sabato 8 maggio 2021

A proposito del Capo 'a Chianca, caro Salvatore, ti racconto...! di Vincenzo Capuozzo.

Caro Salvatore,

Scorcio di Piscinola, con temporale in arrivo, foto di De Simone, 2013

riprendo il filo del nostro discorrere su Piscinola antica, parto dal post del "Capo 'a Chianca", recentemente pubblicato, per farti partecipe di alcuni ricordi della strada dove ho vissuto. Oltre ai negozi e botteghe che tu hai citato nel post, dopo la salumeria Biancardi, c'era Peppe d''e bombole.

Cappella palazzo Fioretto, foto S. Fioretto
Peppe per una vita ha portato bombole, prima con il motom poi con la lambretta, lo si può ancora incontrare presso il negozio del figlio (cellulari e altro) o presso Agostino 'o cavuciajuolo (negozio di ferramenta al n. 21), quest'ultimo un altro negozio storico, prima tenuto dal padre Vincenzo (stesso soprannome). Più avanti ancora c'era un piccolo negozio di alimentari tenuto da una  mia zia, la cui attività rilevante, però, era fare il pane nel forno che c'era nel nostro cortile (credo che era uno dei pochi ancora usati allo scopo), il marito poi lo portava tutte le mattine in quasi tutte le masserie, anche lui con un motom provvisto di un cassone.
Edificio T. Tasso e via del Plebiscito, 1981, foto Enzo

Pasqualino (detto della Lavanderia) abita vicino alla famiglia Fioretto (ex abitanti della Masseria Spendore) e alla signora Teresa vedova D'Avolio, una volta abitante nell'altra masseria che si chiamava "masseria Filanda", situata 200 mt dopo la "masseria Spendore", sulla via Perillo e cupa del Cane. Il soprannome dei due fratelli che abitavano la "masseria Filanda" con le rispettive famiglie , era "'e Lupicielli". La cantina di Di Guida (Peppe 'o cantiniero) vendeva anche vino "Mondragone", varietà di vino più pregiata e anche più caro del vino nostrano. 

All'interno del giardino aveva 2 o 3 piste da bocce molto praticate, specie nella bella stagione, dove la sera ci si giocava da bere. Fuori sostava il carrettino a mano di "Pascale ‘ra trippa" bello e pulito. Soleva cuocere le frattaglie nell'ultimo cortile situato verso la via G. Antonio Campano dove abitava. Andava per campagne a raccogliere rami di nocciolo, foglie di fico e altro con cui fare il "letto verde", su cui esporre la trippa e il pere 'e musso e per addobbare il carrettino.

Consegna della posta in una masseria di Piscinola, foto De Stefano

Durante l'inverno faceva altri lavori, tra l'altro lo chiamavano per l'uccisione e lavorazione del maiale (da ragazzo l'ho avuto qualche volta come maestro nella preparazione dei salami e salatura di prosciutto e pancette).

Io ero cliente di Luciella d''e caramelle. Appena avevo 5 o 10 lire  andavo da lei a comprarne alcune (le caramelle erano sfuse e costavano una lira l'una).

L'Associazione "San Vincenzo Ferreri" era un locale piccolo dove la sera alcuni tavolini ospitavano molte persone che si giocavano a carte un bicchiere di vino, sotto lo sguardo del santo.

Il vico Secondo del Plebiscito comunicava, attraverso l'ultimo cortile, con un altro cortile , detto dei "Maricella" che dava su via Dietro la Vigna. Noi ragazzini usavano quel passaggio nel giocare a nascondino. I "Maricella", che erano anche loro coltivatori, avevano comprato delle macchine per "smallare" le noci, cosicché nel periodo della raccolta delle noci, dal pomeriggio a sera tardi c'era un via vai di carretti, Ape e altro, che in coda aspettavano il loro turno per la pulitura delle noci. Tutt'intorno e per tutto il periodo rimaneva il forte odore del mallo.
L'arco di tufo delle foto che immetteva nella strada poderale dove, passati i binari della Piedimonte, iniziava la proprietà Del Forno e portava alla casa di "Peppe 'o guardiano". Qualche volta sono andato a portagli "ammasciate" di mio padre se poteva venire a fare una giornata di lavoro da noi. Peppe oltre a essere guardiano del fondo e coltivarne una parte, si offriva a fare giornate per i lavori di zappatura.

Qui termino con i miei ricordi.

Però voglio porti alcune domande: fermo restando il grande, lodevole e appassionato lavoro tuo di ricerca e conservazione della memoria, mi sembra che manchino dei pezzi per carenza delle fonti. Mi spiego. Tu stesso ammetti che non ci sono molte informazioni e documenti (foto ecc.) per quanto riguarda le masserie del Perillo

Io stesso che ne ho frequentate alcune non ho altro che i ricordi di cui ti ho detto, eppure in quelle masserie si sono svolti matrimoni, feste ecc. che sono state oggetto di pur rare foto, che i contadini erano usi farsi fare. Nelle tue ricerche hai provato a percorrere questa strada? Dico questo perché a Vittuone, dove vivo e nel paese vicino, hanno creato due pagine in Facebook, che si intitolano: "Vittuone... com'era" e "Sedriano, arte cultura storia", che avvalendosi del contributo di singoli soci iscritti, hanno raccolto non poco materiale del tipo che ti dicevo e a ricostruire dei pezzi di memoria, sicuramente meno professionale, ma molto sociale.
Il nostro trascorso di ragazzi, a parte la scuola, si svolgeva nelle vie dove vivevamo e nelle campagne frequentate. Giocoforza avevamo una visione parziale del tutto e anche i nostri ricordi sono rimasti così. Sicuramente vale per chi poi è andato via, ma sono certo che in parte è così per tutti.

Conosco bene "'o Capa 'a Chianca" meno Abbascio Miano, poco "'O Vico 'a Pagliaro", un pò di più “'O Capo 'e Coppa” (perchè frequentavo la casa di mio cugino nel cortile di "Guglielmo 'o vuttaro"). Quindi ognuno di noi è depositario di ricordi comuni ma ancor più di ricordi particolari, da qui la necessità/possibilità di un racconto più allargato.

Quanti ricordano (esistono foto?) che per anni nella zona tra via Dietro la Vigna e le prime palazzine popolari di Marianella c'è stata una campagna disboscata diventata territorio di partite a calcio e altri giochi. Un periodo alcuni giovani avevano appassionato numerosi ragazzi al gioco del Baseball, che nessuno allora conosceva. Quanti ricordano “'e Muntagnelle”, mi pare che nella zona di via Napoli vi fosse un'area omonima interessata da una storia simile a quella ricordata sopra.

Lo stesso vale per la zona che dalla stazione della Piedimonte andava fino a Scampia. Sembra che le foto dello scempio non esistono. Possibile che non si può raccontare quella storia con immagini come quelle delle periferie romane?

Caro Salvatore l'ho fatta lunga, mi accorgo che si è fatto tardi, spero di non avrerti tediato.

Ti auguro la buona notte.

Vincenzo Capuozzo


Innanzitutto, ringrazio calorosamente il caro amico Vincenzo, per il bel messaggio che mi ha trasmesso, e per il bel racconto contenuto. Ringrazio anche per le belle parole di apprezzamento ricevute al lavoro svolto per "Piscinolablog". In merito all'ultima parte dello scritto, ossia alle domande poste, posso rispondere così: Per quanto riguarda la ricerca/raccolta della documentazione fotografica, ho iniziato a cercare da almeno 18 anni a questa parte, da quando organizzammo la prima mostra-evento del "Museo del ricordo di Piscinola e Marianella", all'interno della stazione della metropolitana di Piscinola (autunno 2003/2004). In quella circostanza, io stesso curai la parte grafica e storica e ho accuratamente conservato le foto raccolte (scan), perchè in quella circostanza, grazie al contributo di associazioni, uomini di cultura, scrittori, artisti vari, amministratori politici e tantissimi anziani e cittadini comuni, tutti si sentirono di contribuire, per quanto potevano, con impegno e aggiungo con passione, alla raccolta del materiale disperso. Fu veramente un bel evento. 

Negli anni che seguirono, avvertendo la necessità di ampliare il raggio di raccolta, perché comunque il materiale non era tanto numeroso, e sfruttando i nuovi "social", che intanto si andavano affermando, pensai di fondare il gruppo Facebook di "Noi e Piscinola" (anno 2011), che, nella fase iniziale, grazie al lodevole contributo di diversi amici e, soprattutto, grazie a una vasta platea di aderenti al gruppo, si ebbe un significativo apporto di documentazione fotografica/storica su Piscinola e anche tante testimonianze. Ma è stato un certo senso una meteora che si è subito spenta, perché, dopo i primi anni di proficua attività, il gruppo FB ha abbandonato una parte di quelli che erano i caratteri e gli scopi della fondazione, anche perché cominciavano a non essere più frequenti gli argomenti di discussione a tema (foto e ricordi storici). Negli anni seguenti ho continuato, per conto mio, con le ricerche in biblioteche, presso gli archivi fotografici, e presso altri luoghi e centri di ricerca, anche se il risultato è stato pur sempre modesto, almeno per quanto concerne le foto raccolte. Nella stessa pagina di facebook di "Amici di Piscinolablog", da me successivamente fondata (anno 2014), allo scopo di divulgare gli scritti del mio blog, ho fatto diversi e numerosi appelli, affinchè le persone che fossero in possesso di materiali di interesse storico e fotografico su Piscinola, li mettessero a disposizione per eseguire copie e scannerizzazioni da archiviare e conservare, ma il risultato, a tutt'oggi, è stato un po' deludente.  

Diciamo che ci scontriamo anche di fronte a una mentalità un po' conservativa delle persone, che hanno anche un pizzico di diffidenza e, poi, c'è il discorso della privacy, perché molte foto che ritraggono scorci di luoghi, edifici e larghi, comprendono spesso la presenza di persone, che non condividono che vengano divulgate. Questa è un po' la cronistoria di quanto ho potuto fare fino ad oggi. Non è moltissimo, ma nemmeno un impegno trascurabile. 

Per quanto riguarda, invece, la domanda sulle "muntagnelle" di via Napoli, segnalo che l'argomento è stato trattato anni fa dall'amico Massimo de Stefano e si trova cercando in "Piscinolablog". Ecco il link:

 ... 'e Muntagnelle...! di Massimo de Stefano.


Ringrazio, ancora di cuore, l'amico Vincenzo, e lo invito a continuare con la sua preziosa collaborazione al blog.

Salvatore Fioretto

lunedì 3 maggio 2021

Quel cinema di Miano: "CINEMA VITTORIA", chiamato "PIDOCCHIETTO" (di Mario Vastarella)

Largo centro storico (sul fondo chiesa SS. Assunta)
Il centro storico di Miano aveva una sala cinematografica tutta sua, anche se di capienza ridotta, che si chiamava "Cinema Vittoria", ma era da tutti chiamata bonariamente "Pidocchietto". Non si è mai saputo di preciso l'origine del curioso soprannome del Cinema, forse esso deriva dalle sue piccole dimensioni e, contrariamente, ironia della sorte, si stipava di tanta gente, soprattutto di anziani e di mamme, che accompagnavano numerosi pargoli; addirittura portavano con sé anche il cibo cucinato da casa, che consumavano durante la visione del film!
Io in questo locale ci lavoravo, quando uscivo dalla scuola elementare. Vendevo caramelle, ed un altro compagno mio, che vendeva gassose, si chiamava "Zepechione" e abitava al vico Parisi, dove ci abitava pure il musicista James Senese ed il poeta Giuseppe Capaldo, che scrisse la famosa canzone conosciuta per il mondo: "’A tazza ‘e cafè".
Centro storico di Miano visto dall'alto, foto metà anni '50 (particolare da cartolina Peroni)
Ritornando al cinema “Pidocchietto”, era sempre pieno di militari, anzi, c'è da aggiungere che nel quartiere di Miano la presenza di militari era ormai  di casa, considerata la vicinanza di ben tre caserme.
Mi ricordo che il tecnico del cinema si chiamava Michele, e aveva una vespa motom; lo andavano a prendere in qualche cantina nelle vicinanze, perché spesso, e diverse volte, montava la pellicola del film che si stava proiettando in sala al contrario. Immaginate quello che succedeva nella sala tra il pubblico...?! Succedeva il finimondo! Lo schiamazzo perdurava fino a quando non si aggiustava la pellicola.
Stabilimento Birra Peroni, visto dall'alto e centro storico di Miano

Io prendevo come paga 200 lire a settimana, in compenso, però, mi vedevo tutti i film gratis e, poi,… di tanto in tanto, mi succhiavo mezza caramella, per poi rincartarla di nuovo…

Una confessione, da non condannare, per la mia tenera età di allora…

Le bigliettaie della sala all'epoca erano le sorelle Brizzi, mentre, il gestore, era un certo “Don Gennaro”.

Poi ci stava Don Armando, detto ‘o Nasone, che era il mio titolare.

Ricordo ancora le lunghe trattative di compravendita di biglietti, specie tra ragazzi, le frasi ricorrenti che si sentivano erano: “Te 'o vvuò vennere ‘o posto?” oppure “Te 'o vvuò accattà ‘o posto?” Questo succedeva quasi alla fine di un film.

Ricordo, in particolare, gli immancabili film Western, e quelli di guerra tra sudisti e nordisti americani. Durante la marcia dei soldati, io e gli altri amici seduti in sala ci mettevano a fare un assordante rumore con i sedili e poi ci mettevamo a gridare tutti insieme: "Arrivano 'e nuoste"!
Da Miano a Piscinola all'epoca ricordo che c'erano quattro sale cinematografiche: “Vittoria”, “Avvenire”, “Europa” e “Selis”. Tante volte, da un film all’altro che uscivano nelle sale cinematografiche, queste quattro sale del territoro si passavano le pellicole tra loro.

Ho voglia di quella mezza caramella
Mario Vastarella

Ringraziamo l'amico Mario per averci raccontato questa bella testimonianza della sua gioventù e della vita a Miano di alcuni decenni fa. 
 
Centro Storico di Miano, a lato edificio Villa Russo (foto attuale antichizzata)
 



venerdì 30 aprile 2021

1527. Patto di sangue tra i napoletani e il loro Protettore, San Gennaro...

Stampa ottocentesca di San Gennaro
Domani, sabato che antecede la prima domenica di maggio, la Chiesa Napoletana commemora, come dall'antico calendario liturgico locale, in un'unica ricorrenza, il ricordo delle tante traslazioni che hanno interessato i resti del Vescovo e Martire Gennaro; festa già istituita nel VIII secolo, ricordando la prima traslazione avvenuta nel V secolo, dal luogo di sepoltura di Gennaro e compagni, dopo il martirio, chiamato Marcianum, fino alle Catacombe situate ai piedi dei "Colli Ameni", nella ridente Capodimonte. In verità la festa inizialmente fu fissata il 13 aprile. Purtroppo la continua sua sovrapposizione ai riti della ricorrenza pasquale, spesso capitava durante la settimana in Albis, hanno consigliato nei secoli recenti di spostarla al "primo" sabato di maggio, come detto sopra. Non tutti lo sanno, però, che a volte, quando il primo maggio capita di domenica, la festa della Traslazione si celebra il 30 aprile...,  perchè il riferimento a cui bisogna osservare è la prima domenica di maggio e non il sabato in cui si festeggia.
Le reliquie di Gennaro furono conservate a Capodimonte, fino al IX secolo, ma non comprendevano i resti della capo del Martire e nemmeno il Suo sangue, perchè, come risulta dalle fonti antiche, essi furono sempre custoditi in un ambiente del vecchio duomo medioevale napoletano, è precisamente in quello che veniva chiamato "Stefania", perché edificato dal vescovo di Napoli chiamato Stefano I, in contrapposizione con l'altra cattedrale, anch'essa molto antica (intorno al VI sec.), che era chiamata "Ecclesia Sancti Salvatoris", ovvero la "Basilica di Santa Restituta Africana"; secondo una leggenda essa fu edificata dall'imperatore Costantino.
Nell'anno 831, come scritto in altro post dedicato alla figura di Gennaro, le sue reliquie, poste nelle catacombe di Capodimonte, furono rubate dai Longobardi, condotti dal principe beneventano Sicone e trasportate nella città Sannita.
Quando nel XIII secolo i regnanti angioini, precisamente re Carlo II d'Angiò, soprannominato "lo zoppo", decisero di edificare l'odierna Cattedrale, fu demolita interamente la struttura della "Stefania" e inglobato nel nuovo tempio quel che restava della basilica di Santa Restituta, rimaneggiata per l'adattamento: ovvero, monca del quadriportico e di un tratto di lunghezza delle cinque navate, nel lato d'ingresso. Quando il duomo angioino fu completato, le reliquie del capo del Martire e del suo sangue furono sistemate in un ambiente appositamente ricavato, posto a un livello superiore della navata laterale di sinistra (guardando l'altare maggiore), a cui si accedeva attraverso una scala a chiocciola molto tortuosa e stretta. In questo locale, che fu chiamato "Tesoro Vecchio", c'era un altare con due nicchie ai lati, dove si conservavano le due reliquie (L'ambiente risulta oggi ancora conservato, anche se rimaneggiato nel periodo barocco).
Incominciava in quel tempo a formarsi anche quello che fu poi chiamato "Tesoro di San Gennaro", con i busti dei primi sei santi compatroni della città (Agrippino, Efebo (o Eufebio), Aspreno, Agnello Abate, Atanasio, Severo), aventi il "mezzo busto" realizzato in legno, mentre il capo e le mani erano eseguiti in argento, fuso e cesellato. Poi c'erano anche dei gioielli e degli oggetti, in metallo e pietre preziose, donati da più parti. A custodia di questo ambiente e di quanto ivi contenuto, fu istituita la figura del "Cimiliarca", ovvero il custode del "Tesoro Vecchio".
Quando, durante i casi di calamità pubblica (eruzioni, terremoti, epidemie, carestie, alluvioni e guerre...), il popolo reclamava la benedizione della città con le reliquie di San Gennaro, un sacerdote si affacciava da questo ambiente, che dava sulla navata  della cattedrale e attraverso un finestrone, ancora oggi esistente, mostrava le reliquie del sangue e impartiva a tutti la benedizione richiesta.
Questa sistemazione logistica si protrasse fino al XVI secolo, con qualche nota di cronaca particolare (riferite dai cosiddetti "diari" dell'epoca), come ad esempio l'episodio che capitò proprio durante una festa della Traslazione, quando il prelato, che aveva il compito di prelevare la teca con le ampolline del Sangue del Martire dal "Tesoro Vecchio" e condurla in processione, sotto al pallio, per le strade della Città, non afferrò bene la teca d'argento (realizzata da re Roberto d'Angiò) e la fece rovinare a terra! La procedura prevedeva che la teca dovesse essere portata strettamente in petto, raccolta dentro una scola in tessuto ricamato, ma quella volta non furono ben adottate queste precauzioni... Insomma si temette il peggio, perchè la detta reliquia, non solo cadde a terra, ma addirittura rotolò per tutti i gradini della scala a chiocciola! Fu una vera fortuna che le ampolle non accusarono alcun danno alla loro integrità, né si ebbero ripercussioni nel ripetersi del celebre "prodigio". Qualcuno pensò a un miracolo del Santo.
Nella seconda decade del XVI secolo, precisamente il 13 gennaio del 1527, la città di Napoli era stremata da una epidemia di peste e da una carestia, mai viste fino a quel momento; la sanguinosa guerra tra Spagna e Francia, che vedeva convolta anche Napoli, diffondeva i suoi nefasti danni e sciagure, quindi i napoletani esasperati dagli eventi, decisero di chiedere l'aiuto divino e di stipulare, a garanzia del sicuro intervento, una specie di "patto": un patto alquanto insolito, perchè la "controparte" non era vivente fisicamente, ma era un Santo..., ovvero, con San Gennaro in persona...! I napoletani erano convinti che, laddove non si potesse arrivare a risolvere i problemi con le forze umane e terrene, solo l'aiuto divino poteva dare sollievo ai casi più disperati...! Parliamo ovviamente dei problemi civici e politici dell'epoca. Quindi essi non si scoraggiarono e organizzarono un "comitato" di alto profilo civico e rappresentativo, formato da dodici "deputati", scelti tra le famiglie più nobili dell'aristocrazia cittadina del tempo, chiamati "Eletti", tra quelle ascritte ai sei Sedili che governavano la Città e anche dei rappresentanti del popolo. Furono quindi nominati due componenti per ognuno dei cinque Sedili nobili: Capuana, Nilo, Porto, Portanova e Montagna, e due del Sedile del Popolo. Nacque così quella che sarà chiamata "Real Deputazione del Tesoro di San Gennaro". Questi rappresentanti si riunirono alla presenza del notaio, che si chiamava  Vincenzo de Bossis, davanti alle reliquie di San Gennaro, che furono esposte sull'altare maggiore della Cattedrale, stilarono e sottoscrissero un vero e proprio contratto ufficiale (Pubblico Istrumento).
Si impegnarono, affinché fosse debellata l'epidemia e la carestia, a realizzare un nuovo tabernacolo in argento dorato, del valore di 1000 scudi, per contenere la teca della reliquia del Sangue, e di depositare la somma iniziale di 10.000 scudi, destinati alla realizzazione di una nuova e sontuosa Cappella, con ingresso a lato della Cattedrale, per accogliere degnamente le reliquie del loro Santo Patrono e delle statue dei Santi Compatroni della città, che intanto andavano aumentando di numero. In realtà a conclusione dei lavori della Cappella, furono spesi ben oltre 480.000 scudi...! A rappresentare San Gennaro, durante la stipula dell'atto, fu sufficiente esporre le reliquie della testa e quella del Sangue, tanto si riteneva che il sangue liquefatto era segno di una conferma della volontà del Santo... Dopo poco tempo, quando l'epidemia e le altre calamità cessarono, i napoletani onorarono la promessa fatta a San Gennaro, edificando quello che verrà poi detto "Tesoro Nuovo", ovvero la "Real Cappella del Tesoro di San Gennaro". La cappella, con pianta "a croce greca", è di proprietà della Municipalità di Napoli, ovvero di tutti i napoletani, mentre l'organismo che l'amministra, resta ininterrottamente in auge da ben cinque secoli, ed è la "Deputazione del Tesoro di San Gennaro": Deputazione risultante tra le più longeve del mondo, che è presieduta dal Sindaco di Napoli in carica. Questa ultima disposizione fu però introdotta solo durante il Decennio Francese, perchè prima di quel periodo, il presidente della Deputazione era il Sovrano in persona.
Stampa con le due cattedrali della Stefania e della Ecc. S. Salvatoris

L'opera per la costruzione della Cappella di San Gennaro tardò ad essere iniziata e dovettero passare ben 81 anni, dalla firma del "patto", per vedere posata la prima pietra e iniziati i lavori (8 giugno 1608). La progettazione e la direzione dei lavori fu affidata all'architetto teatino Francesco Grimaldi; ma tra lentezze burocratiche, gli espropri, i problemi tecnici, le crisi politiche e anche gli attentati terroristici... (compiuti da alcuni artisti napoletani esclusi dalla committenza), orrorsero ben 38 anni per vederla completata (benedetta nel 16 dicembre 1646), con tutti gli abbellimenti che la compongono. Oggi, infatti, ammiriamo un degno capolavoro cittadino dell'arte barocca, composto da: stucchi, marmi pregiati, bronzi, argenti, e poi: il cancello in ottone (di C. Fanzago), il paliotto d'altare maggiore in argento (vero capolavoro di Giandomenico Vinaccia), le statue d'argento dei 53 Santi Compatroni (ognuna un capolavoro di argenteria napoletana), i dipinti su rame del Domenichino, l'affresco del "paradiso" nella cupola (pregevole opera dell'emiliano Giovanni Lanfranco, completato nel 1643). E, poi, la serie di statue dei santi in bronzo, le statue in marmo (Finelli & C.), i due organi del sei-settecento, gli oggetti ex voto e i gioielli ornati con pietre preziose di valore inestimabile, sono un tutt'uno di questo "capolavoro" d'arte, che dimostra la grande venerazione che il popolo napoletano, insieme ai regnanti e all'aristocrazia napoletana di ogni tempo, hanno sempre avuto verso il grande Santo e Protettore, San Gennaro. La frase scolpita sulla sommità dell'ingresso della Cappella è una sintesi di questo riconoscimento popolare e recita così:

"Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis. Civi, Patroni, Vindici", che tradotta vuol significare: "San Gennaro, dalla fame della carestia, dalla peste, dal fuoco del Vesuvio, per opera del tuo Sangue miracoloso, Napoli riconoscente eresse. Al Cittadino, al Patrono, al Difensore della Patria."
Abbiamo cercato di narrare con parole semplici e senza tanti appesantimenti, un passaggio importante della storia di Napoli, speriamo vivamente di aver raggiunto il nostro obiettivo. L'abbiamo voluto dedicare alla città di Napoli, a tutti i napoletani e a tutti i devoti di San Gennaro sparsi per il mondo, in occasione dell'antica ricorrenza napoletana.
Intanto diciamo, grazie San Gennaro!
Salvatore Fioretto

sabato 24 aprile 2021

Quel "Capo" popolare di Piscinola... 'o Capo 'a Chianca...!

Una delle zone più popolari di quello che fu il “Villaggio di Piscinola” è stata sicuramente quella che ancora oggi si usa indicare, con il toponimo tutto piscinolese, di “o Capo 'a Chianca”. La zona comprendeva, prima della "ricostruzione del dopo terremoto degli anni ’80", oltre alla strada principale, chiamata Via del Plebiscito a Piscinola, anche una serie di stradine laterali, un tempo densamente abitate; tra cui: vico I e vico II Plebiscito, via Dietro la Vigna, via Cupa Acquarola e alcune traverse interpoderali che un tempo permettevano il collegamento del quartiere di Piscinola alla Scampia agricola, come quella della proprietà della famiglia Del Forno e, poi, la strada di campagna di collegamento con i comuni di Mugnano e di Melito, detta Cupa Perillo.
L'origine del toponimo non è certa, anche se il riferimento è riconducibile quasi sicuramente al termine di "Chianca", che in antichità indicava la bottega del macellaio, ovvero "la panca": un bancone di legno sul quale si esponevano i tagli di carne alla clientela, parola che
poi il dialetto napoletano ha tramutato in "Chianca" (per l'abitudine di coniugare il suffisso "pia" in "chia"; es. piano diventa chiano). Forse l'origine puo' attribuirsi anche alla realizzazione di un macello comunale nella zona, come auspicato dalle autorità comunali di inzio secolo '900, ma non sappiamo se poi esso sia stato realmente realizzato.
Sulla strada del Capo ‘a Chianca, fino alla fine degli anni ’70, c’erano tanti negozi e negozietti: la lavanderia di “Pasqualino”, una sartoria, un fioraio (Sica), un emporio, una salumeria (condotta dalla famiglia Biancardi), una macelleria e ben due negozi di barbiere (uno sulla strada e uno all'interno del palazzo Staviano). Poi c'era il negozio di fruttivendolo, "casa e puteca", di donna "Sisina 'a parulana", che è rimasto fino a pochi anni fa, di fronte al locale dell'Associazione del SS. Crocifisso e di San Vincenzo. Molto frequentata era la cantina, un tempo condotta dalla famiglia Di Guida (in particolare il fondatore, che fu Peppe, soprannominato 'o Canteniere). Questa cantina offriva vini locali e una cucina casareccia di degno rispetto. Aveva uno spazio all’aperto, interno, situato nella parte retrostante al palazzo. Durante i festeggiamenti patronali di Piscinola, sul marciapiede della strada, nel tratto prospiciente a questa trattoria, si allestivano tavolini e sedie, per consentire la degustazione di superbe “zuppe di cozze” e “zuppe di marruzze”, preparate dal "maestro cozzecaro", detto Peppe 'o Russo…! Costui era, diciamo, in rivalità con l'altro allestimento che si preparava davanti al largo della farmacia "Chiarolanza", condotto dal "maestro cozzecaro", soprannominato "Buccetiello".
Nel vico I Plebiscito c'era il palazzo detto “della Calavresella, un altro palazzo, quindi uno slargo e, poi, seguivano il palazzo della famiglia “dei Manduline”, il palazzo di “Teresa ‘a Cacaglia” e il palazzo della famiglia “Spicularaglio”, infine l'unico palazzo senza arco, proprio di fronte a quello della Calavresella. Questi nomi atipici dei palazzi erano tutti riferiti alle famiglie originarie di Piscinola che vi abitavano. Di quest’ultimo palazzo, della "Calavresella", si può desumere che l’attribuzione derivi da qualche famiglia o donna, che l’abbia abitato o avuto in proprietà, e che era originaria della Calabria. Sull'inizio di via Dietro la Vigna, c'era il complesso di due palazzi della famiglia Lanzuise, che restano ancor oggi in gran parte conservati, uno dei quali mostrando sulla sua facciata, da chi viene dalla Piazza Tafuri, una minuscola ma notabile cappellina, con una bella statuetta del SS. Salvatore.
Nella strada c'erano due bassi, dove abitavano due vecchiette, che vendevano caramelle per sbarcare il lunario, e si facevano  concorrenza spietata tra loro... Una stava in un minuscolo locale accanto alla lavanderia di Pasqualino, e si chiamava "Michela 'a caprarella", mentre l'altra vecchietta, che i ragazzi dell'epoca chiamavamo "Luciella d''e caramelle", era proprio di fronte alla cantina dei Di Guida.
In un cortile del vico I Plebiscito, in fondo a sinistra, dove c’era un cortile aperto, con caseggiato attorno, vi abitava la famiglia di  "Vicienzo ‘o Popolo”, di professione ciabattino ambulante. Di questo personaggio abbiamo già dedicato in passato un post in questo blog. In quel cortile, purtroppo, all’inizio del 1944, morirono, come ci è stato riferito da più parti, per lo scoppio di un ordigno bellico, oltre dieci di bambini, tra cui proprio il figlio del “’o Popolo”, di nome Costantino, l'unico suo figlio maschio, mentre ebbe ben nove figlie.
Nel vico I Plebiscito abitava anche don Cosimo, detto 'o tarallaro, e dove aveva la sua bottega. La "voce" di richiamo, che declamava per reclamizzare i suoi prodotti, era: "Cambiare dollaro, moneta italiana...". La moglie donna Cuncettina è ricordata per la sua generosità verso i fanciulli, perchè era solita donare dei tarallucci dolci ai ragazzi del caseggiato.
Il palazzo del “Padreterno”, ancora esistente, anche se ristrutturato, stava sul largo dove oggi c’è un albero centrale; il caro Pasqualino d’’a Lavanderia, ci tiene a precisare, ogni volta che capita di incontrarlo, che in quel cortile, molto popolare di Piscinola, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1940), abitavano ben “101 bambini" e ognuno aveva un proprio nomignolo…!
Nella strada di via del Plebiscito esisteva anche la sede dell’Associazione Cattolica e Operaia del SS. Crocifisso e di San Vincenzo, che ogni anno organizzava la festa rionale, dedicata al Crocefisso. L’Associazione possedeva anche una bella statua di San Vincenzo, che negli ultimi anni fu deposta in una nicchia della cappella di Santa Maria della Pietà, del palazzo Fioretto e della quale poi se ne sono perse ogni traccia. C’è da dire che forse la devozione per San Vincenzo a Piscinola non è del tutto casuale, perché secondo alcune fonti, tra le associazioni di lavoratori che avevano eletto come loro protettore il “Monacone” della Sanità, ovvero San Vincenzo Ferrer (italianizzato Vincenzo Ferreri), c’erano proprio i “montesi”, ovvero i cavatori di pietre di tufo dalle cave presenti a Chiaiano e a Capodimonte (da noi chiamati “monti”); ovviamente il genere d’attività era molto florido e sviluppato negli anni ’50, periodo della ricostruzione postbellica e offriva molte occasioni d'impiego ai giovani del circondario, e tanti erano anche i “montesi”, devoti, che abitavano a Piscinola in quel periodo.
I componenti di questa Associazione organizzava, nella propria "contrada", i festeggiamenti patronali annuali in onore del SS. Crocefisso, che capitava nel mese di maggio. Per la festa si allestivano luminarie a partire dall'incrocio con via Cupa Acquarola, fino al termine della strada di Via del Plebiscito a Piscinola.
Nella parte antistante la piazza B. Tafuri, si realizzava una imponente "porta" di luminarie, tra la scuola T. Tasso e i palazzi di fronte, avente altezza fino ai tetti degli edifici. Per la festa si eseguiva la “Funzione del Crocifisso”. Si iniziava dal lato terminale della strada, (lato verso cupa Perillo), recitando la Passione di Gesù e seguendo il racconto del Vangelo, poi, lungo la strada si snodava la Via Crucis, con Gesù che portava la croce, fino all’inizio del muro della scuola Tasso, sul quale si rappresentava la scena della Crocifissione. Il personaggio di Gesù era interpretato sovente dal fioraio Mario Sica, il quale all'epoca aveva capelli lunghi e la barba rossa e, quindi, molto somigliante all’iconografia di Gesù.
Durante la scena della crocifissione, come dai Vangeli, un centurione porgeva a Gesù morente una spugna intrisa di aceto, all’estremità di una canna e diceva la frase (aggiunta nel copione): “Bevi, bevi carognone…!” Curioso il fatto che, proprio per questa frase, questo attore improvvisato, che si chiamava Pasquale, fu da allora soprannominato da tutti, come “Pasquale ‘o Carugnone…”!
Di questa genuina festa del Crocifisso abbiamo raccolto un aneddoto singolare e simpatico, veramente accaduto intorno agli anni ’50 del secolo scorso. Durante una di queste funzioni del Crocifisso (Chiamata: 'a funzione d''a Passione e Morte), il fioraio Mario Sica, che recitava stabilmente, come detto sopra, la parte di Gesù, forse quella volta non fu legato bene al simulacro di legno e iniziò a lamentare dei dolori alle braccia. Il "centurione", che secondo la parte, doveva simultare con la lancia la foratura del costato di Gesù, tardava a recitare e a completare il "quadro" e lui, Sica, attanagliato dal dolore, cercava in tutti i modi di far capire all'altro attore di accelerare la conclusione della scena, facendogli gesti e parole sussurrate, senza farsi accorgere dal pubblico, che intanto seguiva con animo sospeso lo svolgersi della scena… L'attore effettivamente non ne poteva più di stare in quella posizione…!! Ad un certo punto, avendo perso la pazienza e un po’ indispettito, iniziò a imprecare alcuni epiteti contro il "centurione", parole ovviamente non contenute nel copione e poco consoni al ruolo sacro che stava rappresentando in quel momento...! Malauguratamente tutti gli interventi degli attori erano diffusi nella zona, tramite un impianto di amplificazione allestito per la festa e tutti ascoltarono le frasi insolite, “recitate” fuori dal copione…! Il pubblico rimase inizialmente sbigottito e impietrito, mentre i due conclusero l’incidente, con una sonora e plateale risata…! E alla fine, quando capirono, risero divertiti un po' tutti... Quell’episodio è rimasto, a distanza di tanti anni, nell'inventario collettivo di Piscinola, come un simpatico aneddoto degli anni spensierati del dopoguerra e tutt’oggi è ricordato nostalgicamente, soprattutto dagli anziani del quartiere.
Il fioraio Mario Sica, oltre ad essere stato un valente professionista nell'arte floreale, è stato uno dei più celebri e ricordati organizzatori e anche presidente del “Comitato dei festeggiamenti del SS. Salvatore”, e ogni anno soleva anche allestire, a sua cura e spese, l’addobbo floreale per il “carro” sul quale si sistemava l’immagine del SS. Salvatore, durante la processione esterna.
L’Associazione del SS. Crocefisso e S. Vincenzo si componeva di molti adepti, e erano distinguibili durante le annuali processioni  del SS. Salvatore o del Corpus Domini, per l’ordine e l’eleganza con i quali partecipavano alla "sfilata", sia per l'uniformità dei vestiti, tutti rigorosamente in smoking nero, farfallina nera su camicia bianca, guanti bianchi e laccio con Crocefisso portato a collo, e sia per un insolito distintivo con lampadina luminosa, di colore rosso, portato da ciascuno fieramente al taschino della giacca (come si può osservare nella foto qui a lato).
Un personaggio di Piscinola che recitava il ruolo di comico e d’intrattenitore, anche durante questi festeggiamenti, era il comico piscinolese che si faceva chiamare “Sabbatino”. Non sappiamo se il suo era un nome d’arte oppure quello di anagrafe.
Ritornando alla via del Plebiscito, a metà strada si erge quello che viene indicato il “palazzo d’’a Scola”, ovvero il vecchio edificio scolastico comunale. Di questo edificio che conserva ancora le forme di un edificio pubblico, come
l'ampio portale, con le colonnine sull'ingresso,  il terrazzo con balaustra e la suddivisione ordinata delle finestre e dei balconi, sappiamo che ospitò per diversi anni la scuola elementare per le bambine, da quando il Comune di Piscinola decise di realizzare anche un luogo riservato alla loro educazione, mentre, fino a metà dell’800, a Piscinola c’erano solo i locali didattici riservati ai bambini, situati all’interno del Palazzo di Villa Vittoria (detto Grammatico). Dal 1930, con la costruzione dell’imponente edificio scolastico Torquato Tasso, l'insegnamento è stato aperto a tutti, anche se in classi separate e divisi (maschi e femmine) tra le due "scale", mentre i due mentovati edifici hanno perso le loro antiche funzioni e sono diventati abitazioni private.
Proseguendo, lungo la strada, troviamo anche l’antico e nobile “Palazzo Fioretto”, chiamato anche "Palazzo d''a Marescialla". Il complesso di edificio storico è appartenuto nei secoli ad alcune famiglie della nobiltà napoletana: dapprima alla famiglia De Luna d’Aragona e poi ai Duchi Giordano di Falangola, ai quali abbiamo già dedicato in passato appositi post.
Altro edificio degno di nota, ancora ben conservato, soprattutto dopo il restauro eseguito a metà degli anni '80 del secolo scorso, è il palazzo chiamato "Staviano". Questo edificio, posto verso piazza B. Tafuri, presenta una conformazione tipica diffusa nei casali di un tempo, chiamata "a Corte", con due corpi di fabbrica adiacenti, disposti a forma di "L", composti da una successione di locali al piano terra, con avamposti di archi e volte e, una serie di locali al secondo piano, comunicanti tra loro con pergolato, coperto con travi in legno e tegole. Al secondo piano si accede attraverso rampe di scale esterne.
Già in un altro post abbiamo ricordato la singolare iniziativa imprenditoriale condotta negli anni '50 dalla famiglia Ronga (Totonno (Antonio) detto 'o cassusaro), che riuscì ad allestire in un minuscolo locale, prospiciente alla via Cupa Acquarola, una mini impresa per la produzione artigianale di gassosa.
Discorso a parte merita la trattazione storica di via cupa Acquarola, per la sua valenza geomorfologica. Di essa tratteremo un dedicato post nel prossimo futuro, insieme alle altre emergenze idrogeologiche storiche del territorio.

Salvatore Fioretto

Per la realizzazione di questo post si ringrazia in particolare Pasquale di Fenzo. Ringraziamo ancora: Natale Mele e Pasquale di Vaio