'umidità nel suolo, dopo le ultime precipitazioni. Per esempio, era eseguita la tecnica del "rincalzo" (detta in gergo locale: 'ncauzà), alla base delle colture degli ortaggi, in modo che il terreno umido risultasse ricoperto da uno strato superiore di altro terreno (abilmente apportato con zappe) e, quindi, riparato dai raggi del sole e dalla conseguente evaporazione. 

Scaglie di Ossido di Calcio (calce viva)
Nei tempi passati il territorio in esame era incontaminato (e salubre) sia nel suolo che nell'aria, con la sua biodiversità e, come in ogni ecosistema antico e incontaminato, permetteva di autoregolarsi in termini di difesa dalle patologie botaniche e dai parassiti; infatti, proprio perchè era un ecosistema rimasto intatto da secoli, comprendeva tutta una vasta gamma di insetti, uccelli e altre specie di animali, che con la loro presenza (e la loro dieta) risultavano antagonisti ai parassiti che attaccavano le colture. Coccinelle, maggiolini, cicale, formiche, vespe e tanti altri insetti che, cibandosi di afidi, acari e insetti dannosi (come le cocciniglie o le lumache), costituivano una barriera efficace e proattiva alla difesa del raccolto nei campi.
Poltiglia Bordolese a secco
Il trattamento delle colture era ancora basato su delle pratiche antiche e pressoché naturali, addirittura alcune tramandate dagli antichi romani, come la famosa "Poltiglia Bordolese",  costituita da un composto di ossido di Calce (Calce viva) e solfato di Rame (Verderame) con cui venivano trattavate le piante da frutto, le viti e anche alcuni ortaggi.
Il "Verderame" consentiva (ma viene utilizzato ancora oggi) di prevenire e di combattere la Peronospora, una malattia parassitaria che attacca le foglie delle piante, delle viti e degli ortaggi, come i pomodori. Il primo trattamento si eseguiva a fine inverno, ovvero "a marza secca", cioè prima della uscita delle gemme sugli alberi. Quelli successivi si eseguivano prima e dopo la loro fioritura.
Foglia di vite attaccata dalla Peronospora

Altra antica pratica utilizzata, e anch'essa tramandata dai romani, era il trattamento dell'uva contro l' "Oidio" (malattia funghigena che attacca i grappoli), utilizzando lo zolfo in polvere. Lo zolfo, che era estratto dalle miniere del meridione d'Italia, veniva diffuso a secco sui tralci e sui grappoli d'uva in formazione, con l'aiuto di un mantice a mano. Il trattamento di solito si eseguiva due volte all'anno, tra giugno e luglio; lo zolfo veniva distribuito sulle viti al mattino presto (intorno alle ore 5:00), con assenza di vento e con la presenza di rugiada sulle foglie (per favorire l'attaccamento dello zolfo).

Grappolo attaccato da Oidio

Il trattamento delle piante e degli ortaggi era anche eseguito utilizzando alcune piante selvatiche, preventivamente fatte macerare in acqua, il cui odore ripugnante faceva allontanare i patogeni dalle colture; come l'Euphorbia: un arbusto selvatico che cresceva sui bordi delle strade e della ferrovia Piedimonte d'Alife, che qui chiamavamo 'e fetienti, (il termine è un riscontro oggettivo riguardo all'odore ripugnante emanato dalla pianta). L'acqua che aveva macerato queste essenze era utilizzata con successo per trattare le piante attaccate dagli afidi, come i moscerini (detti pidocchi).
A conferma di quanto gli antichi contadini avessero anticipato i tempi e di quanto naturali e biologici fossero i prodotti da essi utilizzati nei trattamenti delle colture, s
appiamo tutti che oggi nelle coltivazioni biologiche è ammesso l'uso del Verderame, della Poltiglia Bordolese, dello zolfo e anche degli altri sistemi che abbiamo qui descritto.
Anche l'acqua risultante dalla cottura della pasta era riutilizzata in agricoltura, sia come concime e soprattutto per stimolare, secondo la credenza popolare, la produzione di funghi dei Pioppi, sulle ceppaie secche... Forse c'è un fondamento biologico in questa pratica antica ...!
Il concime utilizzato nei tempi passati per concimare le campagne era prevalentemente di origine naturale e biologico. Si utilizzava lo "stallatico" raccolto nelle stalle frequentate da equini e bovini, poi la "pollina" raccolto dai pollai delle masserie, altro concime fertilissimo erano gli escrementi dei conigli.
Lo sterco dei maiali era raccolto insieme all'acqua utilizzata per lavare le superfici pavimentate dei porcili. Anche l'urina raccolta  nelle stalle era utilizzata per concimare i campi e, grazie al suo apporto azotato, veniva stimolato e favorito lo sviluppo della vegetazione delle piante. Le urine erano raccolte in un pozzetto chiuso presente in ogni stalla, chiamato "pisciniello" (piccola piscina); queste venivano poi travasate in contenitori di legno, chiamati "varricchi", che erano a loro volta anche utilizzati per il trasporto nei campi, mediante una portantina manuale, con un asse di legno sorretto a spalle.
Un'altra tipologia di concime utilizzata nei campi (sempre biologica) era quella di origine vegetale, infatti oltre a utilizzare tutti gli scarti di cucina, come quelli derivanti dalla pulizia degli ortaggi, si utilizzavano anche delle erbe appositamente coltivate nei campi in alcuni periodi dell'anno. Questa pratica è ancora oggi utilizzata in altri posti ed è chiamata in gergo agricolo: "sovescio". Le erbe o le piante selvatiche utilizzate erano: le Fave piccole (favielli), le Cicorie selvatiche, le Rape, i "Rapestoni" (Ramolaccio), l'Erba Medica, il Trifoglio, i Lupini selvatici, e altre erbe ricche di sali minerali di Potassio, Fosforo e Azoto, come le erbe chiamate Centocchio e Portulaca, che nascevano spontaneamente.  Al momento che si eseguiva la zappatura o l'aratura dei campi, si procedeva a estirpare queste essenze e a distribuirle nei solchi ('e taglie) e, quindi, a interrarle. Queste piante marcivano prima della semina e trasmettevano le sostanze nutritive al terreno, in modo da alimentare le nuove colture, fin dai loro germogli.

Cenere
Anche la cenere raccolta dai camini e dai forni era utilizzata per concimare i terreni. Si sa che la cenere era anche utilizzata per lavare i panni e preparare la "culata".
I residui della lavorazione dei legumi e dei cereali (piselli, fagioli, fave, grano, orzo, granoturco, ecc.), erano utilizzati, oltre come nutrimento degli animali nelle stalle, anche come loro giacigli (lettiere) e quindi anch'essi contribuivano a rendere lo "stallatico" facilmente lavorabile per la raccolta e distribuzione nei campi e ricco di altre sostanze organiche.
C'è da aggiungere che in passato, nei centri abitati dei paesi, ma anche nelle grande città, si eseguiva la raccolta degli escrementi degli animali, sia dalle stalle che dalle strade; l'addetto a questo servizio, che oggi chiameremo operatore ecologico, era chiamato "Lutammaro", termine che deriva da "Lutamma", che nel napoletano antico si riferisce ai "residui organici".
Tutto questo per dire che la "raccolta differenziata", di cui in tanti oggi si riempiono la bocca, era una consuetudine normalmente eseguita nei tempi trascorsi, anche in questo territorio, avendo un triplo vantaggio: sia in termini di raccolta assicurata dei rifiuti, perché eseguita "porta a porta", sia di riutilizzo dei materiali di rifiuto organici, attraverso un ciclo biologico naturale e sia perché consentiva di assicurare un reddito certo per alcuni lavoratori.
Era così salubre l'ambiente e il ciclo di produzione delle derrate agricole, che sovente, quando si ricevevano visite nei campi di amici o di acquirenti, i contadini raccoglievano la frutta e la porgevano contestualmente ai visitatori, per farla a loro gustare e apprezzare, ma senza lavarla e nessuno ha mai lamentato problemi di salute!
Altri tempi diremmo oggi!! (segue seconda parte)

Salvatore Fioretto 

 

Trifoglio


Erba medica

Centocchio