venerdì 12 marzo 2021

I mestieri di una volta... l'arte di un popolo nell'arrangiarsi...!

Nutrice in Napoli, "Costume di Marianella"

Buona parte del territorio posto a nord di Napoli è stato in passato una zona prevalentemente agricola e molto povera con quasi la totalità dei suoi abitanti dediti ai lavori massacranti dei campi e delle masserie.
I più anziani ricordano certamente i lavori estenuanti che si facevano, per "battere" o "scugnare” il grano, i fagioli e per lavorare la canapa. E tutto questo per una manciata di spiccioli.
Vi erano i padroni delle terre, ma vi erano soprattutto gli operai “di giornata”, che lavoravano molto e guadagnavano poco.
Attorno alle attività agricole nei campi ruotavano una moltitudine di mestieri “specialistici” come, ad esempio, quelli dell’”innestatore”, dello “zolfatore”, del “tappiatore”, del “pompatore”, del “potatore”, dello “zappatore” ed altri ancora. Addirittura c’era anche un “operatore ecologico”, specializzato ad acciuffare topi nei campi, detto “soriciaro”

Ciabattino, detto "Solachianiello"

Tuttavia, con l’aumento della popolazione, l’economia cominciò a trasformarsi: molti si diedero alle opere in muratura e vennero fuori bravi, anzi bravissimi, operai specialisti del mestiere, come muratori, fumisti, pavimentisti, intonachisti, imbianchini, stuccatori e, di conseguenza, nacquero le prime piccole imprese che assoldavano molta manovalanza locale.
E le donne? Anche le donne per aiutare l’economia domestica si sono sempre date da fare. Lo sappiamo bene, oltre a quelle che aiutavano i familiari nei lavori agricoli, ve ne erano molte che facevano le lavandaie: esse avevano appalti con moltissime famiglie di Napoli e rispettando le varie scadenze di commessa, portavano carretti carichi di biancheria, che lavavano, stiravano e poi riconsegnavano con scadenze prestabilite.
Nella descrizione del marchese Lucarelli, del 1913, si rileva che, considerata la sempre crescente attività a Piscinola delle lavandaie, le quali impegnavano ampi spazi di cortili per il bucato, fu deciso di realizzare un lavatoio pubblico in Via Cupa Acquarola.

Lustratore di scarpe e stivali, detto "Pulezzastivali" o "Sciuscià"

C’erano, poi, non poche donne-mamme, che facevano le “nutrici” (erano chiamate anche "mamma ‘e latte" o "mammella"). Proprio per sottolineare l’importanza di questa attività nella nostra zona, esiste una stampa antica, che raffigura una ragazza con un abito caratteristico, chiamato “Costume di Marianella - Nutrice in Napoli ”.
Non mancavano poi le “vammane” (originariamente “mammane”), vale a dire le antesignane delle attuali ostetriche.
Dopo l’ultima guerra, moltissime donne di famiglia impararono il mestiere di sarta. Mandare le ragazze ad imparare a cucire era diventata da noi una vera e propria usanza.

Operatrice di bellezza, detta "Capera"

Negli anni cinquanta e sessanta, poi, molte ragazze di Piscinola lavoravano a casa propria, preparando “a cottimo” i guanti in pelle per i distributori cittadini. Le maestre appaltatrici contrattavano e distribuivano a dozzine i guanti da cucire e moltissime donne così contribuirono al bilancio familiare o a realizzare la dote necessaria per sposarsi.
Non mancavano poi le cosiddette “capere”, cioè quelle donne parrucchiere, le quali andavano presso le loro clienti, casa per casa, a pettinare la loro folta chioma. Considerato che durante il loro lavoro, esse dovevano tener desta la persona e la dovevano intrattenere a parlare, raccontavano i fatti degli altri e per conseguenza sapevano anche i fatti di quella persona e della sua famiglia. Così spesso si facevano anche tanti pettegolezzi. Tuttora usiamo ancora chiamare “capera”, colei o colui che spettegola a sproposito. Ovviamente abbiamo anche i barbieri, che solevano recarsi direttamente al domicilio dei loro clienti, sparsi per la zona, per curare, oltre i loro capelli, le barbe e i baffi.

Aggiustatore di piatti,  detto "Tammarriello"

L’arte dell’arrangiarsi e del sopravvivere faceva aguzzare la fantasia e l’ingegno della gente ed ecco che, come nel territorio cittadino, nacquero anche nel nostro territorio miriadi di mestieri ambulanti, esercitati da persone semplici, che con poche masserizie portate a spalla o con carretti, girando strade e cortili, vendevano i loro prodotti, emettendo “voci” e versi di richiamo per pubblicizzare la loro mercanzia.
Il primordiale operatore della pubblicità fu in tutta Napoli il “pazzariello”, il quale come un abile commediante, era vestito con abito sgargiante, mostrine e piumaggi, che ricordavano vagamente il generale napoleonico Gioacchino Murat. Egli armato di pomo dorato, che agitava a ritmo di un direttore musicale, andava girando per le strade, ballando e cantando, per commercializzare il prodotto per il quale era stato pagato. Era accompagnato da una piccola orchestrina composta da suonatori di tamburo, ottavino e clarinetto.

Ciabattino, detto "Solachianiello"

Altro personaggio importante nell’economia contadina era il sensale, chiamato “‘o sanzaro”. Il “sanzaro” era colui che combinava affari, proponendo in vendita “partite” di prodotti agricoli, quali frutta, ortaggi, vino, ma anche animali, terreni e case. Egli era un personaggio conosciuto da tutti gli abitanti; questi si faceva trovare normalmente in un luogo prestabilito, spesso nella piazza principale della zona. Era sempre aggiornato sui prodotti messi in vendita, perché curava i contatti con le persone che volevano vendere una determinata cosa e di coloro, che a loro volta, volevano acquistare.

Riparatrice di sedie di paglia, "'Mpagliaseggia"

Quando combinava gli affari, ossia quando metteva d’accordo le parti, il gesto che faceva compiere per sancire l’accordo era una poderosa e sostenuta stretta di mano, che si protraeva con energia ed egli stesso si univa al gesto con la mano, come per suggellare l’accordo. A scambio o vendita avvenuta, il “sanzaro” aveva diritto ad una percentuale in denaro, stabilita in base al valore delle cose scambiate ed era fornita in egual misura, sia da parte del venditore che del compratore. In sostanza il sensale è stato un primordiale “agente di commercio” dei nostri tempi.

Fino alla metà degli anni ’80 si poteva ancora incontrare, fuori al “vecchio” municipio di Piscinola, lo ”scrivano”: personaggio al quale, ancor di più nei secoli passati, la gente si affidava per compilare richieste di documenti, esposti alle autorità, oppure scrivere missive da trasmettere a parenti ed amici lontani.

Maniscalco di equini, qui chiamato "Ferracavallo"

Lo “scrivano”, con il suo operato, quindi, ha esercitato nei secoli una funzione che potremmo definire sociale e ancora si vedeva all’epoca dei nostri ricordi, dedito ad aiutare le persone anziane, a compilare i complicati modelli dell’”Ufficio dell’Anagrafe”, in cambio di qualche monetina. Aveva sempre in mano una voluminosa cartellina, piena di modelli “in bianco” e scriveva all’impiedi, senza l’aiuto di tavolino o di sgabello.
Proviamo ora ad elencare alcuni tra gli innumerevoli mestieri ambulanti un tempo esistenti, in particolare, quelli più singolari e caratteristici: il pizzaiolo (‘o pizzaiolo), il fruttivendolo (‘o parulano, ossia colui che vendeva ortaggi delle paludi, recentemente detto anche verdummaro), la venditrice di rane (‘e rarogne), l’arrotino (‘o mola forbice), il ciabattino (‘o solachianiello), l’aggiusta ombrelli (ll’acconcia ‘mbrelle, oppure ‘o ‘mbrellaro), la venditrice di spighe di mais (‘a pullanghella), il gelataio (‘a grattata), il venditore di pesce (‘o pisciavinnalo), il venditore di legumi secchi (‘e spassatiempe), il venditore di olive (l’aulivare), il venditore di ostriche (l’ostricaro), il venditore di zucche e zucchine (‘o cucuzzare),

Realizzatore di cesti e rivestimenti in vimini, detto "Canestraro"

l’aggiustatore di sedie (‘o 'mpagliaseggie, mentre il costruttore di sedie era chiamato ‘o seggiaro), l’aggiustatore di piatti e zuppiere (‘o tammarriello), il venditore di castagne arroste (‘o castagnaro), il venditore di castagne lesse (‘a ‘llessa), il venditore di ricotta (‘a ricotta ‘e fruscella, oppure ‘o ricuttaro), il venditore di latte di vacca (‘o lattaro), il pastore di capre e venditore di latte (‘o capraro), il venditore di caglio (‘o massese), il pastore di pecore e venditore di agnelli (‘o pucuraro), il venditore di trippa (‘o carnacuttaro, detto anche ‘o pere ‘e ‘o musso), il venditore di brodo di polipi (‘o brod’ ’e purpo), il venditore di cozze (‘o cuzzucaro), il pulitore e riparatore di pentole di rame (‘o stagnaro, detto anche 'o rammaro), il venditore di carbone (‘o cravunaro), il venditore di lumache (‘o marruzzaro), il venditore di fichi (‘o fecajuolo), il venditore di ciliegie (‘o cerasaro), il venditore di gelsi (‘e cèveze annevate), il venditore di sorbe (‘e sòvère pelose) e, solo per finire, il venditore di olio (l’oliandolo).

Realizzatore di materassi di lana, detto "Materazzaro"

Bisogna precisare che il venditore di latte (‘o lattaro) si recava al mattino e alla sera, direttamente al domicilio dei clienti, portando con sé la mucca da mungere.
Anche i venditori stanziali in botteghe avevano nomi caratteristici, come il venditore di stoffe, bottoni e giocattoli per bambini (‘o zarellare, recentemente chiamato anche a merceria), il venditore di formaggi (‘o casanduoglio), il venditore di carne (‘o chianghiero), il venditore di stoccafisso e ventricelli (‘o baccalajuolo), il venditore di vini e oli (‘o canteniere), il venditore di sale, tabacchi e marche da bollo (‘o tabbaccaro), il venditore di polli e conigli (‘o pulliere), il venditore di calce e articoli edili (‘o cavuciajolo oppure ‘o ferrareccia), il venditore di carbone (‘o gravunaro).

Canestrari

Gli operai addetti alla manutenzione delle selve erano chiamati “severaioli”, mentre quelli addetti a lavorare nelle cave per estrarre il tufo o altre pietre, erano chiamati “montesi”.
Altri mestieri antichi e specialistici erano “‘o ferracavallo”, ossia il maniscalco, che si occupava di sellare i cavalli, “‘o maste ‘e capetiello”, ossia lo stuccatore e il decoratore di interni, “‘o masterascio”, cioè maestro d’ascia, “‘o sfasciacarrozze” (detto anche mannese), cioè l’aggiustatore di carri, “‘o fravecatore”, ossia il muratore, mentre il costruttore o riparatore di forno era chiamato “‘o furnaro”.
Gli operatori dediti al trasporto dei prodotti dalle campagne in città e in altri paesi erano chiamati “carresi”, mentre i costruttori dei recipienti, utilizzati per contenere il vino, erano chiamati “varricchiali”.

Posizione di operatore della lana su scardasse

Un altro mestiere caratteristico della zona era il “matarazzaro’, ossia l’operatore ambulante che girovagava durante il periodo del dopoguerra e fino agli anni ’80, tra masserie e cortili, specializzato ad “allargare” e rendere soffice la lana dei materassi. Egli si aiutava con un particolare strumento di legno, che era chiamato “‘o scardasse”. Quest’attrezzo era una sorta di telaio costituito da due piastre di legno curvate, di cui la parte inferiore era fissa al telaio, mentre la piastra superiore era mobile e poteva oscillare con la spinta manuale del “materazzaro”. Le piastre erano rivestite da numerosi chiodi, che con il movimento alterno favorivano la sfibratura della lana. La lana, prima dell’operazione, doveva essere opportunamente lavata e asciugata al sole.
Sovente, la lana dei materassi veniva lavorata anche a mano, a cura delle pazienti donne di casa. Molti erano, infine, i sarti specializzati per collazionare abiti su misura maschili.

Arrotino su bicicletta, "Mola forbice"

A conclusione di questo interessante argomento, c’è da aggiungere che nonostante la variegata quantità di mestieri esistenti nel territorio piscinolese, è stata la lavorazione della canapa e anche del lino ad avere e conservare per molti secoli un posto di rilievo tra i mestieri maggiormente esercitati dalla popolazione locale. Per lavorare e produrre queste due fibre, le cui fasi abbiamo già descritto, [...] nell'apposito post di questo blog, a volte occorreva sfidare le disposizioni delle autorità sanitarie, come avvenne nell’anno 1764, durante l’epidemia del colera, quando gli abitanti di Piscinola, Marianella, Chiaiano e di altri Casali continuavano a portare i canapi e i lini a macerare nel lago di Agnano, nonostante i divieti imposti dal governo della città. Ecco una testimonianza raccolta nella cronaca del tempo:

Attrezzo per la lana detto "Scardasse"

“Napoli nell’anno 1764, documenti della carestia e della epidemia…”: “[…] Con dispaccio del 13 luglio del 1764 venne vietata la macerazione della canapa e del lino nel lago di Agnano, come cosa pregiudizievole alla pubblica salute, e si ordinò di farsi il macero nel Fusaro, nel lago di Patria e in altri luoghi lontani dall’abitato e poiché i contadini di Piscinola, Marianella e Chiajano ed altri si negarono di ubbidire, fu ordinato dal Commissario di Campagna di procedere con rigore contro i trasgressori […]”.
Negli ultimi cinquant’anni, grazie alla scuola aperta a tutti ed a causa degli espropri delle campagne, per i programmi urbanistici di espansione della città di Napoli, Piscinola ha cambiato volto: non più agricoltori, né contadini, né operai, ma quasi tutti impiegati o aspiranti impiegati, liberi professionisti e qualche raro e caro artigiano.

Riparatore e lucidatore di pentole di rame:"Rammaro" o "Stagnaro"

Il commercio conserva sempre le “dimensioni” e le caratteristiche insufficienti a far fronte alle necessità quotidiane della popolazione locale, senza alcuna velleità di espansione. I venditori ambulanti sono praticamente scomparsi, resiste solo qualche improvvisato venditore “meccanizzato”, con l’immancabile altoparlante amplificato...

Salvatore Fioretto

Sicuramente un tempo c'erano tanti altri mestieri che non sono stati riportati in elenco, solo per un problema di spazio. 

Il racconto è stato interamente tratto dal Libro: Piscinola, la terra del Salvatore, una terra, la sua gente, le sue tradizioni", di Salvatore Fioretto, ed. The Boopen, 2010. Le foto sono state liberamente tratte dalle pagine del Web, nelle quali erano pubblicate e sono state inserite in questo post senza fini di lucro, ma solo con lo scopo della libera diffusione della cultura. La stampa originale della "Nutrice di Marianella" appartiene alla collezione di S. Fioretto.

Realizzatore di cesti e canestri in salici, canne e vimini, detto "Canestraro"

sabato 6 marzo 2021

Una strada un personaggio: il conte, avvocato e on. Marco Rocco di Torrepadula (IV^ parte)

Continuando la serie: "Una strada, un personaggio", ovvero la raccolta di post dedicati alla biografia di quei personaggi famosi della storia della Città di Napoli o della Nazione, ai quali sono stati dedicati delle strade importanti del territorio, ma dei quali, però, si conosce ben poco della loro vita e delle motivazioni che hanno indotto nel corso degli anni alla dedica toponomastica. 

E' la volta di un'altra strada importantissima per i quartieri di Miano, Piscinola, Marianella e di tutta l'Area Nord di Napoli, perchè collega la parte di pianura napoletana, alla collina del Vomero e alla cittadella ospedaliera, parliamo di Via Marco Rocco di Torrepadula. Un tempo la strada era chiamata "Strada dei Canapi Miano Agnano", della quale nel 2013 abbiamo dedicato un apposito post, per descrivere la storia dell'antica denominazione (Ecco il link: http://piscinola.blogspot.com/2013/08/via-miano-agnano-la-prima-tangenziale.html).
L'on. Marco Rocco, conte della nobile e antica famiglia dei Rocco di Torrepadula, nacque a Napoli, il 25 aprile 1859.
Questa
famiglia napoletana dei "Rocco" si impiantò fin da XVII secolo nella cittadina di Casoria; ricordiamo che Casoria fu, nell''800, il "Capocircondario" di una vasta area della Provincia di Napoli e che amministrava, tra gli altri, anche i comuni Mugnano, Piscinola e Secondigliano.
A Napoli, i "Rocco" avevano un consolidato potere e grande influenza nella vita politica e amministrativa della Città, i cui rampolli appartenevano per tradizione al Sedile di Montagna,
in quanto discendenti in linea diretta da Giovanni Rocco, fratello del monaco Carlo Rocco, che aveva ottenuto il titolo dal re Filippo II, nel lontano 1641.
Fu a Casoria, però, nel periodo a cavallo tra l'800 e il '900, che i "Rocco" vissero la loro massima stagione di potere e di successi, per essere stati prestigiosi esponenti dell'avvocatura e uomini impegnati nella vita politica cittadina, provinciale e nazionale, essendo stati eletti, come vedremo, nel Parlamento Italiano, proprio in questo Collegio, e per più legislature. 

Casa della famiglia dei Rocco a Casoria

Tra gli esponenti di rilievo della Casata, particolarmente interessanti sono i profili biografici di Giuseppe Rocco, che nel 1688 fu economo amministratore della chiesa parrocchiale di San Benedetto, mentre durante l'occupazione francese, Marco Rocco, trisavolo del nostro personaggio, anche lui avvocato, passò alla storia nell'"antigiacobina" Casoria, per aver difeso e ospitato due ufficiali filofrancesi! Altro Giovanni Rocco (1806-1864), fu il primo esponente a fregiarsi del titolo di "Principe di Torrepadula", nell'anno 1860; Egli fu ultimo Procuratore generale della Corte dei Conti borbonica e viene ricordato per la sua figura di giurista stimatissimo, che sostenne con forza l’indipendenza della magistratura, rifiutando incarichi politici, ricoprendo solo la carica di vicepresidente dell’Accademia di Archeologia Napoletana. Nicola Rocco (1811-1877), fratello del principe Giovanni, è ricordato, infine, come padre del diritto internazionale privato, per aver scritto, ad appena 25 anni, il famoso Trattato di diritto civile internazionale”, in tre volumi, pubblicato a Napoli nel 1858: prima opera nel suo genere, considerata una vera e propria pietra miliare della legislazione internazionale. Nicola Rocco venne celebrato all’Accademia di Francia, dall’ex ministro Portalis.

Lapide affissa sul palazzo in via dei Mille (Na)

Ritornando al nostro  avv. Marco Rocco, della sua infanzia e giovinezza si conosce pochissimo, sicuramente l'appartenenza a una famiglia facoltosa e benestante hanno consentito una solida e prestigiosa formazione culturale e l'agevole partecipazione scolastica e ai corsi universitari in giurisprudenza, raggiungendo il titolo accademico di avvocato, senza particolari difficoltà.  Mise su famiglia, sposando la nobile donna Adele, dei marchesi Andreassi.
Già nei primi anni della sua maturità prese a partecipare alla vita culturale e politica della società dell'epoca, entrando nelle file del partito cattolico popolare. La sua partecipazione alla vita amministrativa conta diversi incarichi di prestigio, basti pensare che fu eletto due volte sindaco di Casoria (dal 1882 al 1885 e dal 1901 al 1904). Ricoprì, inoltre, l’incarico di Presidente del Comizio Agrario del Circondario di Casoria e, per diversi anni, fu Assessore alle Finanze al Comune di Napoli (1890-97). Il salto della Sua carriera politica avvenne con le elezioni politiche al Parlamento Italiano dell'anno 1904, quando fu eletto deputato nel "Collegio II" di Casoria, strappando il posto al cugino omonimo, rivale elettorale di Seggio e Deputato uscente.
La partecipazione degli esponenti della famiglia "Rocco" al Parlamento Italiano risale al 1882, quando furono eletti deputati ben due "Rocco" contemporaneamente: il primo, fu Pietro Rocco, Procuratore del Re in l’Aquila e presidente della Banca “Pergolesi” di Casoria; il secondo, fu Marco Rocco, zio di Pietro, che fu deputato alla Camera, eletto ininterrottamente per oltre un ventennio (dal 1882, dalla XV alla XVII Legislatura) e poi dal 1892 (dalla XVIII alla XXI legislatura), fino appunto al 1904, quando fu sconfitto nel suo collegio di Casoria dal cugino omonimo, il citato avv. Marco Rocco, da cui prese nome l'omonima nostra strada.
Di questa singolare contesa elettorale, tra cugini, apprendiamo alcune cronache dal "Giornale di Casoria", ecco l'articolo preso in prestito: "Le cronache dell’epoca riferiscono di due settimane di manifestazioni, con la banda musicale in testa per le vie di Casoria e di Frattamaggiore, finite poi puntualmente a bastonate, con l’intervento della “truppa”. Sulla stampa nazionale non mancarono articoli satirici che facevano il verso alla curiosa competizione, con battute del tipo «chi avrà più Rocco farà più tela», e «fortuna che le donne non siano elettrici…».
La vittoria fu comunque schiacciante: nel collegio votarono in 2.212 sui 2.691 aventi diritto; e Marco Rocco “fu Giovanni” vinse con 1.513 voti contro gli appena 620 del cugino. Fondamentale fu l’appoggio dei frattesi, tanto che a dicembre troviamo il nuovo deputato Marco Rocco alla solenne “incoronazione” della statua dell’Immacolata venerata nell’omonimo santuario di Frattamaggiore, assieme al sindaco Sossio Russo e al consigliere provinciale Francesco Landolfi, il parroco Vincenzo Pezzullo e il vescovo di Aversa
."

Marco Rocco, insieme ad altri esponenti della storica famiglia di Casoria, si dedicò anche alle attività editoriali e giornalistiche. Collaborò sulle pagine di diverse testate giornalistiche,  che
in quegli anni venivano pubblicate a Casoria e dintorni, spesso di loro stessa fondazione (se ne contano ben sette di giornali!), tra queste riportiamo: "Il dovere: corriere politico amministrativo industriale del circondario di Casoria", "Il Cirillo: gazzettino settimanale del circondario di Casoria", "Il risveglio: giornale del circondario di Casoria", "Il piccolo: politico, settimanale, commerciale, letterario: organo del circondario di Casoria" (il primo numero porta la data del 14 ottobre 1906 e si stampava a Capodichino), "Giornale di Casoria", "Il Circondario di Casoria: giornale settimanale politico amministrativo", "La spina: giornale settimanale, politico, amministrativo del circondario di Casoria", quest'ultimo stampato a Napoli. Si trattavano in prevalenza di pubblicazioni periodiche (settimanali, quindicinali o mensili), edite in formato piccolo, tipo tabloid, che riportavano stralci di leggi e avvisi pubblici, ma anche comunicati ufficiali, interventi di attualità, recensioni e altri temi. Si rivolgevano alla classe dirigente di Casoria e dintorni, in particolare ai professionisti (avvocati, imprenditori, notai, medici, ecc.), che costituivano in pratica la parte cospicua dell'elettorato del Circondario.

Scorcio notturno della via Marco Rocco di Torrepadula (Na)

Quindi, dal 1904, l'avvocato Marco Rocco fu eletto deputato al Parlamento e fu riconfermato per quasi un decennio, fino alla XXIII legislatura (1909-13). Della sua partecipazione come deputato, si ricordano numerose istanze e interpellanze parlamentari, soprattutto sui temi sociali, come i licenziamenti ingiusti di lavoratori, gli scontri e le cariche di polizia avvenuti durante gli scioperi e le ataviche problematiche dei trasporti pubblici nel territorio dell'Area Nord di Napoli. Le elezioni politiche del 1913, però, non furono per l'on. Marco Rocco altrettanto fortunate, perché nel Collegio di appartenenza fu eletto, al suo posto, il medico frattese, dott. Angelo Pezzullo. 
L'avvocato Marco Rocco di Torrepadula visse il resto della sua vita a Napoli,
nella sua bella casa di via dei Mille, fino alla morte, sopraggiunta il 9 gennaio 1938.
Sulla facciata del palazzo dove abitava, in via dei Mille, è stata apposta una lapide commemorativa, con sopra riportata la seguente scritta:

IN QUESTA CASA CONCLUSE
LA SUA LABORIOSA GIORNATA TERRENA
IL CONTE DON MARCO ROCCO DI TORREPADULA
NOBILE FIGURA DI UOMO E DI CITTADINO
CHE COME DEPUTATO AL PARLAMENTO
E COME ASSESSORE ALLE FINANZE
NEL CULTO DELLA LIBERTÀ E DELLA PATRIA
CONTINUÒ CON LA SUA LUMINOSA AZIONE
LA TRADIZIONE A VITA
PER IL NOSTRO MERIDIONE
IL MUNICIPIO DI NAPOLI
POSE
A RICORDO DI TANTO RETAGGIO
DI ALTE VIRTÙ
1976

Dal libro "Le nuove strade di Napoli", di Gianni Infusino, apprendiamo che il tratto dell'antica strada, già "Strada dei Canapi Miano Agnano", fu intitolata, dall'ufficio toponomastica del Comune di Napoli, a Marco Rocco di Torrepadula, nel mese di dicembre dell'anno1964.

Salvatore Fioretto 

sabato 13 febbraio 2021

Giovanni Antonio de Teolis, detto il Campano, storico, filosofo, scrittore e poeta dell'umanesimo meridionale

Percorriamo spesso la strada che porta il suo nome, via Giovanni Antonio Campano, che è da tutti semplicemente indicata con il toponimo, tutto piscinolese, di: "A via nova 'e Chiaiano", ma pochissimi conoscono questo importante personaggio della storia letteraria della Campania e dell'Italia intera, nel periodo dell'Umanesimo.
Questa strada rettilinea, lunga quasi un chilometro, è di formazione alquanto recente, intorno agli anni '50, ma il personaggio è antico e, pur essendo campano di nascita, ha però ben poco a che fare con la storia del nostro territorio. Diciamo che si è trovato qui, quasi per caso, come Giovanni Bernardino Tafuri, d'altronde...
Ma andiamo per gradi, descrivendo la bella biografia di questo illustre personaggio dell'Umanesimo meridionale.
Giovanni Antonio de Teolis, che poi verrà riconosciuto con l'appellativo di "Campano", nacque nella provincia di Caserta, in un piccolo paesino chiamato Cavelle di Galluccio, nell'anno 1429, da una famiglia di origini modestissime e umili, formata probabilmente da cinque fratelli, di cui, oltre il nostro Giovanni Antonio, troviamo due fratelli certi, perché menzionati dallo stesso scrittore nel suo Epistolario, e si chiamavano Amerigo e Angelo, e altri due fratelli, non certi, che forse si chiamavano Antonio e Michele. 
L'infanzia del Campano fu subito segnata da una grave perdita, per la prematura scomparsa del padre, avvenuta a soli 35 anni. Apprese i primi rudimenti della cultura grazie al parroco del suo paesino nativo, e grazie a un suo zio, Teolo, che lo adottò e l'accolse nella sua casa. Intorno all'anno 1445 si trasferì a Napoli per intraprendere gli studi accademici, e guadagnandosi da vivere facendo il precettore dei rampolli della nobile famiglia Pandoni. Tra i suoi insegnanti universitari si riconoscono i celebri Niccolò Rainaldi da Sulmona e Angelo Catone da Supino. Nell'anno 1452 si mise in viaggio per la Toscana, ma si fermò a Perugia; purtroppo il progetto di recarsi a Siena assieme al fratello Amerigo, per seguire le lezioni del celebre giurista Mariano de Sozzini si interruppe, a causa di un assalto di banditi avvenuto lungo la strada.
A Perugia, Giovanni Antonio fu accolto sotto la protezione della influente famiglia Baglioni, nella quale fece da precettore ad uno dei suoi rampolli, e potette quindi studiare il greco, presso l'università cittadina. I suoi progressi furono notevoli, tanto che lo troviamo pochi anni dopo, nel 1455, assunto docente per coprire la cattedra di retorica, presso la stessa università di Perugia.

Nel capoluogo Umbro, il Campano ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare anche nella vita civile, pronunciando apprezzati discorsi nel corso di importanti eventi pubblici. Tra il 1457 ed il 1458, a causa dell'imperversare della peste in città, si rifugiò in una località sul lago Trasimento, e ivi compose alcune sue importanti opere, tra cui: De Felicitate Thrasimeni.

L'elezione al soglio pontificio di Pio II, il 19 agosto 1458, segnò una importante svolta nella vita di Giovanni Antonio. L'incontro con il nuovo pontefice avvenne durante la sua presentazione all'ambasciata perugina, nel 1459.

Papa Pio II
Nel successiva visita papale a Mantova, Campano, entrò in contatto con la cerchia della quale si contornava il pontefice, ed in particolare conobbe Giacomo Annanati, segretario pontificio e favorito del Papa. Quest'ultimo lo invitò ad aggregarsi alla curia romana, ottenendo l'impiego presso l'influente cardinale Filippo Calandrini.
Negli anni che seguirono, Campano ebbe modo di seguire il cardinale Calandrini, nel corso dei suoi numerosi viaggi nella penisola, in particolare a Mantova, a Rimini e nella stessa Perugia. Nel 1460 fu a Siena e, poi, di nuovo a Perugia per accompagnare le indagini del cardinale, su un omicidio avvenuto all'interno della celebre famiglia Baglioni.
Nel 1461 entrambi furono a Iesi e poi ad Ancona, per dirimere alcune controversie cittadine. Nello stesso anno, poi, i due accompagnarono il Papa Pio II a Tivoli, per verificare lo stato di costruzione del celebre castello. I suoi meriti e le sue capacità, ma soprattutto le sue raffinate doti poetiche, furono apprezzate da Pio II, tanto da nominarlo vescovo di Crotone, nell'anno 1462. Celebre in quell'anno la bellissima orazione funebre pronunciata da Giovani Antonio per i funerali del Cardinale di S. Susanna, Alessandro Oliva, del quale egli fu conoscente ed amico. Poco dopo, il Papa lo designò vescovo della diocesi di Teramo. In questo periodo il Campano ebbe un peggioramento della sua malattia, l'epilessia, i cui attacchi lo costrinsero a ripetute convalescenze. Nel
1463 lo troviamo a Viterbo, in occasione di un'altra visita papale, ma anche qui fu costretto alla convalescenza, a causa di altri attacchi di epilessia.
A Teramo passò a frequentare la famiglia Todeschini-Piccolomini, dalla quale uscì il successore papale, Francesco Piccolomini, al secolo Pio III. Il Campano accompagnò l'allora cardinale Piccolomini durante i suoi viaggi, diretti principalmente a Roma e a Siena. Tenne un'altra celebre orazione funebre, in occasione della morte del papa Pio II, avvenuta tra il 14 e il 15 agosto dell'anno 1464.
Negli anni seguenti, fino al 1470, il Campano si dedicò alle attività di correttore e di editore di testi antichi, presso alcune tipografie romane, in particolare, quella del tedesco Ulrich Han e quella del medico messinese, Giovanni Filippo de Legnamine.
Dal 1471 vediamo il nostro scrittore ad essere componente designato alle spedizioni diplomatiche (Legazioni), nella veste di oratore, grazie all'incarico ricevuto dal nuovo Papa, Paolo II. La "Legazione" riguardava lo stato della Germania, ed era finalizzata a dirimere la famosa "questione Turca", assieme alla risoluzione di altri problemi interni. Purtroppo la spedizione non ebbe successo, e il corpo diplomatico fece ritorno in Italia, passando per la Svizzera. Quell'anno segnò la scomparsa del papa, Paolo II.
Il successore di Paolo II, fu il cardinale Francesco della Rovere, che prese il nome di Sisto IV. Il nuovo Papa conosceva bene Giovanni Antonio, avendolo apprezzato durante gli anni della sua docenza all'università di Perugia; quindi lo nominò, nel 1472, governatore di Todi e, successivamente, governatore di Foligno.
Fu fiduciario anche del cardinale Pietro Riario, nipote di Sisto IV, e lo seguì nella spedizione della "Legazione Umbra", nel 1473. Ottenne l'incarico di "poeta di corte", ma per pochi anni, perché il cardinale Riario morì prematuramente. Quindi ebbero termine gli incarichi di governatore di Foligno e di "poeta di corte". Cadde poi in disgrazia, per alcune problematiche interne e, pur ambendo alla carriera ecclesiastica, non fu però scelto alla nomina di vescovo di Teano e di Tricarico. Poco dopo tempo, seguì una ripresa dell'attività diplomatica, con la nomina a governatore di Città di Castello (1474). Caduto di nuovo in disgrazia, tentò di racimolare qualche incarico, come storiografo, presso la Corte di Napoli: all'epoca era re di Napoli Ferrante d'Aragona, ma quest'ultimo non accolse la sua candidatura. Ritornò a Teramo, per attendere alle cose della sua diocesi, pur cullando in cuor suo il proposito di riproporre la sua candidatura al re Ferrante.
Morì nel luglio del 1477, mentre si trovava a Siena, aveva 48 anni. Fu sepolto nel duomo della città. L'orazione funebre fu tenuta dal senese Agostino Dati.
Giovanni Antonio, detto il Campano, è stato un apprezzato oratore, ma anche un raffinato poeta  e, poi, scrittore, storico, stilista epistolare, editore e filosofo. Scrisse molte opere, ricordiamo: "Opera Omnia", "Braccii Perusini vita et gesta", "Vita di Pio II", "Raccolta di Poesie Latine", l'Epistolario, "De Felicitate Thrasimeni" e altre.
Salvatore Fioretto

domenica 31 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: la masseria delle Cesinelle, di G. Baiano (terza parte)

Nella terza parte di questo post, dedicato alle masserie del territorio, abbiamo scelto la bella descrizione della masseria delle "Cesinelle" di Chiaiano, tratta dal libro del gen. Giovanni Baiano: "Il figlio della selva". Intanto salutiamo e ringraziamo il caro amico e scrittore Giovanni.                                                      S. F.

Ecco il racconto:

"Le Cesinelle com'erano nel 2006.

Fino alla partenza per il servizio militare, eravamo trentadue residenti sulla masseria, a prescindere da chi veniva a lavorare e dai componenti della famiglia Sarnelli, che abitavano nella confinante masseria delle Cesine.
Nel periodo estivo, vi trascorreva le vacanze anche la proprietaria della masseria, la Signora Ina D'Aniello con il marito, Arduino dottor Pianese e due figlioletti, Checco (Francesco) e Pasquale, ed un altro ancora nel materno e vistoso grembo.
Spesso nelle ore pomeridiane, con uno dei due bimbi sulle spalle, per gli ombrosi sentieri, si arrivava fin dove c'erano ancora i resti di un'antica villa romana, in parte sotterrata.
Ivi giunti, ci sdraiavamo sui freschi e teneri prati scampati alla calura estiva e mentre si respirava quell'aria ricca di ossigeno e di profumi delle selve di Casaputana, si rimaneva per qualche ora ad ascoltare il suggestivo silenzio e la deliziosa voce di quel solitario, rinfrescante  e tranquillo luogo.
Avevo allora appena undici, dodici anni.
nel periodo della grande guerra, sulle Cesinelle arrivarono anche altre tre famiglie di sfollati napoletani, per un complessivo di ventisette persone.
E in quegli anni che si sono accumulati tanti ricordi che riposano sul letto della mia mente e ogni tanto si svegliano e mi pregano di non farli morire.
Sarà anche per questo motivo che ho deciso di fissarli una volta e per sempre su queste pagine, con la speranza di farli sopravvivere alla mia esistenza, quale memoria storica di un'epoca e di un contesto sociale ed ambientale, che continua ad evolversi in modo vertiginoso e preoccupante per le nuove generazioni.
Nonostante la guerra ed i bombardamenti e le tragiche vicende che seguirono, vissi lassù in un clima quasi sereno, forse perché per noi ragazzini la guerra era solamente un gioco per grandi, o comunque un affare che non ci coinvolgeva.
Alla fine dell'ottocento, mio nonno, nato e vissuto fino ad allora nel vicino Comune di Marano, e già proprietario di un piccolo pezzo di terreno in quella zona, prese in affitto circa nove moggi di terreno di questa masseria del Comune di Chiaiano ed Uniti.
Per abitazione, gli fu assegnato, a piano terra, un locale e tre stalle per gli animali domestici, due stanze al piano di sopra e una parte della soffitta, adibito a fienile, che noi chiamavamo "suppigno".
La stanza a piano terra era dotata di un rudimentale "fuculare" (focolare) ed era usata come locale in cui si ricevevano visite, si mangiava, si soggiornava e si depositava parte della frutta secca e cereali.
Era un locale abbastanza ampio che probabilmente era stato costruito oer la servitù, considerato che presentava una grande e robusta porta in legno, un pavimento sterrato, un soffitto sostenuto da grosse travi e listelli di legno di castagno.
Può anche darsi che fosse una stanza del fattore dove la moglie preparava i pasti. Col passare degli anni, l'utilizzo del focolare aveva annerite tutte le pareti ed il soffitto.
Solo negli anni Sessanta, mio padre la rese più decente con lavori di una rozza soffittatura, una rustica pavimentazione ed una pittatina alle pareti.
Al centro, c'era un vecchissimo tavolo molto lungo per dodici persone, con uno scanno di legno da un lato, su cui sedevano solo i figli maschi (cinque). Sulle sedie, agli altri tre lati, sedevano tutti gli altri appartenenti alla numerosa famiglia. C'era, inoltre, una grande cassapanca di legno, ai piedi del lettino del nonno, in cui erano conservati i pezzi di pane e le "freselle", cotti nel forno a legna.
A fianco al letto, accostato alla parete di destra, c'era pure un vecchio armadio per gli abiti e la biancheria intima del nonno, anch'esso tutto incrostato di nero fumo.
Quando io e i miei due fratelli, Vincenzo e Biuccio, raggiungemmo l'età della pubertà, al posto del letto del nonno fu piazzato un letto più grande per noi tre, perché non ci fu più concesso di dormire nella stanza con le nostre sorelline più piccole. Il lettino del nonno fu allora spostato sul lato opposto, ai piedi del nostro, diviso dalla suddetta cassapanca.
Questi letti erano fatti con due cavalletti di legno su cui poggiavano delle tavole, anch'esse di legno. I materassi erano dei sacconi pieni di foglie secche di mais (sbreglie), o di penne di pollame. Le lenzuola erano di tela di canapa, o di lino, così pure le fodere dei cuscini.
Nelle stalle non mancavano mai le mucche di latte, vitelli e vitelline, né maiali e maialini. Ogni famiglia aveva un asinello o un cavallo, galline da uova, pulcini, galli, capponi, anitre, tacchini, piccioli, conigli e coniglietti di tutte le taglie. Né mancavano due o tre cani e due o tre gatti per famiglia.
Era questo il patrimonio degli animali domestici d'ogni famiglia di contadini di quell'epoca in tutte le masserie della zona e dei vicini paesi.
Al piano di sopra, la stanza da letto più bella e ariosa e decorosamente ammobiliata era usata dai nostri genitori. L'altra interna, con poca luce ed appena dotata di un vecchio comò ed armadio, era occupata da noi figli maschi con meno di dieci anni e figlie femmine.
La masseria era costituita da un vecchio e caratteristico casolare del settecento.
Sorge in cima ad uno dei colli più bassi della collina dei Camaldoli a nord ovest dell'abitato di Chiaiano.
L'antico casolare presenta due corpi aggiunti, per ospitare quattro famiglie di coloni. Se ne costruì prima uno sulla sinistra rispetto agli ingressi e, in epoca più recente, un altro sulla destra.
La campagna circostante è ancora ricca d'alberi da frutta, con presenza di ciliegi, peri, meli, susini e viti di diverse qualità di uva. Siamo nel 2000.
In primavera, tutti questi alberi si caricano di tantissimi fiori dai vivacissimi colori, dal bianco candido al rosa, con svariate sfumature.
Nelle giornate di vento, si assiste ad una spettacolare pioggia di petali variopinti che svolazzano per l'aria, come fiocchi di neve e ricoprono la terra con un manto bianco rosato, su cui spiccano le teste di rossi papaveri e di tanti altri fiorellini di prato. D'estate, poi, quegli alberi si caricano d'abbondanti e saporitissimi fritti di vari colori e dalle varie forme, che si offrono con orgoglio e sempre volentieri a chiunque volesse assaggiarli, anche senza chiedere permesso.
La masseria delle Cesinelle, come tutte le altre della zona, aveva un cortile, un'aia, un forno a legna, un pozzo per la raccolta delle acque piovane, una cantina, che era chiamata "cellaro", ed un sottotetto (suppigno), che veniva usato come fienile.
Tutti questi locali erano d'uso comune oppure opportunamente ripartiti tra i quattro coloni.
Per la sua posizione in cima ad una collina e la composizione e ripartizione dei vari locali e servizi è certamente una delle più caratteristiche masserie della zona, dopo quella della contessa Fontanarosa costruita sul colle Ferrillo, in mezzo alle selve di castagno.
Alle spalle del fabbricato delle Cesinelle c'era un giardino con alberi d'aranci, mandarini e limoni, un fico, una bellissima e altissima pianta di palma, due vecchi alberi d'ulivo che non facevano mai frutto, un gruppo d'alloro, dei nespoli nataligni, detti anche nespoli pelosi.
Questo nostro giardino si distingueva dal resto della campagna per questi alberi particolari e per le rose e i gigli ed altri fiori.
Era l'orgoglio della mia famiglia, cui era stato assegnato, all'atto della divisione della masseria tra i quattro coloni.
Di tutto ciò è rimasto ben poco! Anche della centenaria palma è rimasto solo il tronco, uccisa come tante altre della zona da un verme killer.
Già da molti anni, le tre famiglie hanno abbandonato quelle abitazioni troppo anguste, troppo lontane dal paese e troppo isolate e prive di servizi di qualsiasi genere.
Cominciarono ad andar via, perché non c'era la luce elettrica, telefono e nemmeno acqua potabile, ma solo quella piovana raccolta nel pozzo, piena di vermiciattoli.
Fu solo durante la grande guerra che fu costruito un deposito nel ventre del tufo della nostra selva, quale riserva d'acqua del Serino per la zona ospedaliera.
Tutti i santi giorni, specialmente nel periodo estivo, bisognava scendere laggiù per attingere almeno quella quantità che si usava per bere e cucinare.
Non era così semplice e facile recarsi fin dove passava quella condotta d'acqua. Bisognava attraversare un sentiero nella campagna del nostro vicino, compare Nicola. Si scendeva per una rapida costa di quella nostra selva, attraverso uno stretto viottolo, o saltellando in mezzo agli alberi di olmi, querce ed altri di cui ho sempre ignorato i nomi. Giunti nel suo fondo, si andava avanti, ancora per un breve tratto tra castagni e ginestre, fin sopra il sottostante canalone di Cupa Vrito, dove passava la condotta.
In un certo punto  c'era un tombino coperto da una pesante piastra di ghisa, che bisognava sollevare con un paletto di ferro.
Ci si calava dentro, e, con una chiave inglese, si faceva girare una grossa vite per fare uscire l'acqua da un tubo. Riempiti i due secchi, si richiudeva quella vite, si saliva sopra e si rimetteva al suo posto il coperchio sul tombino. Si tornava indietro per lo stesso ripido viottolo che attraversava il costone, fermandoci ogni tanto per dare un po' di tregua alle mani indolenzite ed al fiato. Ancora altri centro metri circa, tutti in salita e si arrivava sopra la terra del nostro vicino. Lì, dopo un gran respiro di sollievo, ci si buttava per terra per un più lungo riposo, per poi ripartire sempre con quei secchi in mano. Si giungeva a casa senza più forze e con entrambe le mani e braccia indolenzite, maledicendo il nostro destino.

C'era un'altra possibilità di prelevare l'acqua , si scendeva per la strada che conduceva al paese fino alla grotta delle Cesinelle ed anche lì, nella terra del nostro vicino, soprannominato 'o Quartese, c'era un altro tombino con coperchio di ghisa, in cui si doveva scendere per attingerla con le solite operazioni di svitamento e riavvitamento.
Personalmente preferivo andare nella mia selva, dove mi sentivo a mio agio e soprattutto più protetto, per la presenza anche di una fitta vegetazione.

Quella sita nei pressi della grotta era allo scoperto ed io avevo sempre paura di essere sorpreso dagli addetti all'acquedotto, pur sapendo che il prelievo non era vietato a noi coloni della masseria.
Credo che, tra i tanti altri motivi, anche questo sia stato determinante per le mie future decisioni. Ma di queste è ancora troppo presto per parlarne.

Tanto perché si abbia un'idea di come si viveva nelle masserie in quell'epoca, anni Quaranta-Cinquanta, vi dirò che per studiare fino a tarda notte, facevo uso di un lume a petrolio, che mi riempiva le narici di un fumo nero puzzolente e mi faceva bruciare gli occhi. Con la luce del giorno dovevo aiutare mio padre e miei fratelli nei lavori dei campi e della selva.
Nel buio si usavano candele, lumini ad olio e lumi a petrolio. Quando invece, tirava vento e bisognava uscire allo scoperto, si usavano lumi dotati di una campana di vetro, per proteggere la piccola fiammella dal vento e dalla pioggia. La luce ed il telefono fu possibile ottenerli e utilizzarli solo dopo gli anni Sessanta.
Abbandonata a se stessa, quella masseria sta morendo a poco a poco ed io sto assistendo alla sua agonia senza poter far nulla, se non dedicargli dei nostalgici versi."
gen. Giovanni Baiano

Racconto tratto dal libro "Il figlio della selva", di Giovanni Baiano, ed. Collana Poetica Campana, anno 2017 (pagg. 33-38).

Masseria delle Cesinelle, foto di Ferdinando Kaiser

 -----------------------O--------------------------


Ringraziamo il caro amico, scrittore, Gen. Giovanni Baiano, per averci autorizzato alla pubblicazione di questa parte del suo libro dedicata alla sua cara Masseria delle Cesinelle.

Riprendendo l'elenco delle masserie presenti nel territorio, ecco quelle che risultano esistenti nel territorio di Chiaiano, Polvica, S. Croce, Tirone, Nazareth e Orsolona. Alcune di queste sono state trasformate, abbandonate o demolite. Ovviamente, come scritto anche nel precedente post, l'elenco non può essere considerato esaustivo ed è probabile che le alcune masserie sono state elencate più di una volta, con nomi diversi assunti nel tempo.

Chiaiano - Calori - Santa Croce

Dalla mappa di Rizzi Antonio Zannone (1793) si rilevano i seguenti siti, che potrebbero essere stati delle masserie:

-"Riccio"
-"Tutore"
-"Pinto"
-"Colamanca"
-"Cerullo"
-"Martina"
-"Barca"
-"Bocchetta"
-"Brancaccio"
-"Villarosa"
-"Toscanella"
-"Giannone"
-"li Mennilli"
-"Castellaccio".

Masseria Della Corte in via Gaetano Salvatore (Foto di Salvatore Fioretto)

Dal Libro "Santa Croce, nella storia", sono menzionate e illustrate le seguenti masserie delle località di Santa Croce e Calori:

-Masseria "Quaranta"
-Masseria "Marzocchi"
-Masseria "Della Corte" (Ponte Caracciolo)
-Masseria “a Vass’o Cuofane” (Santa Croce)
-Masseria "Palmetiello"
-Masseria "Raiano"
-Masseria "Tre Moggi"
-Masseria "di Lorenzo" (Detto "Peppe ‘o Pitone")
-Masseria "Capuozzo ai due Portoni"
-Masseria "Arco Pinto-Rusciano" (Calori)
-Masseria "Calori di sotto"
-Masseria "Calori di sopra"
-Masseria "Romano" ('Ncopp''a selva - Calori)
-Masseria “Varriale” Chiavazzo (Calori)
-Masseria “Buccio” - Manco (Calori)
-Masseria “Avolio - De Biase"
-Masseria (?) "Villa Vittoria".

Nomi di masserie tratti da altre pubblicazioni:

-Masseria "Terravicina"
-Masseria "Paratina"
-Masseria della "Contessa di Fontanarosa"
-Masseria "Cesine"
-Masseria "Cesinelle"
-Masseria "Fioretti".

S. F.