mercoledì 26 settembre 2018

Quando il male porta il bene... e quel "codicillo" infame, ci portò un grande Santo: Alfonso de Liguori!



Dipinto nella casa di Marianella, Francesco de Geronimo predice il futuro Santo
Il primogenito di don Giuseppe de Liguori: Alfonso Maria (la sfilza dei nomi di battesimo erano: Alfonso, Maria, Francesco, Antonio, Giovanni, Cosimo, Damiano, Michelangelo, Gasparre, nacque nel casino di campagna di Marianella, il 27 settembre 1696), trascorse la sua infanzia tra il quartiere popolare dei Vergini, dove i Liguori avevano la loro nobile dimora cittadina e il casino di Marianella, tra gli studi e le lezioni impartite da autorevoli precettori e i pochi momenti di svago trascorsi assieme ai suoi coetanei. Cresceva benissimo e gli anni della sua crescita passarono con un ritmo frenetico, tanto da ritrovarlo diventato presto un aitante cavaliere, dai modi gentili, raffinati, galanti e soprattutto molto acculturato... 
Chi lo conosceva bene, poteva ammirare, non senza stupore, il suo genio precoce, che spaziava tra la conoscenza delle scienze e le più nobili arti: dall'astronomia, alle lingue antiche e moderne (toscano, latino, greco, francese e spagnolo), dalla filosofia, alla musica (suonava a perfezione il clavicembalo), dalla pittura (degno allievo del grande Solimena, dipingeva soggetti realistici), all’architettura (progettò la chiesa di Pagani), dalla scherma all’equitazione; insomma, come si suole dire oggi, era l’immagine della perfezione in persona, ed aveva, poi, il privilegio di essere il primogenito di una grande famiglia, nobile e ricca, a cui spettava di diritto tutta l'eredità del casato e un posto in un Sedile del governo della città (Alfonso e il padre Giuseppe appartenevano al Sedile dei nobili di Portanova).
Stemma nobiliare della famiglia Liguori
Alfonso aveva una costituzione e un fisico armonioso, amava svagarsi nel gioco assieme ai suoi coetanei, ma senza eccedere, e senza lasciarsi mai andare a comportamenti irriverenti e superficiali. Fin da fanciullo, non si era fatto ammaliare dalle vanità del mondo..., non faceva mai sfoggio del suo sapere con gli altri, aveva invece un cuore grandissimo e nobile; già prima della sua conversione, passava gran parte del suo tempo libero ad assistere gli ammalati poveri nell'ospedale degli Incurabili, ad adorare il Sacramento esposto nelle Chiese, durante le "quarantore", a fare fioretti, recitare esercizi spirituali e orazioni, maggiormente rivolte alla Madonna, verso la quale Egli riservava una predilezione devozionale. Ancora ragazzo aveva fatto un voto solenne, quello di non perdere mai tempo in vita sua!
Castel Capuano in un dipinto (particolare)
Varcata la soglia dei vent'anni, Alfonso profondeva tutte le sue energie nella professione di avvocato. Era stato un ragazzo prodigio, capace di laurearsi prestissimo nei due Diritti (Laurea in Utroque Iure); conseguì infatti il titolo accademico ad appena diciassette anni (nel 1713), ben tre anni prima di quanto previsto dalla prammatica dell'epoca (che imponeva almeno 20 anni) e, pertanto, fu necessaria una dispensa reale. Si approcciò all'arte forense, praticando nello studio del presidente del tribunale, Domenico Caravita, suo insegnante, che divenne anche suo amico, e, come vedremo, anche un attore involontario della sua conversione...! La sua carriera di avvocato divenne presto galoppante ed inarrestabile; cresceva a ritmo vertiginoso...! 
In tutta Napoli e dintorni si era subito diffusa la sua fama di brillante avvocato... In soli sette anni di esercizio legale, ricevette un gran numero di cause da patrocinare, e le vinceva tutte! Una dietro l'altra...!! Un portento! 
Tutti conoscevano la grandezza di questo giovane rampollo dei cavalieri Liguori, che per i suoi successi aveva dato una lezione di stile ai tanti avvocati veterani del Regno, tanto da essere già considerato, nonostante la giovanissima età, un "Principe" del Foro di Napoli. Ma l'effimera giustizia degli uomini non tardò a colpirlo...!
A soli 26 anni (nel 1723), gli capitò un’occasione straordinaria per la sua carriera forense, fu chiamato a difendere gli interessi della nobile famiglia napoletana degli Orsini, duchi di Gravina, in una causa intenta contro la famiglia dei Medici, Duchi di Toscana, riguardante la rendita di un feudo abruzzese, quello di Amatrice. 
I due attori erano Filippo Orsini duca di Gravina e il granduca di Toscana, Cosimo III dei Medici. Gli interessi in gioco erano ingenti, ammontavano a circa seicentomila ducati....! 
Era in gioco, ovviamente, anche il prestigio delle due importanti e nobili casate. Alfonso, vista l'importanza della vertenza in gioco, si immerse subito a capofitto nello studio delle carte; le lesse e le rilesse per oltre un mese... Analizzò ogni particolare. Fin dall'inizio e con rigore, come era solito fare, analizzò tutti gli aspetti, per valutare se l'incarico potesse essere da lui accettato, rispettando quell'etica deontologica che si era imposto nel suo “decalogo” (non difendere le cause inique e trattare le cause degli altri come le proprie). 
Il nocciolo della contesa, da cui pendeva il giudizio, era quello di stabilire se il feudo di Amatrice fosse stato un "feudo antico" (ossia soggetto alle regole angioine e longobarde) oppure un "feudo nuovo". Alfonso non aveva più dubbi, doveva sostenere nel dibattimento che era un "feudo antico", tesi che premiava e rendeva giustizia al suo assistito, Filippo Orsini. 
Lo sostenne in tribunale con forza e veemenza, mettendo in campo tutta la retorica e l’eloquenza che possedeva. 
Sala dei Busti in Castel Capuano
La questione da dirimere era complessa, ossia: “Un feudo concesso con assenso reale a chi di diritto può ereditarlo, non è nuovo ma antico”, quindi il tribunale della Regia Camera della Sommaria, non poteva riassegnare il feudo di Amatrice, requisito per debiti agli Orsini e concederlo ai Medici, rendendolo un “feudo nuovo”, liberandolo da tutti i crediti, in particolare togliendo il diritto agli Orsini di riottenere il denaro e i beni requisiti anni addietro, in forma di ipoteca creditizia, per il risarcimento di alcuni danni commessi da Alessandro Orsini, loro antenato. 
Sala dei Busti (part.), la freccia indica la lapide di dedica a Sant'Alfonso
Ovviamente i Medici usarono tutti gli stratagemmi e i “mezzucci” che potevano mettere in campo (... non mancavano nemmeno a quei tempi, anzi…!), per esercitare la loro autorevole influenza e far pressione sulla giuria del tribunale …!
La burrasca stava per piombare imminente sulla testa del povero Alfonso…!!
I biografi, non a caso, fanno riferimento a un dono singolare, notato da tante persone in quel periodo: una coppia di orsetti, che il cardinale viceré fece recapitare al presidente del tribunale, perché potesse “chiudere un occhio”...
Nel giorno dell’udienza finale, Alfonso si recò in tribunale impettito, sicuro di avere la vittoria in pugno... Eh che vittoria!! Addirittura sulla casa dei Medici, sul Granduca di Toscana…!
Alzatosi in piedi nell’aula, pronunciò un’appassionata arringa, dimostrando tutto il suo assunto, con prove, evidenze, citazioni di leggi e atti vari.
Ecco cosa scrive un suo biografo (*) a riguardo: “E’ facile immaginarcelo giostrare con intelligenza e forza, profondendo testi e riferimenti storici, secondo l’uso del tempo, per mettere in evidenza il principio che vedeva d’accordo i migliori giuristi:
Francobollo commemorativo, in occasione dei 200 anni dalla morte
“Un feudo antico, che assume una nuova qualità, non diventa per questo nuovo”. Poi dovette sottolineare il palese atto di ingiustizia che aveva privato dei loro diritti gli Orsini di Gravina, creditori ipotecari di Amatrice, mentre lo stesso sovrano non poteva sottrarre titoli di proprietà a dei terzi innocenti.
Al termine della sua splendida oratoria, tutti erano convinti del suo successo. Tutti, meno che l’avvocato dei Medici, un certo Maggiocchi, che senza nemmeno fare l’arringa di replica, invitò semplicemente il suo “distratto” collega a rileggersi le carte della transazione del feudo, e a prestare la sua attenzione su quel “codicillo”, inserito nel documento, che recitava semplicemente “in novum feudam”, ossia "secondo un feudo nuovo".
Cappella presso la casa natale di Marianella
Riportiamo ancora il commento del biografo (*), per descrivere il dramma vissuto da Alfonso in quel momento: “La scintillante e rigorosa argomentazione di Alfonso fece vibrare l’uditorio in un mormorio di ammirazione; ancora una volta aveva vinto. Che potrà mai aggiungere Maggiocchi? Alzatosi, Maggiocchi non si prese neppure il fastidio dell’arringa: - Il signor de Liguori non sa dunque leggere? I testi sono i testi... - E fece leggere da un cancelliere la transazione del 1693 con tutte le sue clausole; le parole “in novum feudum” ricaddero quattro volte, come rintocchi a morto, su Alfonso e sul suo cliente.
Facciata della chiesa Redenzione dei  Captivi, in via S. Sebastiano
Il Sacro Real Consiglio acconsentì, come dinanzi a una evidenza... Chiaramente i giochi erano stati fatti prima, con la benedizione del cardinale viceré: il potere aveva atterrato il diritto, calpestato l’equità. Come colpito da un fulmine, l’avvocato dalle mani pulite restò un attimo interdetto, poi rosso di collera, pieno di vergogna per la toga che portava, sordo alle consolazioni ipocrite del presidente Caravita, uscì, a testa bassa, dalla sala dell’udienza e dal palazzo, ripetendo dentro di sé: - Mondo, ti ho conosciuto... Addio Tribunali!”.
Confuso, come stordito da un colpo ricevuto alla testa, giunse a casa, senza ricordare per quale via o mezzo utilizzati, si chiuse in camera sua senza voler vedere nessuno, saltando il pranzo e la cena, nonostante i richiami e le suppliche della madre, del padre e di tutta la casa sconvolta!
Interno della chiesa, l'altare della Madonna della Mercede è a sx della foto
Per tre giorni restò chiuso nella sua stanza a sbollire il livore e la cocente delusione, e solo nel terzo giorno non seppe più resistere alle invocazioni di lamento della madre e riuscì ad ingoiare appena alcune fette di melone, che gli parvero quanto di più amaro potesse esserci al mondo…!
Passata la burrasca, Alfonso si congedò da tutti i suoi clienti, ruppe le sue relazioni mondane e non frequentò più né amici né parenti. Divideva il suo tempo tra la chiesa della Madonna della Mercede, l’ospedale degli Incurabili e la sua stanza, dove si immergeva lungamente nella preghiera o nella lettura delle vite dei santi, e, ancora, recandosi nella chiesa delle Sacramentine o in altre chiese, nelle quali avevano luogo l’adorazione del SS. Sacramento.
Statua della Madonna con spadino di S. Alfonso, cucito ai piedi dell'abito
Aveva confidato a un amico: “Molte cause si perdono, per l’esattezza, ed onestà degl’Avvocati; i Giudici si possono ingannare in materia di fatti; Le circostanze dei fatti sono innumerabili; Non ci vuol molto a travedere; Fatto un danno, come si ripara? La nostra Professione è pericolosa. Per salvarci l’anima bisogna abbandonarla”. Le sue ambizioni sulle vanità del successo e della gloria nella società si erano disciolte ben presto dinanzi al fuoco cocente della realtà. “Ammazzarsi” in questo mondo per rischiare l’anima nell’altro significava pagare troppo cara una gloria fatta di fumo... E per una giustizia aleatoria!
Disse un giorno a Don Giuseppe Capecelatro: “Amico mio, la nostra vita è troppo amara, troppo pericolosa; noi facciamo una vita infelice, e passiamo pericolo di fare mala morte. Io voglio lasciare i Tribunali, che non fanno per me, perché voglio salvarmi l’anima”.
Chiesa Redenzione dei Captivi, cappella delle reliquie alfonsiane
Nel pomeriggio del 27 agosto del 1723, mentre saliva le scale dell’ospedale Incurabili, per andare a confortare i suoi ammalati poveri, come era solito fare, improvvisamente Alfonso si vide in una grande luce, l’edificio gli sembrò scosso dalle fondamenta e il suo cuore intese una voce, distintamente: “Lascia il mondo, e datti a me”. La voce ritornò incessante anche mentre, al termine del servizio, lasciava l’ospedale: giunto a metà della scalinata esterna, gli sembrò di nuovo che tutta la costruzione crollasse e sentì la stessa voce: “Lascia il mondo, e datti a me”.
Si recò nella chiesa della Redenzione dei Captivi, per gettarsi ai piedi della immagine della Madonna della Mercede, consacrando in quel luogo, il voto di farsi sacerdote.
Alfonso dona lo spadino di cavaliere alla Madonna della Mercede
Si strappò dal fianco la spada di cavaliere, con tutto ciò che questa rappresentava per il suo grado di nobile, deponendola sull’altare, ai piedi della Madonna della Mercede.
Questo spadino d’argento fu poi venduto e il ricavato servì a far modellare la corona d’argento che sovrasta il capo della Vergine (sull’altare, al suo posto, fu messa una copia, poi in seguito rubata). 
Per la cronaca, alcuni anni dopo, quando Alfonso era già diventato sacerdote, in un tribunale di Vienna si svolse il processo d’appello, e la sentenza questa volta fu favorevole alla famiglia degli Orsini… Alfonso aveva dimostrato ancora una volta di aver visto bene… La causa sarebbe stata vinta, se non ci fosse stata la discussa influenza politica…!


Sono trascorsi tre secoli circa dall'esperienza vissuta da Alfonso avvocato, un'esperienza di vita che la dice lunga, se rapportata al nostro tempo, perchè non tanto dissimile riguardo alle illusioni e alla caducità delle cose del mondo, tuttavia la morale finale che ne traiamo da questo racconto è quella che un “Codicillo”, apposto sull’atto di transazione, forse in maniera truffaldina (come ci indica il biografo), strano a dirsi, ci ha fatto un grande e magnifico dono..., invece di aver consegnato alla storia della giurisprudenza napoletana un grande magistrato (sarebbe stato uno tra i tanti avuti nei secoli), ci ha reso invece un grande Santo, un Dottore della Chiesa universale, che fa onore a Marianella, a Napoli e alla Campania in tutto il Mondo: Sant’Alfonso Maria de Liguori.
Questa volta il male ha portato tanto bene!

Salvatore Fioretto


(*) Per il racconto è stato preso in riferimento il libro biografico dal titolo: "Il santo del secolo dei lumi" di Theodule Rey-Mermet, parte prima.






venerdì 21 settembre 2018

Gennaro Raiano, uno scultore di talento, nato a Miano...!

Il quartiere di Miano è stato la fucina di tanti artisti che, in ogni tempo, si sono distinti  nelle varie arti espressive: nella pittura, nella decorazione di chiese e case signorili (maestri di capitelli), nella scultura del marmo, nell'intarsio del legno e nella modellazione di opere in bronzo; di alcuni di essi già abbiamo trattato, in questo blog, la biografia e le loro creazioni artistiche. 
Dedichiamo oggi questo post al maestro scultore, Gennaro Raiano.
Raiano nacque a Miano, il 13 novembre 1856. Frequentò con profitto l'Istituto delle Belle Arti di Napoli, dove ebbe celebri insegnanti, del calibro di Gennaro Maldarelli, Tommaso Solari, Giovanni Salomone e Giuseppe Bellisario. Una volta diplomato, iniziò a partecipare, con le sue opere di bronzo e di altri materiali, come marmo, gesso e legno, ai vari concorsi ed esposizioni che ebbero luogo nelle diverse città italiane e anche all'estero.
Nel 1894 partecipò alla mostra triennale di Milano, con due statuine in bronzo, di soggetto popolare napoletano.
Nel 1895 partecipò all'Esposizione della Biennale di Venezia.
Partecipò per diversi anni all'esposizione d'arte napoletana, intitolata "Salvatore Rosa". Ricordiamo, per l'anno 1888: Costume napoletano (bronzo e marmo), Costume da Contadina (bronzo), Il tempo di Carnevale (busto gesso); 1890: "Frisco all'anime 'o priatorio" (acquistata dal duca di Martina), un "Un racconto curioso" (bronzo), "Cerinaio" (gesso), "Sbadiglio" (bronzo); 1891: "Intermezzo" (gesso), "A salute vosta": 1892: "Composizione di un capitello" (gesso), "Busto di Bellini" (gesso), "La bolla di sapone"; 1896 "Distrazione in Cerignola", "M''o bevo io" (bronzo); 1906: "Una minaccia" (bronzo), "Il rospo e la lumaca" (cofanetto in legno); nel 1911: "Fruttiera" (bronzo), "La corda di violino".

Nel 1904 partecipò a Londra, all'Esposizione italiana: "Italian Exhibition Earl's Court", organizzata dalla Italian Chamber of Commerce, con la scultura "A Toast".
Vennero gli anni della sua maturità artistica; fu subito notato dalla committenza, soprattutto da parte di istituzioni pubbliche, dal clero e da famiglie aristocratiche e borghesi, che gli commissionavano opere d'arte per le loro esigenze. Lavorò in molte città italiane, sopratutto nel meridione, e anche dall'estero.
Lavorò in Inghilterra e in Grecia. A Corfù, realizzò degli altorilievi e bassorilievi in bronzo, commissionati per il noto palazzo Achilleon. Sempre a Corfù, nel 1904, realizzò "Il monumento ad Apollo" con figure musicali allegoriche. A Londra, invece, già nel 1890, ebbe a realizzare dei "bassorilievi allegorici" per il "ridotto" di un teatro cittadino.
Pur eseguendo sculture in scala ridotta e per alcune mostre, la sua variegata produzione predilesse, per quantità e qualità artistica, i bassorilievi, gli altorilievi e le sculture musive in bronzo o in marmo per vari monumenti civili e religiosi.
Si cimentò con destro anche nella scultura in marmo, come la realizzazione di quattro sarcofaghi in stile quattrocento, assieme a quattro ritratti di famiglia, ordinati dalla famiglia Parlato, per la propria cappella gentilizia nel cimitero di Gragnano.
Fontana del satiro, nel palazzo Spinelli in via de Mille (NA), foto G. Guida
Nel 1908 realizzò, su incarico dell'Università degli studi di Napoli, un bassorilievo in bronzo, lungo ben 12 metri, collocato nei locali del vestibolo della struttura, con figure a grandezza naturali, intitolato: "Minerva che protegge le scienze".
Nello stesso anno 1908 realizzò nella città di Brindisi una lapide monumentale, in marmo e bronzo, con ritratto e figure allegoriche, per Felice Cavallotti. Nella stessa città, nel 1910, realizzò un'altra opera monumentale per la tomba di Virgilio Virdia, un altorilievo in bronzo in stile romano, con quattro figure al vero, dal titolo: La visita al sarcofago.
Altra importante commessa fu eseguita a Castellammare di Stabia, nella cui chiesa del Gesù realizzò nel 1909 (lavorati e completati in opera), quattro altorilievi in bronzo, a grandezza naturale, rappresentanti i "Santi martiri", "dottori", "Vergini" e "Confessori". 
Ancora a Brindisi, nello stesso anno 1909, realizzò per il Municipio della città un busto in marmo raffigurante il re Umberto I di Savoia, mentre per teatro comunale, un busto in marmo dedicato a Giuseppe Verdi.
Nel 1911, realizzò quattro figure più grandi del vero, ispirate in stile quattrocento, cinquecento e seicento, per la famiglia Paternò, Marchesi del Toscano. 
Le sculture rappresentavano gli antenati della famiglia Paternò e destinati ad ornare il grande scalone monumentale della residenza nobile che i Paternò possedevano in Catania.
Ancora nell'anno 1911, per la chiesa di Cerignola, realizzò le statue della "fede" e della "speranza", e angeli a grandezza naturale, di coronamento del gruppo scultoreo della Madonna del Rosario, e ancora il paliotto dell'altare maggiore, con bassorilievo in bronzo raffigurante le "Profezia di Malachia".
A Frattamaggiore, per la chiesa parrocchiale di San Sossio, realizzò le statue della facciata del tempio, raffiguranti San Sossio e Santa Giuliana, mentre all'interno della chiesa eseguì il ciclo di decorazioni, in stucco. 
A Caivano, nel Santuario della Madonna del Campiglione, realizzò opere in stucco per adornare la grande tela collocata nel controsoffitto della chiesa; in particolare due coppie d'angeli, posti ai lati della tela, che reggono due ovali raffiguranti, rispettivamente, i papi: Leone XII e Benedetto XIII.
E, solo per terminare il lungo elenco di opere realizzate dal maestro, la fontana con gruppo decorativo in bronzo, collocata nell'atrio del palazzo Spinelli, in via Dei Mille a Napoli, opera eseguita in collaborazione con Luigi de Luca.
Frattamaggiore, Chiesa S. Sossio: Statue in gesso di S. Sossio e Santa Giuliana
Non è da escludere che il maestro Raiano abbia realizzato delle opere in gesso, marmo o in bronzo, per la chiesa parrocchiale di Miano e per altre chiese del circondario dell'Area Nord di Napoli, purtroppo non abbiano trovato notizie in merito. Raiano ha partecipato, nel 1910, alla "Prima mostra nazionale di arte pura", promossa da Bernardo Celentano, per  la quale è stato anche componente della giuria per l'accettazione delle opere.
Ottenne, per titoli, l'abilitazione all'insegnamento del disegno per le "Scuole tecniche e normali". 
E' stato membro della società artistica "Micco Spadaro". 
Fu nominato professore onorario del Regio Istituto di Belle Arti di Urbino.
Nel 1896, ottenne la medaglia d'argento alla "Promotrice di Belle Arti" di Genova, con la scultura intitolata "Alla vostra salute".  
Il maestro Gennaro Raiano concluse la sua intensa vita artistica nella sua casa di Miano, in vico Cirillo; morì nell'anno 1916.
Nella Galleria di Arte Moderna, a Roma, è conservata la sua scultura: "Il ritorno".
Salvatore Fioretto

Gran parte delle notizie che compongono questo post sono state tratte dal racconto, dell'anno 1916: "Artisti napoletani viventi", scritto da Enrico Giannelli.

Le foto di opere d'arte inserite in questo post sono state liberamente tratte dai siti di Internet dove erano inserite e mostrate, il loro utilizzo è destinato esclusivamente a promuovere la libera diffusione della cultura, senza altri secondi fini, come di speculazione o di lucro.


domenica 16 settembre 2018

San Gennaro, il Concittadino, il Patrono, il Difensore (Card. Castaldo, lettera pastorale alla città, settembre 1964)



Per la solennità di San Gennaro, che è alle porte, pubblichiamo un'appassionata lettera scritta dal cardinale di Napoli, Alfonso Castaldo, in occasione della ricognizione canonica delle reliquie di San Gennaro, avvenuta nel "Succorpo" della Cattedrale, nel mese di marzo dell'anno 1964.
Grazie al card. Castaldo, i resti di San Gennaro (quelli scoperti nel 1497 dietro all'altare maggiore di Montevergine e poi, una volta condotti in città, murati nel "Succorpo" del Duomo di Napoli), furono rinvenuti, dopo diversi tentativi di indagini, ed esposti al pubblico culto dei napoletani, come si vede tutt'oggi.
Card. Alfonso Castaldo
Furono sistemati in una preziosa urna d'argento, costellata di coralli e cammei, dono personale di Castaldo alla città.

Alfonso Castaldo, nacque nella vicina cittadina di Casoria, il 6 novembre 1890. Dopo essere stato vescovo di Pozzuoli, fu nominato arcivescovo di Napoli, nel maggio nel 1952. Ha retto la diocesi napoletana per 14 anni.  Morì a Napoli, il 3 marzo 1966.

Con la lettura del testo, richiamiamo l'attenzione sul termine di "Concittadino", che ricorre più volte e a pieno titolo nella lettera del card. Castaldo.
Reliquiario d'argento dono del Card. Castaldo
Le parole del Presule confermano, assieme alla tradizione, alla leggenda e alle testimonianze monumentali, anche se dedotte, che San Gennaro è napoletano, perché nato a Neapolis.
Anche gli Atti del Martirio (Passio "Atti Bolognesi") lo fanno ampiamente dedurre, riportando nel racconto del martirio del Santo e dei commartiri, avvenuto l'anno 305 d.C., che, nel mentre i Misenati e i Puteolani prelevarono i resti dei loro concittadini martiri (Sossio, Procolo, Eutiche, Acuzio) e, alla pari, i Beneventani, prelevarono quelli del loro diacono Festo e del lettore Desiderio (anch'essi loro concittadini), ai Napoletani furono riservati i resti del Vescovo Gennaro... Potevano mai i Beneventani lasciare in modo pacifico ai napoletani, se non avessero avuto titolo, i resti del loro autorevole cittadino, il loro Vescovo, pensando solo a un diacono e a un lettore...?
Cappella del Tesoro di S. Gennaro. Domenico
Zampieri (detto Domenichino),
San Gennaro abbraccia il diacono Sossio
E' scritto infatti che: "... Di notte poi, mentre ciascun popolo premurosamente si preoccupava di rapire i propri patroni, i napoletani meritarono dal Signore di prendere il beato Gennaro come Patrono... (Noctu vero cum unc quaeque plebs sollicite suos sibi Patronos rapere festinarent, Neapolitani beatum Januarium sibi Patronum tollentes a Domino merue-runt). 
Oggi, invece, da più parti, anche da fonti e personaggi autorevoli, si attribuisce a Benevento la natalità di San Gennaro, questo senza fondamento e senza alcuna prova certa... 

Ecco il testo della lettera pastorale del card. Castaldo:
"San Gennaro, il Concittadino, il Patrono, il Difensore.

Accanto all'altare del succorpo abbiamo, nella sera del 25 febbraio 1964, gridato con umiltà e commozione: "Te votis mentis et cordis expetitum inventumque recognovi - Clero Populo ostendi, Ianuarii, civem, patronum, vindicem". Come dire: "Cercavamo con la mente e col cuore: trovammo ciò che avevamo desiderato e al Clero e al Popolo indicammo il cittadino, il patrono, il vindice.
Ricordate! 
Il nostro Concittadino.
Il cittadino, perché San Gennaro è figlio della nostra Napoli, e fu certo tra i figli che più illustrarono questa città meravigliosa per bellezze naturali, per storiche vicende, per imprese generose, soprattutto per quella Fede che non le è mai venuta meno, ma che ha scritto pagine luminose di trionfi e di vittorie. San Gennaro è al centro della nostra storia, per cui è impossibile non vedere la Sua presenza nella lunga serie di 17 secoli, attraverso vicende ora liete, ora dolorose, ora umili, ora fatidiche, mentre a Napoli lo scettro di un Regno che fu, passava dai Bizantini ai Normanni, dagli Svevi agli Angioini, dagli Aragonesi ai Viceré di Spagna. E tutti si inchinarono alla gloria del Martire invitto. 
Il nostro Patrono.
Il Patrono, il Patrono vigile, il Patrono potente che arresta la lava distruggitrice del Vesuvio, che vince le pestilenze, libera dai terremoti, difende dai saraceni, doma i bellici furori. Egli, pietoso ed efficace nelle pubbliche calamità, non dimentica i singoli protetti, che sono suoi fratelli, che sono suoi figlioli. Su ogni casa Gennaro rivolge il suo sguardo, allunga la sua mano, stende il suo manto. Preserva dai mali non solo del corpo, ma anche dell'anima, alimentando una Fede, forse semplice, forse ingenua, ma viva, cristallina, come il nostro cielo, come il nostro mare, luminosa come il nostro sole, ardente con il nostro vulcano.
Questa Fede Egli ha alimentato nei nostri petti, suscitando nei tempi, in Napoli, una fioritura di santità e di opere di beneficenza per recare conforto a ogni miseria e a tutti i dolori della vita. 
Il nostro Difensore. 
Cittadino, Patrono; non basta: Egli è il Vindice, è il Difensore, che sopra tutto difende la nostra libertà di Figli di Dio, con la forza del miracolo che più volte vediamo rinnovarsi sotto i nostri occhi, che ricorda la trascendenza dello spirito sulla materia, della Fede sulla ragione, della Grazia sulle naturali risorse, del divino sull'umano. E' vera, autentica libertà, che anche tra le strette della povertà dà alla nostra gente la forza e il coraggio di resistere alle insidie malevoli di coloro che mentre parlano di libertà preparano le ritorte della schiavitù. San Gennaro ci fa cantare tra le tribolazioni, sotto il nostro Cielo, dinnanzi al nostro mare, perché oltre il Cielo ci fa intravedere il Paradiso, di cui, al di là dell'oceano, ci indica il porto."
card. Alfonso Castaldo

Auguri a tutti i lettori che portano il nome di "Gennaro"!



Basilica di S. Restituta: Lello da Orvieto, la Madonna del Principio tra i santi Gennaro e Santa Restituta (mosaico, 1323).