venerdì 5 novembre 2021

Il grano e le noci... la ricchezza del nostro popolo...!

Il grano… simbolo di abbondanza!

Il paesaggio agricolo, che un tempo circondava Piscinola, ha conosciuto per secoli il caratteristico colore giallo-oro del grano.

Questo frumento è stato, infatti, coltivato in maniera intensiva fino agli anni ‘40-’50 del secolo scorso, spesso nelle zone agricole sottostanti i vitigni e le piantagioni di alberi da frutta.
La semina e la mietitura del grano erano effettuate esclusivamente a mano. La prima utilizzando piccoli aratri manuali (ferrillo), mentre la seconda con l’aiuto di piccole falci (sarrecchie).
Appena eseguita la semina del grano, i campi dovevano essere sorvegliati costantemente per non farli depredare dagli uccelli. Per tal motivo, a bambini e ragazzi veniva affidato il compito di allontanare gli uccelli dai luoghi della semina. Essi si munivano di bastoni e di contenitori metallici (buatte), con i quali si recavano nei campi producendo rumori fastidiosi per i volatili e cantando ad alta voce questa cantilena:

 Sciò sciò l’auciello,
‘a dint’ ’o ggrano d’ ‘e zzio Aniello,
Sciò sciò auciello…!
Sciò, sciò…!

Il grano, dopo la mietitura, era raccolto in piccoli fasci, legati tra loro utilizzando alcuni steli della stessa pianta.
I fasci erano, quindi, disposti in covoni, per proteggerli dall’umidità notturna o da eventuali piogge. Successivamente grandi quantità di grano erano trasportati nel centro di Piscinola, per essere trebbiato.
Nei pressi di via Napoli Piedimonte d’Alife (‘o canciello) si disponeva di una grande trebbiatrice, che di volta in volta eseguiva la trebbiatura del grano raccolto da ogni singolo contadino.
Questa operazione era considerata una ritualità nel mondo contadino di allora, proprio come un avvenimento di festa, tanto che ogni anno accorrevano per l’evento molti ragazzi e bambini, ma anche donne, uomini e anziani. Tutti erano intenti ad ammirare il concludersi di un ciclo della natura, ma anche ad osservare la gioia che si leggeva sui volti dei contadini, per il buon raccolto portato a termine.

Se la quantità di grano prodotta era invece modesta, la separazione dei chicchi di grano dalle spighe era fatta, come già si è detto, a mano, nelle aie delle masserie. Tuttavia la lavorazione del grano non finiva con la trebbiatura e la pulizia. I semi di grano, infatti, erano riposti in sacchi di canapa, adagiati sui pianali dei carri e portati al mulino, per essere trasformati in farina.
I mulini si trovavano nelle zone di Secondigliano, di Mugnano e di Calvizzano.





L'arte della panificazione

Scavi di Pompei, macina del grano e forno
Tutte le masserie ed alcuni cortili del centro storico di Piscinola disponevano in passato di un forno a legna, adibito alla cottura del pane e delle pietanze casalinghe.
Poiché il forno, come è noto, era un bene di proprietà comune, tutti potevano utilizzarlo, ma dovevano pure concorrere alla manutenzione e alla riparazione. Spesso si dava “ospitalità” anche a qualche vicino, il cui forno non era temporaneamente disponibile per manutenzione.
Durante le festività di Natale e di Pasqua ed in occasione della festa del SS. Salvatore si sfornavano una grande quantità di teglie (ruoti) di capretto, pizze rustiche, tortani, casatielli, dolci, panettoni, biscotti e naturalmente di “pastiere”; ma l’uso prevalente dei forni consisteva nella cottura del pane casalingo e dei suoi derivati, soprattutto le “freselle”. In ogni famiglia il pane veniva prodotto con cadenza settimanale.
I forni venivano sempre alimentati con le “fascine“ raccolte nelle campagne. Ovviamente, a ogni cottura, gli utilizzatori dovevano provvedere a fornire la propria quota di legna.
Le “forme” di pane venivano preparate in ogni famiglia abilmente dalle mani esperte delle donne anziane, la sera prima della cottura. Si utilizzava allo scopo farina di grano duro; quella che oggi chiamiamo di “tipo integrale”. Per il lievito si usava uno o due pezzi di pane fatti fermentare qualche giorno prima.
Di solito, quando la panificazione non era giornaliera, ci si scambiava tra i vicini il lievito di pane.
La formazione del pane avveniva secondo una procedura secolare, tramandata da madre in figlia, che prevedeva una manipolazione interminabile dell’impasto: per avere un pane fragrante e soffice.
L’impasto era preparato all’interno delle case, dentro un recipiente di legno (mattala), utilizzando un affilato attrezzo di ferro per scarificare le superfici. La lievitazione dei pezzi di pane avveniva durante la notte. I pezzi erano adagiati in contenitori di legno (dette pianelle) e coperti con teli di canapa. Già alle prime ore dell’alba si procedeva ad accendere il fuoco nel forno e alimentarlo con fascine e altro legname, fin quando la temperatura della camera di cottura non raggiungeva i valori richiesti.
La valutazione era basata solo sull’osservazione e sull’esperienza. Si puliva, poi, attentamente la superficie del forno, asportando la cenere e i carboni ancora presenti, mediante una scopa di “palma” fissata ad un lungo asse di castagno. La scopa veniva immersa nell’acqua più volte, per non farla bruciare.
Dopo la pulizia del forno, si procedeva a infornare il pane con una lunga pala di legno. Una volta completata la sistemazione dei pezzi, si chiudeva la “bocca” del forno con una portina di ferro e si posizionava nella parte antistante della cenere ardente. Sulla volta della portina, dove c’era della fuliggine, si disegnava con le dita una croce e si invocava la Provvidenza, dicendo la frase: “…Crisce ‘e fatte santo” (ossia lievita e santificati).
Durante la cottura si controllava ripetutamente il pane, spostando e capovolgendo ripetutamente i pezzi, mediante un asse di legno (scazzaturo).
Quando il pane era finalmente cotto, si procedeva a sfornarlo ed a pulirlo accuratamente dalla cenere, mediante teli di canapa. Dopo un breve raffreddamento, i pezzi di pane venivano posti in cesti di castagno (sporte) e trasportati in casa, spesso sostenuti abilmente sopra testa.
Le “freselle" erano ricavate da piccoli pezzi di pane a forma di ciambella e presentavano due fasi di cottura. Si procedeva ad una cottura iniziale, dopo la quale le ciambelle si sfornavano e si tagliavano in due metà sulla linea circonferenziale.
Successivamente si rinfornavano i pezzi, provvedendo a farli cuocere lentamente, fino a quando non assumevano la consistenza richiesta, ossia l’essere diventati dorati e croccanti.
C’è da dire che il pane di una volta, al contrario di quello di oggi, durava almeno una settimana senza indurirsi, mantenendo quasi invariato il sapore e la freschezza.

Le noci
La raccolta e la lavorazione delle noci rappresentavano un altro dei momenti d’aggregazione più importanti della civiltà contadina delle nostre zone e dimostrano quanto fosse forte il legame di solidarietà storico che si era instaurato tra le famiglie piscinolesi.
Le foto aeree del territorio di Piscinola eseguite nel 1929, ma anche quelle eseguite negli anni ‘40 e ‘50, mostrano un territorio pieno di alberi di noci, distribuiti nella piana di Scampia: costeggianti le strade principali, le stradine interpoderali, le cupe e la linea della ferrovia Napoli-Piedimonte.
L’albero di noci ha trovato dalle nostre parti un’ambientazione favorevole per la sua coltivazione, sia per la buona posizione geografica e morfologica, perché predilige un terreno asciutto, particolarmente ricco d’elementi minerali favorevoli al suo sviluppo, sia perché il clima ventilato scongiura il manifestarsi di pericolose malattie vegetali, a cui il tipo d’albero è sempre stato soggetto.
La lavorazione delle noci ha trovato sempre un mercato favorevole e, dopotutto, gli alberi erano anche un ottimo investimento a lungo termine, perché il legno era ed è, tutt’oggi, considerato pregiato nell’industria dei mobili e di altre applicazioni del settore, come parquet, strumenti musicali, ecc.
Gli alberi non richiedevano di particolari cure.
Solo quando erano nella fase di crescita dovevano essere tutelati da una specie di grosso verme, che scavava nel fusto enormi e dannose gallerie.
Raramente necessitavano di potature, se non quelle utili per guidare le giovani piante e quelle occorrenti per la pulizia dai rami secchi. Non occorrevano neanche trattamenti o concimazioni.
L’attività principale era la raccolta delle noci.
Essa aveva luogo a settembre, quasi sempre dopo la festività del “Nome di Maria”, dipendeva comunque dal clima. Infatti l’evento decisivo per la raccolta era la caduta delle prime pioggerelle settembrine, associate al clima ancora caldo.
Questa condizione meteorologica favoriva l’apertura del mallo e il distacco delle noci dai rami. La raccolta delle noci (scugnare ‘e noci), avveniva mediante la bacchiatura, ossia con l’aiuto di grossi assi o pertiche di legno di castagno (fruvoni), lunghi fino a 5 metri.

La raccolta delle noci (disegno)
Con queste pertiche si soleva bacchiare (ossia “scrollare”) le cime dei rami e quindi far cadere le noci. Per raggiungere le cime degli alberi, che a volte superavano i 20 metri di altezza, i bacchiatori (‘e scugnatori) eseguivano una vera e propria scalata della pianta, come veri e propri equilibristi, senza scarpe e senza alcuna protezione. Quando raggiungevano un ramo di appoggio “favorevole”, gli “scugnatori” si posizionavano in maniera stabile, seduti o appoggiati su uno dei rami e iniziavano a bacchiarli, agitando il “fruvone” con le due braccia.
Quando la bacchiatura terminava, essi si spostavano su un altro albero vicino, mentre una squadra variegata di anziani, bambini, donne e uomini procedeva a raccogliere le noci cadute al suolo.
Le noci erano raccolte in cesti (sporte) e, successivamente, riposte in sacchi di iuta o canapa, per il trasporto ai luoghi di trattamento e d’immagazzinaggio.
I sacchi pieni di noci si legavano e si trasportavano nella masseria, con l’aiuto di carriole o carri.  Nella stessa sera o in quella del giorno seguente, le noci erano versate in un’apposita macchina specializzata per l’eliminazione del mallo. Questa macchina era composta da una sorta di crogiuolo in acciaio, tutto rivestito con legno e chiodi, con la base circolare rotante.

"Smallatura" delle noci, foto di gruppo in cortile di via V. Emanuele a Piscinola, anni '60

Il movimento di rotazione era conferito da un motore a scoppio carrellato e da una grossa cinghia di trasmissione in cuoio.
Quando le noci erano nella macchina veniva spruzzata anche dell’acqua per favorire la pulizia delle stesse dai residui di mallo. Nella parte sottostante la macchina fuoriuscivano i residui di mallo, che attraverso un breve canale erano immessi nella campagna circostante. Il mallo costituiva un ottimo concime naturale.
Le noci pulite erano estratte dalla macchina attraverso una porticina laterale ed erano successivamente riposte su un grosso tavolato, per essere selezionate. Dopo la selezione, le noci venivano messe ad essiccare, distribuite sui solai delle abitazioni (lastreco).
L’operazione di essiccatura durava circa una settimana.
Ogni sera, eccetto la prima, le noci dovevano essere raccolte in cumuli, mediante attrezzi di legno a forma di rastrelli. I cumuli andavano coperti con sacchi e tende, per proteggere le noci dalla brina notturna o dalle eventuali piogge. Il contatto con l’acqua o l’umidità notturna avrebbe, infatti, favorito l’insorgenza di muffe e l’apertura dei gusci.
La distribuzione delle noci sul solaio doveva essere molto accurata, perché lo strato di noci doveva risultare uniforme per avere un’essiccazione omogenea. Terminata l’essiccazione, le noci venivano raccolte in sacchi e riposte nei depositi fino al momento della loro vendita.
Il commercio delle noci poteva avvenire in due modi: “per conta” o “per peso”. Il metodo “per conta”, ossia per numero di noci contate, era adottato quando le noci erano venute “verdi”, ancora con il mallo; mentre quello “per peso” era utilizzato quando le noci erano vendute “secche”.
Per avere un numero di noci equivalenti a un chilo di noci secche si dovevano contare almeno “cento noci” verdi con mallo e si doveva poi aggiungere a queste una certa percentuale di noci, per sopperire alle parti difettose e agli scarti. Spesso per la vendita ci si affidava ai sensali della zona (‘o sanzaro).
Quando le quantità di noci raccolte erano modeste ed erano destinate al solo uso familiare, la pulizia ed il lavaggio delle noci erano eseguiti a mano (scurzare ‘e nnoce). Anche in questa circostanza un nutrito numero di parenti e amici si raccoglieva nei cortili e procedeva a “scurzare” le noci. L’evento, che si ripeteva annualmente, si trasformava spesso in una piccola sagra, con tanto di canti, schiamazzi, racconti, risate, degustazione di buon vino e dell’immancabile caffè. Alla fine dell’attività tutti i partecipanti si trovavano con le dita delle mani colorate di “nero pece”…!!

Rievocare oggi, quando siamo nel cosiddetto terzo millennio, questi aspetti storico-antropologici del nostro territorio, ci porta a percepire una delicata sensazione di bellezza e di purezza e, soprattutto, la vita di un popolo che scorreva legata alla coltivazione della terra, che si rinnovava col cadenzare delle stagioni e con i suoi raccolti genuini e abbondanti. Era quello un rinnovarsi della vita, perché il raccolto era visto come una garanzia per il sostentamento della famiglia, assicurato per un intero anno. Altri tempi diremo oggi; purtroppo il cosiddetto benessere, di cui ci fregiamo di godere, ci ha privato invece di poter apprezzare queste semplicità della vita e la bellezza della natura incontaminata e, con esse, di avere un più sentito senso di appartenenza al territorio. 

Salvatore Fioretto

 

I testi pubblicati in questo post sono stati interamente tratti dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore", anno 2010, ed. The Boopen, di S. Fioretto. Le foto inserite sono tratte in gran parte dal Web da siti diversi, a cui si rimanda per la consultazione.

venerdì 29 ottobre 2021

Miano nella Campania Felice. Origini storiche del Casale di Miano, tratte da G. Monaco

"Siamo andati frugando tra le opere degli scrittori che prima di noi hanno fatto almeno cenno della storia del nostro Villaggio, ed abbiano trovato materia, se non esaudiente, almeno bastante per farci conoscere qualcosa sulla esistenza di Miano in quei secoli che dall'insipienza di molti sono chiamati ancora oggi i giorni oscuri del Medio Evo."

Tavola Peutingenaria (XII- XIII secolo)

Cosi iniziava il "Capitolo III" lo scrittore don Gabriele Monaco, nel suo saggio storico "Miano nella Campania Felice" (anno 1977, ed. Laurenzana Napoli), per introdurre le antiche origini storiche del Casale di Miano, ossia del quartiere di Miano che oggi ne eredita il toponimo. Il capitolo s'intitola: "Miano dai tempi del Ducato a quello degli angioini".
Abbiamo pensato, per onorare la storia del territorio, così importante ed a noi vicino, di riprendere un po' il tracciato della sua secolare origine, alla pari dei tanti casali del circondario: Piscinola, Marianella, Secondigliano, Chiaiano e tanti altri, prendendo in prestito il testo menzionato. Ecco il continuo dell'interessante libro scritto da Gabriele Monaco:
 

Imperatore Federico II di Svevia

"A cavallo del primo e del secondo millennio dell'era cristiana Miano ormai occupava uno dei posti non insignificanti nella storia del territorio napoletano. Ora vedremo qualche pagina della sua storia  dai primi  decenni del secolo X all'epoca degli Angioini.
Dall'anno 921 all'anno 1034 abbiamo almeno 18 documenti - tutti atti notarili - che ci parlano con indiscutibile sicurezza dell'esistenza di Miano, in un primo momento come di una piccola località, poi come una vera "Pagus" ossia villaggio, abitato ormai come tanti altri "pagi" dello stesso territorio.
Data la mole della materia contenuta in tutti i documenti, noi separeremo, per così dire, gli argomenti in essi trattati. Diremo, cioè, in breve quanto serve ad ubicare Miano; in un secondo momento riporteremo i nomi dei personaggi in ciascuno di essi nominati, per poter dare ai lettori uno specchio delle singole persone e specialmente dei primi nuclei familiari che abitarono a Miano in quei lontani tempi, ossia, ben oltre mille anni or sono.

Ricostruzione di un casale dell'epoca in terra di Aversa
Da una "chartula donationis" del 24 febbraio del 921 si apprendono notizie di terre esistenti "in pulianum (da non confondersi con Pugliano ad Ercolano) loco calberitianum (=Calvizzano); e di terre "portionis nostre posite intra pertinente de fundum nostrum in casamiana: et eum tibi dedimus per mensura  a parte  orientis circa terra sancti andrea..."- Facciamo notare qui una volta per sempre che i testi saranno riportati così come giacciono nei documenti - siamo all'alba della nascita delle prime parole della lingua italiana, che si trovano nel celebre placito di Capua, conservato a Montecassino.
La nota di chi nel volume commenta questo passo ci ammonisce che egli ritiene essere indicati coi nomi "Casamiana e Puliano" dei luoghi e non ancora villaggi, sol perché da alcuni autori, anche antichi, essi non sono nominati tra i villaggi del nostro agro; tuttavia, a pochi anni di distanza, si parlerà di essi appunto come villaggi, ossia di luoghi abitati da nuclei di famiglie, villaggi che venivano promiscuamente chiamati "vici", "oppida", "terrae", "villae" e finanche "castra" ossia castelli. In una "chartula venditionis" del 1° maggio del 945 già si parla di Miano come di un "pagus" ossia villaggio.
Mappa dela città di Napoli, Antonio Lafreri, 1566
Detto documento parla di un tal Pietro abitante "de loco qui vocatur miana". Si parla ancora di "... integra una petia mea de terra que posita in campo de miana". Quoherente sivi (=Coherente sibi) ab uno latere terra monasterii sanctorum nicandri er marciani puellarum dei...". Detto monastero - esistente in Napoli - sarà dopo pochi anni, chiamato di S. Patrizia, essendovi stato deposto il corpo di questa vergine, il cui culto si è ripreso in maniera veramente straordinaria ai nostri tempi in S. Gregorio Armeno, ove le sante sue reliquie han trovato riposo, dopo il loro trasferimento avvenuto nel secolo scorso.
Carlo I d'Angiò. Palazzo Reale di Napoli
In questi due documenti vediamo fatta menzione di terre appartenenti a chiese esistenti in Napoli.
In una "chartula donationis" del 30 ottobre del 947, in cui si parla "de loco qui vocatur miana", si trova indicato un pezzetto di terra chiamata "viniole ad casacaldari" e di un'altra terra chiamata "casavidua"; una terza è la terra di "ihoanni papa...". "Viniole" ci autorizza a ritenere che la terra era coltivata a viti; i due toponimi indicano due distinte zone del villaggio che va ingrandendosi.
Si parla di un tal Bonito come di abitatore di Miana, che vende una terra sita appunto in "campo de Miana" in una "chartula venditionis" dell'8 febbraio 957.
Il 10 gennaio del 958 una "chartula venditionis" parla chiaramente di "abitatoribus in nominato loco miana" e tra questi è Pietro Manco, certamente uno degli antenati (se non addirittura il capostipite) dei nobili Manco viventi ai nostri tempi. Si parla di questo luogo Miana in ben tre documenti degli anni 965, in altri del 970 (in cui è indicato un posto chiamato "anglone") del 971, del 973, del 981, del 994, del 997.
Tavola coronografica della Campania in periodo ducale (secolo XI)

All'inizio del secondo millennio, e precisamente il 15 dicembre del 1001, troviamo indicato il "campo de miana". In un accordo tra il monastero dei Santi Severino e Sossio (strettamente parlando, si deve scrivere Sosso), e le figlie di un tal Giovanni nominato dischipulo si parla di una "terra que vocatur centula in loco qui dicitur miana".
Importantissima per la storia delle nobili famiglie di Miano, è una "chartula permutationis" del 15 febbraio del 1021, perchè essa, parlando di persone che dicono "...abitate videmur in loco qui nominatur miana" accenna chiaramente ad un tale Stefano detto scarola, figlio del fu pietro scarola.
Del periodo normanno (1129-1195) abbiamo un documento del 19 giugno 1130. Tra l'altro vi leggiamo il nome di "leone visconte de illa fidantia de caput de monte: filio quodam scampi visconte de illa fidantia de illi sorelli...". Parlando di confini di terre, il documento ci fa sapere che v'è una via pubblica che "va a miana ed a parecchie località".
Dei tempi degli Svevi, venuti con Arrigo VI, figlio dell'imperatore Federico I (Barbarossa), abbiamo notizie nelle carte angioine. Carlo I d'Angiò fu coronato re nel 1266. Nel periodo 1271-1281 è nominata la "Villa Miani". Nei quaderni della particolare tassazione dei tempi dell'imperatore Federico son ricordati alcuni individui "in villa Miani". Eccone i nomi: Sergio de Amarancio, Giovanni Coco, Ligorio Coco, Cesario Coco. In un cedolare di epoca angioina, in cui son notate le tasse imposte ai casali secondo il numero dei fuochi, ossia famiglie, al 27° posto è segnata "Mianella", ed al 28° "Mjana", e Miano era segnato tra i casali "popolari" e "tassati".
Carlo D'Angiò, che non era mai sazio di denaro - oltre che di sangue umano -, appena preso possesso del regno, ordinò di accelerare la raccolta di quanto era dovuto ai tempi di Federico imperatore, aggiungendo altre imposizioni".

Quanto abbiamo letto, dalla preziosa testimonianza di questo scrittore, è l'ennesima prova che il territorio a nord di Napoli, un tempo popolato da nobilissimi Casali, è pregno di storia e ha origini antichissime. Per questa sua antichità, esso merita rispetto e considerazione, alla stregua delle membra del "corpo" che è la città di Napoli, con la sua antica storia millenaria.      

Salvatore Fioretto

PS: Abbiamo riportato in testo integralmente, così come scritto, compreso i nomi dei luoghi e delle persone, che sono riportati in minuscolo.

Veduta della città di Napoli a volo d'uccello (Tavola Strozzi, fine XV sec.)

martedì 19 ottobre 2021

C'era una volta, a Cava dei Tirreni...ricordo di un record…!

Per molti anni l'associazione sportiva di Piscinola, denominata “Juvenilia”, dedita alla formazione di giovani campioni nelle discipline dell’Atletica Leggera, rappresentò degnamente il nostro territorio nelle varie gare e campionati tenuti a livello regionale e nazionale. Numerosi furono gli sportivi che uscirono tra le sue fila e che si distinsero in tante competizioni, mentre alcuni disputarono anche le Olimpiadi. Il suo fondatore e anche allenatore, si chiamava Gilberto Rocchetti, tecnico preciso e meticoloso. La sede della Associazione è stata per tanti anni in via Giovanni Antonio Campano.

Foto di gruppo di Rocchetti con agli atleti
Nel gruppo allenato da Rocchetti c’erano anche Antonio Lanzuise e i fratelli Di Lorenzo e poi altri marciatori abbastanza forti, tra i quali mio cugino Alfredo Bianco, morto purtroppo giovanissimo per una brutta malattia e che prometteva molto bene anche nel tennis.
Il gruppo della "Juvenilia" lo sconoscevo molto bene, perché spesso accompagnavo mio cugino nelle varie gare che facevano. Quando partii per Milano, perché assunto al Banco di Napoli, feci il viaggio assieme alla loro comitiva sportiva; in quel periodo stavano partecipando a un capionato in Lombardia. Alloggiai nell'albergo assieme a loro, per un paio di giorni. In quell'albergo poi restai quasi tutto il mese, finché non trovai una sistemazione definitiva. Era il mese di maggio del 1974.
Molti sportivi li conoscevo solo di nome e non ricordo il cognome.
Una volta accompagnai la compagine di atleti piscinolesi in una gara di atletica leggera che si disputò nello stadio di Cava dei Tirreni, il gruppo era guidato da Oreste Rocchetti, figlio di Gilberto.
Fu in quella gara che un giovanissimo Pietro Mennea colse il record italiano di velocità nella corsa dei "100 metri"! Era una gara come le tante altre che si organizzavano per l’Italia in quel periodo; una gara cosiddetta “Juniores” ed io ero presente allo stadio, non come atleta, ma come accompagnatore della comitiva.
All'epoca i tempi nelle gare si prendevano ancora col cronometro manuale. Ebbene, il fatto curioso e anche straordinario di quell’evento, fu quello che i giudici, dopo la “batteria” vinta da Pietro Mennea, non credevano ai loro occhi al risultato che segnavano i cronometri..., tanto è vero che impiegarono quasi un'ora per omologare il risultato. Quando lo resero pubblico, attraverso i cartelloni, all’epoca rigorosamente di tipo manuali a caratteri cubitali, come all'unisono, tutti gli spettatori dello stadio esultarono contemporaneamente con un fortissimo boato! Per il grande Pietro Mennea quella vittoria fu il trampolino di lancio verso la gloria mondiale!!
Per la cronaca, quello di Cava dei Tirreni fu il primo record di Mennea, con il tempo di 10" e 2 decimi, nella corsa dei 100 metri, e si ebbe nell'anno 1971, nel nuovo stadio di Cava de' Tirreni, durante il Meeting internazionale di atletica leggera, fra Italia, Bulgaria e Spagna.
Un bellissimo ricordo che conservo indelebile nella mia mente ancora oggi.
Peccato che non ricordo il nome degli atleti piscinolesi e di altre provenienze che parteciparono. Quasi sicuramente c’era Alfonso Di Guida, corridore di Marianella, ma di famiglia originaria di Piscinola, e poi una ragazza molto forte nel lancio del peso, di cui ricordo solo il nome: Teresa.
Alfonso Di Guida fu campione italiano nei 400 metri e olimpionico nella stessa specialità a Monreal, nel 1976.
Pasquale di Fenzo

 

Foto di gruppo di Rocchetti con alcuni atleti, sulla sinistra A. Lanzuise
  

Ringraziamo, come facciamo sempre, il nostro caro e assiduo partecipante scrittore della pagina di "Piscinolablog", per quest'altra "perla" di racconto, estratto dai suoi bei ricordi. 

In futuro dedicheremo altri post per ricordare G. Rocchetti e gli altri sportivi del gruppo atletico.

La redazione

 

Pietro Mennea

giovedì 14 ottobre 2021

Giovanna Altamura, l'insegnante-poetessa della scuola "Tasso" di Piscinola...!

Già in passato abbiamo dedicato, in "Piscinolablog", due post alla cara insegnante della scuola di Piscinola, Giovanna Altamura, con la trascrizione di alcuni suoi racconti e aneddoti riguardanti le vicende di Giuseppina Bianco, che fu sua alunna, oltre alle belle descrizioni delle feste svolte un tempo a Piscinola.
Abbiamo ricevuto in queste settimane una bella lettera di una nipote della maestra Altamura, dalla signora Bruna che, assieme ad altri suoi familiari, hanno raccolto altri aneddoti e particolari della vita della loro Zia, soprattutto quelli di poetessa e di docente alla scuola "T. Tasso" di Piscinola, che ci piace oggi qui pubblicare per i nostri lettori. 

Ecco il testo della lettera:

La poetessa durante una premiazione, foto inizi anni '70
"Mia zia Giovanna, detta in famiglia Giannina, si diplomò a 18 anni - contro il volere di sua madre, vedova, che voleva andasse a lavorare nel negozio di famiglia - ed al concorso risultò prima in graduatoria. Partecipò alle Quattro Giornate di Napoli (le ho già inviato le foto della tessera di riconoscimento del Comando Combattenti con la quale si attesta la sua partecipazione). In famiglia si dice che il suocero di un suo fratello era stato fatto prigioniero dai tedeschi e rinchiuso nello Stadio Collana, quindi lei non esitò ad imbracciare un mitra e ad inerpicarsi con gli altri partigiani sugli spalti dello stadio, partecipando alla liberazione di molti prigionieri. Era una donna che non aveva paura di avventurarsi in simili cose perché aveva un grande senso della libertà e grande coraggio.
Alcuni versi di dedica scritti da G. Altamura
Quello di Piscinola fu il suo primo incarico da maestra. Alla Torquato Tasso dovette affrontare anche la dura realtà della delinquenza minorile..., che all'epoca era già presente nelle scuole. Infatti pare che, il quel periodo, uno dei suoi scolari girasse armato di coltello e quando questi la minacciò, affrontandola, Ella gli fece capire che non lo temeva affatto e, se lei avesse voluto, con la sola forza avrebbe potuto anche sopraffarlo..., ma il suo ruolo era quello di educatrice...
Spesso, come in questo episodio, riuscì a far ritornare sulla retta via tanti ragazzi ritenuti deviati. L'episodio di Piscinola, tuttavia, bastò a farle conquistare il rispetto perenne da quei ragazzini che in seguito, e anche da grandi, si ricordavano dell'insegnamento da lei ricevuto.
I numerosi suoi alunni l'amarono tanto, non solo per il suo coraggio nell'affrontare qualsiasi sopruso, ma anche per la sua immensa bontà e per il rispetto massimo che insegnò loro. Pare che avesse la borsa sempre piena di merende per chi aveva fame e una volta portò a sue spese tutta la sua classe, della "Torquato Tasso", al mare...
Fu una delle prime insegnanti che seguirono con attenzione la mancanza di applicazione dei ragazzi colpiti da difetti di attenzione e con difficoltà nella lettura, trovando il modo di aiutare chi aveva difetti di dislessia; cercò come poterli aiutare a superare quello che a quel tempo era visto come una deficienza cognitiva.
Una commedia per bimbi, scritta nel 1957
Negli anni seguenti, dopo gli anni trascorsi a Piscinola, insegnò alla Scuola "Ravaschieri" di Napoli, nel quartiere Chiaia; qui continuò ancor più alacremente ad interessarsi del bene dei suoi studenti fino all'età di 40 anni, quando riuscì a laurearsi all'Università Federico II di Napoli. L'esame di laurea pare che fu per lei traumatico, perché litigò ferocemente con la Commissione, ma fu promossa ugualmente con il massimo dei voti e la lode. 
Successivamente partecipò al concorso per Direttrice Didattica, che puntualmente vinse. Nel 1959 fu destinata a dirigere una scuola nel Comune di Bellaggio, vicino Como, dove purtroppo non si trovò bene, sia per il clima, ma soprattutto per la lontananza dagli affetti familiari. 
Dopo diversi tentativi riuscì ad ottenere un incarico in una scuola di Forio d'Ischia, dove fu direttrice dittatica fino al pensionamento, avvenuto nel 1970. Anche ad Ischia abbiamo riscontrato che ci sono dei suoi alunni che ancora oggi la ricordano con affetto.
Canzone "'E Palummielle" scritta da Giovanna Altamura
Vinse parecchi premi letterari (nella foto allegata ritrae un premio ritirato nel '71, al Circolo della Stampa  e la pagina della poesia "La vita" dove si riferisce del Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio) e come giornalista scrisse su diverse testate, tra cui il  "Roma".
Sull'anno della morte nessuno dei miei cugini è stato concorde ... ed oscilla, nei nostri ricordi, tra il 1975 ed il 1980.
Foto della poetessa e inseg. Altamura, anni '40
Mia zia fu una donna che viveva col pensiero molto più avanti del suo tempo, ma che per l'invidia nei suoi confronti e la sopraffazione di uomini retrogradi, che non accettavano il suo modo di pensare libero, riuscirono ad offuscare la sua grandezza. E' questo il pensiero di tutti noi cugini, suoi nipoti.
Le allego anche la prima pagina di una commedia per bambini, inedita, ed alcuni versi di una delicatezza sublime che ho trovati annotati su un piccolo quadernetto che conservo a Napoli, con altre cose di mia zia.
Non ho trovato, purtroppo, alcuna foto relativa al periodo della Torquato Tasso.
Sperando di esserle stata utile e augurandomi di leggere presto un altro suo scritto in ricordo di mia zia, le invio cordiali saluti.

La nipote, Bruna

 

 

---------------------------------------  o  O  o  ---------------------------------------

Tesserino rilasc. da Comando Combattenti Ital.: Riconoscimento di "Patriota"
a Giovanna Altamura, per la sua partecipazione alle "Quattro Giornate di Napoli"

 

Breve raccolta di poesie scritte dalla poetessa Giovanna Altamura:

LA VITA!

Strana, strana cosa la vita!
E’ un correre, cieco, inseguendo
Qualcosa che passa, che sfugge,
Un sogno, una vaga chiméra,
un’ombra, che è fatta… di nulla!
Un muto, dolente implorare
Chi intendere non vuole o non sa!
L’insano volere, tentare,
di vincere, di forza, l’ignoto.
Svelare un mistero, che è ascoso,
il domani, il destino, le cose
che ancora non sono, che forse
giammai, per noi, non saranno.
Qualcosa che solo il tormento
Il duro, penoso lavoro
Del nostro pensiero fa vero,
ci fa sembrare realtà.
Conoscere la verità! Invano!
Il volo del tempo la cela!
E’ insano volo, pensare
Di poter vincere il Cielo!
Oh lotta inumana, cruenta,
perduta già pria di tentare!
Terribile lotta, tremenda,
che solo l’orgoglio fa osare!
Poi… dopo… che resta? – Oh, il nulla!


ITALIA MIA

Te,
Patria mia,
sovra d’ogni altra
cosa, io amo!

T’amo nel dolor tuo,
come non seppi
amarti,
nelle ore di gioia
piena, e di grandezza
somma.

T’amo,
per tua beltà sì pura,
immutabil nel tempo,
per le vicende alterne
di dolore e di gloria
della tua lunga storia.

T’amo,
per l’animo sereno
della tua gente antica,
cui sacra è la fatica.

T’amo,
per il tuo mar
fondo e turchino,
per il tuo cielo,
d’agate e di turchesi,
per i tuoi monti
bianchi
d’eterna neve,
e le tue selve
fonde, d’ombra
cupa, ed aulenti
di frassini e di pini.

T’amo,
per la passione
del  Popolo tuo,
fecondo,
di braccia e d’opre,
per il martir dei tanti,
che caddero per te,
che a te donaron,
col sangue e la fatica,
un amor così forte,
che ogni amor cancella.

Io t’amo, Italia,
Italia mia,
per questo tuo dolor
sì profondo,
ch’è dolor mio,
e dolore di quelli
che sognano,
per te,
dello splendore antico,
certezza di ritorno,
e gloria nuova.

 

LA LUNA

Il rosso, tondo,
paffuto e strano viso,
della luna,
è apparso,
rompendo le nuvole
scure,
laggiù,
dietro il monte.
Par che sogghigni,
beffardo.
Che vuole?
Pare che ammicchi,
ridendo.
Che dice?
Ascolta!
Dice:
-“Sorgo e tramonto
Ogni sera uguale,
da tanto, da tanto,
che più
non ricordo.
Eppure, ciascuno,
ogni sera,
in me vede
qualsiasi di nuovo,
di strano,
di suo:
un sorriso,
un richiamo,
due amanti,
sognanti,
perduto in un intimo
incanto;…
un volto di donna,
soffuso di pianto,
risposta a una muta domanda;…
un volto di bimbi,
ridente…
E ognuno a me chiede
qualcosa di nuovo
qualcosa che plachi
un’attesa, un tormento,
che accenda un ricordo,
che desti un rimpianto…
Intanto,
ogni sera,
da tanto, da tanto,
che più non ricordo,
sorgo e tramonto.
E ogni sera,
con astri diversi
m’incontro,
seguendo il cammino
fissato,
da tanto, da tanto,
che più non rammento!
Ed altro non so,
non comprendo,
seguendo, incessante,
il mio andare,
pel cielo,
tra nuvole e stelle,
sognando,
invano, da tanto,
da tanto,
poter raggiungere
il sole!"

 

LA RONDINE

Vedi? E’ soltanto
una rondine.
Una piccola, povera
rondine stanca,
caduta sfinita
dal cielo.
Oh, no, non soltanto
pel volo,
si lungo, estenuante,
pesante,
ma solo
pel sole.
Il sole, sì ardente,
cocente,
accecante,
che tutta l’avvolse
di luce, di raggi,
e le tolse
la forza pel volo,
pel placido andare.
Vedi? E’ caduta,
così,
sul tuo cuore,
in cerca di tregua,
di pace.
Or tace…
Non trilla,
non frullano, l’ali.
Ma… ascolta!
-Lo senti il suo cuore
che è tutto un tremore,
che batte, che batte,
che vibra
d’ascoso spavento
dinnanzi all’ignoto
che c’è nel tuo sguardo?
Deh, lasciala stare
soltanto un istante
accanto al tuo cuore,
e falle sognare,
un momento soltanto,
raggiunta la meta.
Illudila!
A volte è pietà
l’illusione!
Falle pensare
che il sogno
si possa mutare
in dolce realtà.
Poi…
poi falla partire!
Poi falla partire
portando nel cuore
la grata dolcezza
di questo sognare
che è la vita,
di questo riposo
che è la pace,
e che tu,
solo tu, le hai donato.
Vedi? E’ soltanto
una rondine,
una piccola rondine,
stanca,
che chiede ristoro
all’arsura.
Domani…
oh, domani, lo sai,
la piccola rondine stanca
che un attimo solo
ha il volo interrotto,
domani
riprende a volare
Riparte! Riprende
il suo andare.
E, forse, soltanto
in quell’ora, saprai
quanto grata ti fu
del riposo.
Ora lasciala stare,
così senza volo,
vicino al tuo cuore,
Un attimo solo!
Così!

 

RICORDO…

Ricordo;
- La stanza era in ombra,
e tu;
sedevi, dinanzi
alla finestra aperta
che dava sui campi,
gialli di grano,
e inondati dal sole.
(*)
Sul fulgente chiarore
di fuori, il tuo viso,
di profilo segnava
un netto disegno,
stagliava
un’ombra chinese,
nera, sul fondo d’oro,
del sole acceso.
Mi piacesti, così,
e, forse, in quell’istante,
senza saperlo ancora,
cominciai ad amarti.
Così, per un’ombra
chinese,
che il tuo viso, di profilo,
disegnava, sul fondo d’oro
d’una finestra
spalancata sul sole.

                           Giovanna Altamura

(*) La scuola Torquato Tasso di Piscinola si affacciava in quegli anni sulla distesa pianeggiante delle campagne dello Scampia, tutta seminata a grano, ed era esposta a nord, proprio come nella descrizione... La poesia potrebbe essere stata ambientata proprio in quel luogo... 

 
Tutte le poesie qui pubblicate (eccetto la prima) sono state tratte dalla raccolta editoriale: “Versi per un sogno d’amore”, di Giovanna Altamura, ed. "La Nuova Italia Letteraria", Bergamo, 1954. Esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Cremona (Bid.L010860087).

Abbiamo trovato anche altre pubblicazioni di G. Altamura, oltre alle due novelle ("La rivolta dell'umanità" e "Fior di Giglio",) già citate nel post dedicato a Giuseppina Bianco, anche: "L'onorevole Don Pasquale", "Le Spine", "Nei secoli fedele", "Quelli del parco C.I.S.", "Tu, la mia mamma", "Raccolta di Leggende"... Di Lei anche una serie di collaborazioni a collane letterarie e delle presentazioni di pubblicazioni di altri scrittori.

---------------------------------------  o  O  o  --------------------------------------- 

                                               

Nella didascalia della poesia "La Vita", tratta da una pubblicazione di raccolte di poesie, così viene ricorda la poetessa Altamura Giovanni: "Direttrice Didattica in pensione, Medaglia d’Oro della “P. I.”, Premio di Cultura della Presidenza del Consiglio, ha pubblicato molti e importanti volumi; altri ne possiede inediti. Padrona assoluta del verso, profonde nel canto i tesori della sua bella cultura e del suo spirito fino a raggiungere toni di elevata bellezza."

 

---------------------------------------  o  O  o  --------------------------------------- 

 

Ringraziamo con gratitudine e affetto la signora Bruna e tutti gli altri familiari, nipoti di Giovanna Altamura, per la loro bella testimonianza che ci hanno trasmesso.
Si ringraziano, per la generosa collaborazione, la direttrice della Biblioteca Nazionale di Cremona, Dott.ssa R. Barbierato e la dirigente Dott.ssa. M. Gentilini.

S. Fioretto

Piscinola, scuola "T. Tasso",1930, cartolina viaggiata. Per gent. conc. della famiglia Barberio (TO)