venerdì 26 giugno 2015

Giuseppina, la fanciulla del perdono...! 2^ parte

Continuiamo a narrare la storia di Giuseppina Bianco, con l'epilogo della sua uccisione. Prenderemo spunto questa volta dal libricino "Giglio Insanguinato", scritto da Innocenzo Davide, che fu suo padre spirituale, dal quale prenderemo alcuni frammenti di brani scelti (gli scritti di I. Davide sono stati riportati in corsivo).

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In quel periodo, nel territorio tra Marianella, Mugnano e Chiaiano si stava celebrando una Santa Missione popolare. La Missione era stata fermamente voluta dal parroco di Marianella, don Ernesto Contegno, supportato dall'aiuto della pia signora Maria Pesacane, zelante volontaria territoriale dell'Azione Cattolica di Napoli.
Nell'infuriare della guerra sul suolo italiano, il pio e zelantissimo Parroco Don Ernesto Contegno di Marianella mostrava più che mai di essere il buon pastore tra le anime affidate al suo cuore. Per preservare tanti suoi filiani dalla tormenta e dalla valanga del male che nei paesi travolgeva e seppelliva ogni valore morale, desiderava una santa missione perpetua. E la Provvidenza gli venne incontro. Un povero missionario che aveva avuto il convento sinistrato e che era sfuggito alla caccia all'uomo dei Tedeschi, trovò riparo ed ospitalità nella masseria "Epitaffio" del Comm. Sthael di Napoli. La Missione durò quasi un anno. 
In questa Missione e di questa Missione visse Giuseppina Bianco...
"Ho bisogno di andare alla Cappella, - ripeteva spesso - come si fa a non andare da Gesù". 
La cappella, il tabernacolo, la parola di Dio era diventata tutta la sua vita. Pioggia, bombardamenti, niente valse ad allontanarla dalla cappella. 
Per quel momento di raccoglimento giornaliero, a lei caro, non badava a pericoli o al rischio di imbattersi in qualche brutta situazione.
[...] A chi le faceva notare che poteva incontrare dei negri, rispondeva sorridendo: - "Ma che negri, non si sa, vado alla cappella!"
Alla mamma che si mostrava preoccupata, nel vederla andare con i bombardamenti alla Cappella, diceva: - "Mamma, io vado dalla Madonna, lo sapete? Che volete che mi succeda?" 
Per questa devozione alla Madonna, Giuseppina riservava un grande amore e tantissimi fioretti a lei dedicati.
Quei distacchi dalla terra fornivano i suoi fioretti, che nel mese di maggio raggiunsero la cifra di 118. Le piccole cosucce che potevano legare al suo cuore erano per lei tante zolle di terra che volevano atterrarla, e perciò rinunciava a tutto per vivere solamente per il suo Gesù [...].
Rinunziava anche al cibo, per quei fioretti, a volte anche a sole due mele...
La mamma, che la vedeva deperire sensibilmente, avrebbe voluto trattenerla alquanto, ma Giuseppina si era messa in moto e non voleva arrestarsi. 
-"Bisogna fare i fioretti, ripeteva invariabilmente e non c'era nulla da fare." [...]
Questa straordinaria e rapida inversione della sua vita fu notata da alcuni suoi compaesani e in molti esclamavano dicendo:
"Uh, Giuseppina si è data alla vita devota!"
In effetti Giuseppina aveva ormai deciso il suo futuro e aspettava, come le era stato chiesto dalla Superiora del convento e dal sacerdote missionario, suo consigliere spirituale, il ritorno del papà dalla prigionia, per ottenere la sua autorizzazione, necessaria per poter entrare come novizia nel convento delle suore di Pianura. 
Già in quella missione la Provvidenza aveva fatto fiorire una primavera di vocazioni e ben sette giovanette correvano a consacrare il fiore della loro giovinezza ed il tesoro del proprio cuore al Signore, nel monastero delle Suore Vocazioniste di Pianura.
Giuseppina Bianco era intenta quindi a frequentare, assiduamente ogni sera, le funzioni religiose che si tenevano alla Cappella della masseria Epitaffio... Seguiva anche le celebrazioni che si tenevano, per quella Santa Missione, nelle parrocchie vicine, Mugnano, Marianella, Chiaiano...., ad accompagnarla era la stessa signora Maria Pesacane.
Quel pomeriggio del 17 maggio era un apparente e quieto pomeriggio di tarda primavera, il suono della campanella, che richiamava i fedeli alla Cappella, si udiva per tutta la bella campagna circostante, tra Piscinola e Mugnano...
Purtroppo la partecipazione quella sera alla funzione nella Cappella sarebbe stata la sola ancora di salvezza per Giuseppina, invece, per un tragico gioco del destino, gli eventi presero, purtroppo per lei e per la sua vita, una piega ben diversa: perché fu una vera tragedia...!!
Quella sera non fu come le altre sere e la madre di Giuseppina non consentì alla figlia di andare alla Cappella, come faceva ormai tutte le sere di quel mese di maggio.
Giuseppina intanto aveva lavorato tutto di un fiato per essere pronta al mese Mariano, udì la campanella della cappella e fece per andarsene dal campo. La mamma subito l'investì: "Questa sera non è il caso di andare alla Cappella. C'è tanto lavoro da fare in campagna e non è bene lasciare al lavoro il fratello che ora è tornato da Napoli ed è corso per aiutarci."
Chiaramente la ragazza apprese con sofferenza questa decisione della mamma, cercando in tutti i modi di convincerla a cambiare idea, ma, invano, non ci riuscì...
"Ma che mi volete farmi commettere un peccato interrompendo il mese della Madonna?"
"Non è poi un delitto, - continuò la mamma - non andare una sera alla Cappella". 
La giovinetta, ferita sul vivo, non aveva più intenzione di riprendere il suo posto di lavoro. La mamma per smuoverla fu costretta a dirle che non l'avrebbe mandata più alla Cappella se non desisteva dal suo capriccio. Giuseppina riprese allora la sua occupazione mentre le sfuggiva quest'ultimo lamento: "Ma proprio questa sera che c'è una bella predica non volete mandarmi alla Cappella!"
In quei giorni fu notato dai contadini un soldato di colore, appartenente delle truppe francesi, girovagare tra i viottoli delle campagne circostanti Piscinola e Marianella. Il milite, che era equipaggiato con un doppio zaino e un fucile portato a tracolla, finì per passeggiare lungo la via che chiamavano "lo stradone". Appariva come un soldato fuggiasco, distaccatosi dai suoi commilitoni, perdendo poi l'orientamento; tuttavia in tanti cercavano di sapere il suo stato, dandogli del cibo...
Nell'attesa chiese qualcosa da mangiare, consumò delle sigarette e a pezzi e bocconi rispose a quel fuoco di fila di domande che gli rivolgevano quei buoni contadini: "Cassino... campo.... Chiaiano... aspetto... fare notte"...Tanti capirono, da quel poco che riusciva a pronunciare in italiano, che era originario dell'accampamento militare sito in precedenza a Chiaiano o a Piscinola e che era fuggito, quando il campo era stato smobilitato per proseguire verso Cassino... Nel frattempo attendeva la notte per allontanarsi dalla zona...
Fu proprio questo soldato ad agire quella sera del 17 maggio ai danni della nostra ragazza... 
Si mantenne per un po' di tempo distaccato dal nostro gruppetto di contadini. Forse già da qualche giorno aveva meditato il suo piano e stava sorvegliando la sua preda, nascosto tra siepi e tra le spighe di grano, che a metà maggio sono già abbastanza alte da far celare alla vista la presenza di persone. 
Quella sera il soldato marocchino decise di entrare in azione... Erano quasi le ore 20:00... 
Uscì da una siepe muto e severo finse di trovarsi sperduto nel campo. Poi con voluta curiosità si attardò ad osservare il lavoro dei familiari di Giuseppina.
Teresa Bianco e i suoi figlioli erano da diverse ore nella loro campagna, sita poco distante la strada che collegava Piscinola con Mugnano, detta cupa Perillo; avevano quasi smesso di lavorare e stavano raccogliendo le loro cose per prendere la via verso casa, prima dell'imbrunire. 
Fu Giuseppina ad accorgersi anzitempo della presenza di quell'uomo vestito da soldato. Un soldato di aspetto alto e magro, dalla pelle leggermente scura, con una vistosa cicatrice sulla guancia destra. 
Sentendosi a disagio sotto lo sguardo del soldato, la ragazza domandò alla madre:
"Mamma, che cerca costui?"
La mamma la tranquillizzò, dicendole di non aver paura. Giuseppina invece sentiva rumoreggiare della tempesta ormai vicina. Finalmente il soldato, fatto ardito, si avvicinò alla giovanetta curva a lavorare e le presentò lo zaino pieno di leccornie, mormorando sa lui che cosa. [...]
Giuseppina voltò bruscamente le spalle al soldato, replicandogli con sdegno: "Non io, ma i tuoi pari accettano simili cose". 
Il soldato, spavaldo, capendo di essere stato respinto dalla ragazza, tirò fuori il fucile e si mise a sparare in aria molti proiettili, minacciando di colpirla se avesse continuato ad ostinarsi nel suo rifiuto. 
Ma ella continuò a ripetere con fermezza: "Uccidimi, se vuoi, ma non farò quel che dici".
Teresa e gli altri fratelli più piccoli, intanto, accorsero subito in aiuto della fanciulla, cercando di far desistere il soldato dai suoi cattivi propositi, ma non ci fu verso per fargli cambiare idea... ripeteva, come una litania, sempre la stessa cosa: Signorina..., "Signorina con me..."
Dipinto con scena di vita agreste
La madre e i fratellini di Giuseppina sfidarono la morte pur di poterla salvare dalle mani del suo attentatore, ma non ci riuscirono. La mamma in ginocchio supplicò invano di lasciare in pace la sua fanciulla; la stessa sorellina, Margherita, di sei anni, cercò di scappare per chiedere aiuto nella vicina masseria Epitaffio, ma fu bloccata per un braccio dal vile soldato... che comandò a tutti di mettersi faccia a terra, se non volevano morire.
Approfittando di un attimo di distrazione del soldato, in quel frangente concitato, Giuseppina si caricò di un fascio d'erba, cercando di raggiungere la masseria Epitaffio...
L'innocente fanciulla si carica di un fascio d'erba e prende la via per sottrarsi allo sguardo del tentatore che inferocito la raggiunge, le strappa di sul capo il fascio d'erba e l'agguanta per la mano. L'angelica fanciulla geme: "Oh! mamma, che cosa mi hai fatto... se mi mandavi alla cappella." [...]
"Mamma di Pompei aiutami"; esclama, con enfasi derelitta, e si strappa dalle mani del soldato[...].
Corse, allora, con tutta la velocità che poteva, verso quella Cappella affollata, che sarebbe stata la sua salvezza; il soldato cercò di inseguirla e, forse, capendo di non poterla più raggiungere, si fermò di blocco, abbracciò il suo fucile e lo puntò verso la ragazza...mirando le spalle...
La mamma ed il fratello di Giuseppina accorrono di nuovo e afferrano la canna del fucile per impedire che l'assassino faccia del male, e incoraggiano la fanciulla alla fuga. Il soldato si agita e si dimena, poi con un colpo di pugnale si libera dai due, ferendoli al braccio, e poi... 
A questo punto il soldato, ormai fuori di sé, fece esplodere alcuni colpi, che raggiunsero Giuseppina al cuore e al polmone sinistro. La ragazza cadde a terra, ma ebbe ancora la forza di gridare: "Ma non mi ha fatto niente!"
... L'assassino, fucile imbracciato, è scomparso. La povera mamma accorre, raccoglie tra le braccia l'eroica figlia e la stringe forte forte al suo cuore di madre, riproducendo dal vivo il quadro della pietà. I fiotti di sangue bagnano il petto della povera madre che, raccogliendo l'ultimo grido della martire, le ricorda la vittoria riportata sul male. 
-"Non avere paura figlia mia, il pericolo del male è passato, il soldato è scappato via. Adesso andremo dal medico e rimedieremo anche alla fucilata". 
Il resto del triste episodio dell'eccidio è un susseguirsi di sentimenti di pietà e di religioso compianto, anche di sdegno, ma mai di rancore e di desiderio di vendetta! 
Questa è la grandezza della storia di Giuseppina Bianco, al di là della suo martirio e della violenza subita per difendere i suoi ideali di purezza e di volersi consacrare a Dio, che sono pur nobili e altissimi esempi di valori cristiani: la grandezza di questa storia è proprio l'assenza tra i familiari e nella stessa comunità di appartenenza di ogni desiderio di vendetta... Qui il "perdono" emerge con tutta la sua forza interiore, in un contesto sociale già flagellato e mortificato moralmente dalla guerra e dall'occupazione militare straniera.
Le lacrime della mamma intanto si mescolano al sangue della figlia. Giuseppina occhi rivolti al cielo bisbiglia: - "Mamma..." -
"Parla" - si affretta a rispondere la mamma - Parla angioletto mio". 
Il pensiero della martire correva alla Mamma del Cielo: - "Mamma di Pompei.... aiu...tami".
Arrivò intanto di corsa il missionario della cappellina per dare l'estremo conforto religioso all'eroica giovane.[...]
Il missionario si avvicinò allora al carretto, sul quale era stato intanto adagiata la ragazza ormai moribonda, raccomandò di pregare per il suo assassino, mentre le impartiva i conforti religiosi... 
In quel frangente il polso della ragazza cessò di battere...
Il corpo di Giuseppina fu portato nella sua masseria e vegliato per tre giorni. La fanciulla, sistemata nel suo lettino, indossava un abito bianco sul quale emergeva, sul petto, il rosso di una chiazza di sangue, mentre un Crocefisso e un Rosario, erano stati posti tra le sue mani congiunte. 
Giunsero alla camera ardente anche alcuni soldati appartenenti alla Military Police "MP" francese, che erano accorsi per svolgere le indagini di rito. I militari restarono però a lungo in sosta davanti al feretro, in silenzio, con il capo scoperto..., forse sconcertati...
Dopo le indagini, il 20 maggio 1944, un imponente concorso di popolo salutò la ragazza ai suoi funerali, sia nella chiesa del SS. Salvatore e sia nella piazza antistante. Il suo feretro fu poi trasportato in corteo per tutte le strade di Piscinola.
Una settimana dopo, il cardinale Ascalesi celebrò una solenne cerimonia funebre in ricordo di Giuseppina, sempre nella chiesa del SS. Salvatore di Piscinola; anche in questa circostanza ci fu una una grande partecipazione popolare. 
Erano presenti in entrambe le funzioni tutti i componenti della famiglia e i parenti della ragazza, eccetto il fratello maggiore, che era marinaio a Taranto e il padre, ancora prigioniero di guerra.
Andrea Bianco, padre di Giuseppina, tornò a casa dopo quattro anni di prigionia, confidando ai familiari e ai parenti che aveva anzitempo ricevuto la notizia dell'assassino della sua figlioletta: perché in prigionia aveva sognato Giuseppina che gli mostrava una ferita al petto, raccontando la storia della sua uccisione.  
Ripeteva Andrea: ..."Lei era contenta e non vuole vederci scontenti".
Il povero padre affrontò la penosa vicenda familiare con serenità e rassegnazione. 
Quando incontrò la moglie, che commossa cercava di parlargli di Giuseppina, le disse:
"...Tu vuoi parlare di Giuseppina, ma Giuseppina non l'abbiamo perduta. Essa ci guarda dal cielo. Noi dobbiamo essere felici, che la nostra figlia ha saputo difendere la sua onestà e la sua fede. - Dimmi piuttosto l'hai perdonato?"
- "Si, l'ho perdonato subito e ho insistito che non gli facessero del male."
- "Hai fatto benissimo, ora posso stare tranquillo. Facciamoci coraggio e impegniamoci ad essere degni di Giuseppina."
Era l'ottobre del 1945 quando in quella casa dove era stata esposta la piccola martire per tre giorni, la famiglia di Giuseppina emetteva quest'atto solenne di fede vissuta.

Il missionario, che aveva assistito gli ultimi istanti di vita di Giuseppina, volle conoscere il padre della ragazza. 
Durante quell'incontro, Andrea gli chiese notizie del soldato:
"Ma padre, - interruppe Andrea, - sapreste dirmi dov'è questo soldato e che cosa gli hanno fatto?"
- "E perché mai questa domanda, caro Andrea?"
- "Non pensate, Padre, che io voglia vendicarmi. Quella fede che ha fatto di mia figlia una martire mi comanda di perdonare, e se mia figlia ha saputo morire, io so perdonare. Chiedo notizie del soldato perché sono desideroso di vederlo libero, avendo egli compreso il male che ha fatto."
Tre mesi dopo il suo arrivo a Piscinola, a pochi giorni dal Natale 1945, Andrea Bianco moriva per un attacco di trombosi, nella sua stanza, al piano superiore, nella masseria dove abitava.
Del militare, assassino della fanciulla, non si è mai saputo niente, qualcuno pensa che sia stato catturato; come non si è mai appurato se abbia avuto un momento di pentimento per il suo vile gesto.

La storia della ragazza piscinolese fu raccontata al pontefice, Pio XII, dal cardinale di Napoli, Alessio Ascalesi, come un esempio luminoso della gioventù napoletana dell'epoca. Il pontefice, commosso, rimase colpito ascoltando la frase che la ragazza pronunciò al momento dell'uccisione; la ripeté più volte: 
"Però non mi hai fatto niente"...
Poi rivolto al card. Ascalesi, aggiunse: "E' la Santa Agnese dei nostri tempi che tutti devono conoscere ed imitare!".
Al termine della Guerra, mentre tutta la stampa estera si divertiva a screditare l'onestà delle donne italiane, definendole "corrotte", il cardinale Alessio Ascalesi riparava a questa ingiusta accusa, indicando come esempio proprio la storia della nostra fanciulla: "Giuseppina Bianco - diceva il cardinale Ascalesi - con il suo martirio ha risposto alla stampa estera ed ha insegnato a tutti a conoscere la vera donna cattolica italiana". 
La tomba di Giuseppina si trova tra i giardini del vecchio cimitero comunale di Miano ed è meta continua di visite di persone che hanno conosciuto la sua triste storia; in tanti sono quelli che sostano in preghiera o portano semplicemente un fiore per onorare la sua memoria.

Alla cappellina della masseria Epitaffio è posta una croce in ricordo di quella Missione popolare, mentre al pavimento è stata sistemata una lastra di marmo, che ricorda la partecipazione della ragazza alle funzioni religiose, con questa scritta: 
"A te, o Croce, questo cuore insanguinato; a voi cattolici il mio testamento: morte ma non peccato!"

Speriamo, a conclusione di questo racconto dedicato alla vita di Giuseppina Bianco, che possano riemergere in questo quartiere di Piscinola e nei suoi abitanti, dei sentimenti e dei propositi di riconoscenza, diretti a questa nostra sfortunata concittadina, dedicandole un monumento oppure intitolando alla sua memoria una strada del quartiere.
Salvatore Fioretto


Questo racconto è dedicato al compianto parroco di Piscinola, don Francesco Bianco, parente di Giuseppina. Padre Bianco aveva molto a cuore la storia di questa ragazza e cercava in tante circostanze di farla conoscere a quanti non la sapevano. Attraverso Padre Bianco ho ricevuto una copia del libretto "Giglio Insanguinato", dal quale ho tratto molti spunti per questo racconto.
Ringrazio tutta la famiglia di Giuseppina Bianco, Pietro  Bianco e la signora Palladino Raffaela,  per l'aiuto generosamente fornitomi per la scrittura di questo racconto. 
 

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sabato 20 giugno 2015

Un noto pittore, un giureconsulto e un notaio… salvarono dalla rovina la chiesa del SS. Salvatore in Piscinola…

Autoritratto, Francesco De Mura
La millenaria chiesa parrocchiale del Casale di Piscinola, dedicata al SS. Salvatore, ha avuto nella sua lunga storia momenti di splendore alternati a momenti di decadenza ed incuria... Più volte, infatti, nelle fonti storiche e nei vari documenti ritrovati, emergono problematiche legate allo stato di conservazione dell'edificio, vuoi per incuria umana e vuoi per fattori esterni, come eventi calamitosi: i terremoti, i nubifragi, ecc., nonché le conseguenti azioni  e le opere di ripristino.
Singolare è la storia che stiamo per raccontare, che vede legata questa  nostra antica chiesa alla figura di un grande pittore del secolo dei Lumiattivo nel periodo del tardo barocco-roccocò napoletano, parliamo del celebre artista Francesco De Mura. Al pittore si legano nella vicenda altri due personaggi, che pure hanno operato in questo piccolo Casale e lasciato una traccia della loro vita nella sua storia. Essi sono il regio notaio Michele Valenzia e il giureconsulto, barone Giambattista Gallotti.
Allegoria delle arti, di Francesco De Mura
Il pittore Francesco De Mura nacque a Napoli, il 21 aprile del 1696, da Giuseppe ed Anna Linguiti. Il padre, Giuseppe, era originario della provincia di Salerno (era nato a Scala, presso Amalfi), ma prese presto a frequentare Napoli per la professione esercitata di mercante, infatti negoziava la lana in una strada, che fu poi spazzata via dal Risanamento di Napoli, chiamata “via Orti del Conte”. Già dalla tenera età emersero le sue doti non comuni di apprendimento e di grande passione per le arti ornate.
SS. Severino e Sossio. Volta affrescata da Francesco De Mura
Dopo una brutta esperienza in un collegio napoletano, fu dai genitori indirizzato presso la bottega del pittore Domenico Viola, dal quale apprese i primi rudimenti della nobile arte. Ben presto, nell'anno 1708, passò nella più celebre bottega napoletana di pittura, quella dell’abate Francesco Solimena, che fu anche maestro del celebre Sant’Alfonso Maria de Liguori (nato anche lui nel 1696). Nella bottega del maestro Solimena, Francesco De Mura vi rimase fino a tutto il 1730.
Fu senza dubbio presso la bottega del Solimena - che subito lo predilesse e lo considerò il più dotato dei suoi allievi - che il De Mura acquisì, anche sulla scorta degli insegnamenti del Giordano, del De Matteis e del "colorare" di Giacomo Del Po, il suo mestiere e la capacità di un disegno forbito e delicato insieme. Famosi sono i panneggi dei personaggi rappresentati nelle sue opere.
Francesco De Mura divenne un’artista richiesto e ambito, sia nel Regno di Napoli e sia nelle più importati corti d'Europa, le sue tele sono oggi conservate nelle principali residenze reali e nei più importanti musei europei, dalla Spagna, alla Russia, finanche negli Stati Uniti d'America. Notevole sono le opere conservate presso le collezioni private, tra le più benemerite ed importanti.
Dipinto di Francesco De Mura
Le committenze, importanti, proseguirono senza sosta nella sua vita: i benedettini dell'abbazia di Montecassino e quelli della chiesa napoletana dei SS. Severino e Sossio gli offrirono interventi di notevole consistenza e prestigio che lo impegnarono per alcuni anni (1731-1745).
Datato 1740 è l'enorme affresco per la volta della chiesa napoletana dei SS. Severino e Sossio, retta dai padri benedettini, considerato suo capolavoro, rappresentante S. Benedetto e S. Scolastica che propagano le regole dell'Ordine. L'opera è stata il punto di riferimento per tutti i colti viaggiatori del "Grand Tour", da Cochin a Fragonard. Per la stessa chiesa dipinse, tutt'intorno all'enorme navata, 32 Santi, Pontefici e Vescovi benedettini, che furono pagati 1.800 ducati, il 25 dicembre 1745.
Chiesa della Nunziatella, volta affrescata da F. De Mura
Altro grande lavoro del De Mura fu la realizzazione, nel 1746, della tela gigantesca per la rimodernata chiesa angioina di S. Chiara a Napoli, da porre sull'altare maggiore (quasi come un fondale da palcoscenico...), al di sopra della tomba di Roberto d'Angiò: rappresentava S. Chiara ed altri santi francescani nel trionfo dell'Eucarestia, e venne distrutta dai bombardamenti del 1943 (resta una foto Alinari). Per la stessa chiesa De Mura realizzò la tela: S. Chiara che mette in fuga i Saraceni con il Santissimo, dipinta poco dopo il 1746, e Salomone che dirige l'edificazione del tempio, dipinta nel 1751-52.
La produzione artistica del De Mura è ampissima: tanto egli fu prolifico di tele e capolavori d'arte figurativa che elencare tutte le sue opere sarebbe un'impresa non poco ardua e corposa!
Martirio di Virginia, tela di Francesco De Mura
Il 3 settembre 1772, Luigi Vanvitelli scriveva: "Il migliore di tutti li dipintori, che presentemente sono in Napoli, nel quale concorrono le parti che avere deve un valent'uomo, per distinguersi sopra gli altri, egli è Don Francesco de Muro, di cui sarebbe desiderabile averne qualche opera a fresco sulle mura del Real Palazzo di Caserta..." (cfr. N. Spinosa, L. Vanvitelli e i pittori attivi a Napoli nella seconda metà del Settecento..., in Storia dell'arte, 1972, 14, pp. 204).
Il 20 maggio 1756 portò a compimento il magnifico ritratto del Cardinale Antonio Sersale (arcivescovo di Napoli dal 1754 al 1776).
La stanchezza (aveva ormai 75 anni) e il disgusto per le sopraffazioni subite in seno alla famiglia (cfr. Napoli, Pio Monte, Testamento, 17 febbraio 1770: "ebbi a soffrire molte inquietudini non compatibili né alla mia età né alle mie applicazioni..."), lo indussero a rinunziare alla prestigiosa carica di direttore della Reale Accademia di nudo, come risulta dalla lettera di dimissioni che firmò il 9 marzo 1770 (Lorenzetti, 1952). Malgrado la rinunzia all'incarico e l'accettazione delle sue dimissioni, al De Mura fu pagato lo stipendio sino alla sua morte.
Sacra famiglia e S. Giovanni Battista, tela di Francesco De Mura
Dal carattere schivo e riservato, ebbe e coltivò pochissimi amici, dei quali non si dimenticò mai e soprattutto volle lasciare loro un segno della sua stima, al momento della sua scomparsa.
Non sappiamo quali interessi l’artista ebbe nell’allora Casale di Piscinola, se dipinse tele per la chiesa del Salvatore (Diversi quadri sono andati perduti all'inzio del secolo scorso) o per l’Arciconfraternita del SS. Sacramento, all’epoca già attiva e operante, ma sappiamo che fu cliente e soprattutto amico di un famoso notaio regio dell’epoca, che a Piscinola aveva il suo studio, e forse l'abitazione, il cui nome era Michele Valenzia.
L’11 ottobre 1780 per mano del notaio Michele Valenzia di Piscinola, De Mura stilò il suo testamento e al Pio Monte di Misericordia di Napoli lasciò gran parte delle sue sostanze. Gli lasciò tutto quanto contenesse la sua casa: un capitale che raggiungeva la impressionante cifra (in danaro contante) di 55.454 ducati, oltre i suoi 187 quadri, gli argenti, il mobilio, le carrozze, nonché altre numerose fedi di credito...! Dispose che tutte le sostanze dopo l'avvenuto inventario fossero vendute e "... che di quel denaro ricavato fosse invertita la rendita in soccorso di gentiluomini e di gentildonne poveri o di nobili famiglie di fuori, e dimoranti in Napoli o nelle sue borgate."
Piazza B. Tafuri e facciata della chiesa del SS. Salvatore, anno 2004
Il pittore, ormai vecchio, era rimasto solo, senza figli e senza eredi diretti; nel 20 giugno 1768 era morta la sua cara moglie, D. Anna D’Ebreù, che aveva sposato nel novembre del 1727.
Nel suo testamento aggiunse un codicillo, che così recitava:“Io Francesco de Mura di questa Città ritrovandomi infermo di corpo, sano però per la Dio grazia di mente, e d’intelletto, e  del mio retto parlare e memoria parimente esistente, dichiaro, che sotto il dì undici Ottobre dell’anno 17ottanta feci il mio inscriptis chiuso, e suggellato Testamento, che diedi a conservare al regio Notar D. Michele Valenzia di Napoli. Indi il 26 Febbraio dell’Anno 17ottantuno feci un Codicillo chiuso che consegnai parimenti…”.
Tra le disposizioni dettate si legge anche un pensiero di riconoscenza nei riguardi del suo notaio e amico Michele Valenzia:
Autoritratto di Francesco de Mura (Galleria degli Uffizi)
[...]“Item lascio juri Legati al suddetto Regio Notar Don Michele Valenzia, mio carissimo amico, docati cento per una sola volta, per un fiore per le tante fatighe per me fatte…”. Il De Mura dispose in un codicillo aggiunto posteriormente al primo testamento, un aiuto concreto per la riattazione della chiesa del Salvatore, intimando il suo erede, il Pio Monte della Misericordia, a provvedere secondo le necessità dell'edificio sacro, attraverso il suo regio sovrintendente: “Dippiù io suddetto D. Francesco, codicillando, voglio, ordino e comando che, occorrendo al detto avvocato Sig.r  D. Gio: Battista Gallotti, mio carissimo Amico e  Compadre, soccorso per provedere alli bisogni della parocchiale chiesa del Casale di Piscinola, debba il detto Sacro Monte mio Erede somministrarcelo, secondo ne farà Le Istanze e richieste il detto Avvocato Sig.r D. Gio: Battista Gallotti, per lo quale soccorsomi le rimetto alla coscienza del medesimo… 
E voglio che gli esecutori del presente mio Codicillo siano quelli stessi da me stabiliti nel citato testamento inscriptis, con le medesime facoltà, e non altrimenti. E finalmente dichiaro, che con il suddetto mio testamento, ordinai di corrispondersi al mag.co Notar Don Michele Valenzia, annui docati venticinque sua vita durante, colle leggi e condizioni indetto Testamento…”
Si noti, nella lettura dei brani estratti dal testamento, la ricorrente menzione dell’avvocato Giambattista Gallotti, dichiarato suo "carissimo amico e compadre”... 
…Ogni dubbio si debba sciogliere e, dichiarare dal suddetto Sig.r Avvocato D. Gio: Battista Gallotti a chi ho comunicata tutta la mia volontà, e che mi ha consigliato nel presente mio Testamento, e la dichiarazione facienda dal medesimo, si abbia come parte del presente mio Testamento, e si debba ad unguem osservare ed eseguire dal detto mio Erede, atteso così è mia volontà.  
Piscinola Lì undici Ottobre millesettecento ottanta- Io Francesco di Mura ho disposto come sopra.
Chiesa del SS. Salvatore parte absidale
In effetti anche questo personaggio è stato attivo a Piscinola, lasciandone ampia e meritoria memoria del suo operato. Il pittore Francesco De Mura tanto apprezzava le qualità umane e spirituali del barone Gallotti, che gli volle regalare il crocifisso conservato nella sua casa, con questa disposizione: “Ed oltre a ciò Lego a beneficio dello stesso avvocato Sig.r Gio: Battista Gallotti il mio Crocifisso, che conservo in uno Scarabatto nella stanza del mio Letto, unito collo stesso Scarabatto ed altro di suo ornamento, acciò si ricordi dell’Anima mia”.
Nello stesso testamento, stipulato nello studio di Piscinola, il De Mura dispose anche il luogo della sepoltura, al sopraggiungere della sua morte: "...nella chiesa del convento di S. Pasquale di 88 alcantarini di Chiaja, al quale convento si ritrovano pagati ducati 50 per detto interro...". 
Guarigione di un cieco, tela di F. De Mura
Aggiungerà poi altri codicilli al testamento, il 16 luglio 1782. 
Le sue ultime volontà concludono, dicendo: “Lascio Esecutori di questo mio ultimo testamento L’ill.re Marchese Presidente della regia Camera della Sommaria, Sig.r Don Angelo Granito, L’Ill.re Marchesino D. Giovanni Granito e L’Avv. Sig.re D. Gio: Battista Gallotti. 
Il giorno 19 agosto 1784, nel pieno della calura estiva, Francesco De Mura morì al terzo piano del palazzo del principe di Torino (nell'attuale via Foria, tratto Pontenuovo), dove abitava in un appartamento composto da sedici stanze, località quella della città all'epoca assai amena.
Le volontà del De Mura ebbero anche un percorso giuridico alquanto travagliato, tanto che alla sua morte si ebbe una controversia sorta tra la Casa “Santa Ave Gratia Piena” e il “Pio Monte Della Misericordia”, anche se quest'ultimo era considerato, chiaramente, beneficiario del patrimonio per lascito testamentario, dell'intero immenso patrimonio dell'artista.
Ritratto del conte John J. Mahony, tela di Francesco de Mura
Nella controversia in parola l'”Ave Gratia Piena” pretendeva l'eredità, avanzando come prova la versione secondo la quale il De Mura era stato un trovatello "esposto" alla ruota dell'Annunziata, battezzato col nome di Francesco e successivamente affidato, perché lo allevasse, ad Andreana Pastore, moglie del lanaiolo Pompilio di Amura (cfr. Causa, 1970, pp.5 2 s.). Per questo il De Dominici (1743) scriveva che il pittore era figlio di Pompilio…
Per quanto riguarda il terzo personaggio di questo racconto storico, ossia dell’avvocato e giureconsulto, nonché barone, Giovanbattista Gallotti, le fonti storiche riportano che era originario della provincia di Salerno, era infatti nato nel 1718,  in terra di Battaglia. 
Ritratto di prelato, opera di F. De Mura
All’età di 20 anni fu mandato dai genitori a Napoli, a formarsi presso lo studio del cugino, l’avvocato Tomaso Benevento. Studiò le varie discipline umanistiche e scientifiche, la filosofia e le lingue antiche, ma poi si soffermò sul diritto naturale, ecclesiastico e di guerra, acquisendone ampia conoscenza ed erudizione. Si dedicò all’insegnamento e all’attività forense, distinguendosi per rettitudine, onestà e dedizione.
Rinunciò alla carica di giudice della Gran Corte della Vicaria, offertagli dal Re Ferdinando I, per le sue doti e per lo stile accademico: rinunciò alla toga, sacrificando tutto se stesso alla difesa dei diritti sacri dell’uomo e alla difesa dei diritti dei suoi assistiti.
Anche se non lasciò opere di grande mole, nessuno che abbia letto le scritture legali di Giambattista Gallotti gli potrà negare il valore e la laude di sommo giureconsulto, esaltandone lo stile che lo contraddistinsero. Fu apprezzato in patria, così come dagli studiosi stranieri. Uomo molto religioso, pose sempre la fede come baricentro del suo operare con giustizia ed equità.
Facciata chiesa parrocchiale del SS. Salvatore, anno 2004
Fu chiamato ad amministrare la chiesa del SS. Salvatore di Piscinola dal re Ferdinando I, infatti nel libro “Opere di Nicolò Morelli dall’autore medesimo rivedute corrette e ammendate, 1846 Volume I”, così si riporta: [...]"Il magnanimo Ferdinando I obliar non potendo il riverito nome del nostro Gallotti, lo chiamava al governo del Banco di S. Giacomo, e poco di poi creavalo sopraintendente della Chiesa parrocchiale di Piscinola. Corrispose alla fiducia del suo Signore assai del proprio contributo per la ristaurazione di quel cadente edificio. Che se alcuno non reputa questo un gran pregio, io lo prego a considerare, che mentre pure sono creduti utili alla città coloro che faticando per essa, non ne ricusano mercede, Giambatista alle fatiche imprese a vantaggio della sua patria, e dei suoi concittadini aggiunse ancora il dispendio. Morì nel mese di giugno del 1799. 
Ai baroni Gallotti sono legati altri episodi ed eventi della storia del Casale di Piscinola, che narreremo, per ovvie ragioni di spazio e di argomento, in un apposito post futuro.
Salvatore Fioretto
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Campanile della chiesa del SS. Salvatore, veduta dalla Villa Mario Musella, anno 2015


Napoli Chiesa dei Santi Severino e Sossio -Volta affrescata da Francesco De Mura




Allegoria, opera di F. De Mura

Le foto riportate in questo post sono state liberamente tratte da alcuni siti web dove erano contenute, questo senza alcun fine di lucro, ma solo per la libera divulgazione della cultura.

domenica 7 giugno 2015

Giuseppina, la fanciulla del perdono...! 1^ parte

Attraversando via Aldo Moro, colpisce al viandante la vista di quel semplice monumento edificato alcuni anni fa, con caparbietà, da alcuni abitanti del posto e da un comitato spontaneo di cittadini, per dedicarlo a una sfortunata ragazza della Guerra, che si chiamava Giuseppina Bianco.
Sono trascorsi da quell'episodio cruento, che la vide cadere per mano della viltà umana, settantuno anni, ma il suo ricordo, la memoria di quell'apparente inutile sacrificio non sono mai stati cancellati o sopiti da questa comunità, che fortunatamente conserva ancora alti i valori della riconoscenza e della pietà umana.  
Giuseppina Bianco, morta a diciassette anni, per conservarsi pura, per non cadere preda delle luride voglie di un marocchino imbestiato e ubriaco (G. Altamura).

Siamo qui a rievocare la storia di questa sfortunata ragazza di Piscinola, perché convinti che il suo esempio di vita, al di la della religione e della fede, possa e debba essere un riferimento, la forza e lo stimolo capace di far evolvere in maniera inversa tante criticità, materiali e morali, che attanagliano ancora, in questi nostri tempi, il nostro sfortunato quartiere... 

Chi viene ricordato non morirà mai!

Per illustrare la luminosa figura di questa semplice ragazzina, e il contesto storico nel quale si è verificato l'episodio, prenderemo più volte in prestito il racconto scritto dalla sua insegnante alla scuola elementare "Torquato Tasso", Giovanna Altamura, che la tenne molto a cuore tra le sue alunne più care, e l'ha immortalata nella sua novella: "Dove passò lo straniero", contenuta nel libro "La rivolta dell'umanità e altre novelle",  Gastaldi editore" e anche lo scritto del libretto di Innocenzo Davide: "Giglio Insanguinato" .

Giuseppina Bianco, nacque nel gennaio del 1927, a Piscinola, allora frazione del Quartiere San Carlo All'Arena, nella masseria Delle Donne. La sua era una famiglia numerosa, i cui genitori, Andrea e Teresa, e i numerosi fratelli piccoli, si dedicavano con sacrificio al duro lavoro nei campi.
[...] "Era una fanciulla buona, senza nulla di eccezionale, semplice e mite, modesta e bene educata come tutte le fanciulle del paese, religiosa, senza smanie, studiosa per quel tanto che le permise di ottenere la licenza elementare, per poi dedicarsi alle cure della famiglia e della terra come quasi tutte le contadinelle del luogo, presto spose e prolifiche mamme".
Scuola Torquato Tasso, foto anni '30
Giuseppina era molto pia e devota, dedicava spesso fioretti alla Madonna e frequentava la cappellina del Sacro Cuore durante le funzioni del mese di maggio; sovente si recava a piedi, con altre amichette, nel convento di Pianura, per visitare delle amiche suore. Spesso provava tristezza nel lasciarlo, per far ritorno a casa...
"Giuseppina, se avesse potuto, avrebbe scelto proprio quella vita, ma sapeva che la numerosa schiera di fratelli e delle sorelline avevano bisogno di lei, delle sue cure, e poi c'era la terra, la "loro" terra, che non poteva essere privata dell'opera delle sue braccia forti".
Spesso si confidava con la sua maestra, forse sua unica confidente, di quel sogno, quel desiderio segreto, dolorosamente soppresso, proprio per pensare alla sua famiglia. Concludeva le sue confidenze, con delle espressioni a lei abituali: "Non importa, non fa nulla"...
Giovanna Altamura descrive con molto realismo, i luoghi e il sacrificio che ogni giorno Giuseppina doveva compiere per recarsi alla scuola Torquato Tasso, attraversando impervie strade, che allora congiungevano le masserie ai confini con Mugnano, con la piazza di Piscinola:
"Era davvero una cara fanciulla, così come era stata una scolaretta tra le più care, affettuosa, garbata, allegra ma composta, che giocava e rideva con faciltà, ma senza abbandonarsi, mai, a scompostezza di giuochi. 
Per andare a scuola doveva fare, come tutti i bambini delle masserie lontane, un lungo cammino, attraversando una "cupa", stretta tra le terre, ma che accorciava di molto la lontananza. Giungeva a scuola con gli zoccoletti impolverati, con il grembiulino nero, diventato grigio, specie nei tempi di siccità, con i capelli disordinati dai lunghi rami dei rovi spinosi dei quali son fatte le siepi, ma le manine forti e scure, tenevano sempre un mazzolino di fiori colti lungo la via, o una mela, o un pugno di noci verdi e tenere ancora, da offrire alla maestra. E si scusava <<di non essere pulita - come dice lei, signora maestra - perché quella strada era così sporca e infangata e polverosa, che anche ogni attenzione, non era possibile giungere a scuola pulita come era sortita da casa>>".
Qualche volta cartella e cestino erano finiti a terra, per via, ed allora tirava fuori il grosso fazzoletto quadrettato, che la mamma le ficcava nella tasca del grembiule di scuola, e si metteva, svelta svelta, a pulire tutto, abituata a tenere tutto in ordine anche nella rustica semplice sua casa".
Giunse la terribile guerra, l'occupazione tedesca, i numerosi bombardamenti eseguiti dalle truppe angloamericane... Molti uomini, padri di famiglie numerose, furono mandati a combattere su altri fronti di guerra; in tanti furono deportati e in tanti resi prigionieri e trattenuti nei lager tedeschi o russi. Anche il padre di Giuseppina, Andrea Bianco dovette lasciare la sua numerosa famiglia per la guerra e anche lui fu fatto prigioniero.
"La guerra tremenda aveva portato i suoi lutti e le sue rovine anche laggiù, nel piccolo borgo tranquillo, e quando gli uomini dovettero lasciare la casa e la vanga, per il fronte ed il fucile, le donne, come tutte le donne d'Italia, si sostituirono ad essi, presero nelle mani, dure e forti gli arnesi della terra e continuarono, in silenzio, come sempre, il lavoro, senza recriminazioni né soste, bagnando, nei momenti più duri ed incerti, con le loro lacrime, le zolle dissodate e seminate con le loro mani. Le aiutavano i bambini, dimentichi dei trastulli, fatti adulti dalla necessità e dal dolore,...".
Truppe anglo-americane nei pressi del Museo Arch. Nazionale, in via Pessina
Fu la volta dell'arrivo in città delle truppe di "liberazione" angloamericane, che oltrepassando il Vesuvio, costrinsero il divenuto nemico germanico a ripiegare verso Cassino, sulla linea Gustav... 
Ma per questo territorio i guai  erano appena iniziati...
"Il paese era stato trasformato in sede di accampamento per i lerci marocchini del generale francese Jouè, reduci dalle bravure di Esperia e le donne avevano paura. Non osavano più andare fuori sole, nemmeno di giorno, nemmeno per andare in chiesa, e si raccoglievano nella minuscola cappella votiva dedicata al Sacro Cuore, in piena campagna".
Gran parte delle campagne dello Scampia, poste a ridosso della linea ferroviaria della Piedimonte d'Alife, furono scempiate dalla loro secolare quiete e rese improvvisati campi militari.... 
Terra sfortunata questa, che non ha avuto mai pace, anche nei tempi recenti...!
"Gli attendamenti dei semiselvaggi esseri strani avevano invaso le terre, e si allargavano nella campagna sconvolta, nella quale i secolari noci erano stati spezzati e divelti, le viti strappate, e la terra coltivata calpestata, battuta e trasformata in campo di manovra per autocarri, oppure in attendamenti e cucine".
Le donne, specie quelle sole, abitanti nelle lontane masserie erano le più indifese, e si organizzarono come potevano per un mutuo soccorso...
"Si davano coraggio, riunendosi a gruppi quando dovevano allontanarsi dalle immediate vicinanze di casa, e non rimanendo mai isolate nel lavoro. 
Sotto le ampie gonne ciascuna celava l'affilato falcetto, tagliente e leggero, che come arma di difesa non perdonava". [...] Nessuno degli afri maleodoranti riuscì a toccare una sola donna o fanciulla del piccolo borgo assolato. Piuttosto morire che cadere nelle mani di quegli infedeli che sputavano quando passavano dinnanzi alle chiese".

L'episodio dell'eccidio di Giuseppina Bianco avvenne, il 17 maggio del 1944, quando la ragazza era dedita, insieme alla mamma e alcuni fratellini, al lavoro di diserbo del grano nel suo piccolo podere, situato non lontano dalla masseria Epitaffio, dove c'era una cappellina (segue nella seconda parte).

Salvatore Fioretto 

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martedì 2 giugno 2015

Bike and passion...! La bella storia del ciclismo a Piscinola e nell'Area Nord di Napoli!

Se per il basket, per il pugilato e per la corsa campestre, sono in tanti a sapere la grande passione e l'antica tradizione sportiva detenuta da questa antica comunità piscinolese, poco o nulla invece si conosce dell'uguale nobile tradizione sportiva che tanti giovani piscinolesi e non, hanno esercitato nei decenni trascorsi per le "due ruote", vale a dire per la disciplina sportiva del ciclismo su strada!
Tappa a cronometro a squadra a Secondigliano, anno 1932
Piscinola, negli anni del dopoguerra, è stato uno dei centri abbastanza famosi tra le località campane a organizzare e disputare tornei di ciclismo su strada di una certa importanza, attirando corridori e tifosi da ogni parte della Regione e anche da fuori Regione. Lo stesso possiamo dire anche per Marianella e per Secondigliano.
Senza trascurare il fatto che le strade statali e provinciali adiacenti sono state sedi di importanti tappe del Giro d'Italia, che aveva come partenza o arrivo la città di Napoli.
Giro alla Doganella, anno 1932
Infatti spesso le tappe di questo torneo si snodavano per via Roma Verso Scampia, il Corso Secondigliano, per Capodichino e per la Doganella, con arrivo previsto allo Stadio Albricci nell'Arenaccia. In tali circostanze tanti erano i ragazzi del territorio che si recavano a piedi, per i campi, per raggiungere la strada provinciale passante per Scampia e tifare quindi i propri beniamini: Bartali, Coppi, ... 
Altro giro importante che interessava il territorio era il Giro della Campania, che spesso prevedeva tappe che interessavano le strade di Secondigliano, Scampia, Chiaiano, Miano, Capodimonte e i Colli Aminei.
Corridori napoletani della U.S. Internapolis
In tantissimi, poi, erano gli appassionati a seguire con entusiasmo le cronache delle tappe del Giro d'Italia e del Tour de France trasmesse alla radio, spesso commentando gli episodi accaduti, con amici e altri sportivi, la domenica mattina, seduti al tavolino di un bar, gustando un buon caffè...
Qui a Piscinola si disputò per diversi anni il torneo della Coppa Adolfo Leone, che era organizzato da un gruppo di volenterosi e appassionati, che si riunivano nel palazzo Chiarolanza, i loro nomi erano: Ferdinando Sica, Enrico Sica, Dante Palladino, Gennaro Sarnacchiaro e Vincenzo Esposito, a questo circolo sportivo aderirono tanti giovani ciclisti del quartiere e anche dei quartieri cittadini vicini. Vincenzo Esposito (padre del dott. Natalino Esposito) ne fu anche presidente, per diversi anni. La tappa ciclistica del giro "Adolfo Leone" si svolgeva prevalentemente tra Piscinola, la Pigna, Pianura e Qualiano, con ritorno e arrivo previsto a Piscinola. Anche se dobbiamo dire che il giro fu vinto una volta sola da un piscinolese, che si chiamava Sabatino Cascella. Il direttore di gara era Dante Palladino. Tra i corridori ricordiamo: Salvatore Bianco, Gennaro Abatiello, Gennaro Giordano, Raffaele Riccio e Salvatore Palladino; di quest'ultimo, che abbiamo conosciuto, tracceremo il suo particolare profilo sportivo.
Nato a Piscinola nel 1934, Palladino disputò diversi tornei regionali e anche fuori regione, come ciclista esordiente, per un arco di circa sette anni. Salvatore militò anche tra le fila della squadra ciclista del Lepor Casoria, ottenendo apprezzabili piazzamenti in tante tappe e giri. Vinse, tra gli altri, il torneo di Grumo Nevano e due volte quello della città di Casandrino. Disputò anche le semifinali del campionato italiano, nella "Squadra B", anche se poi, pur vincendo la selezione, la "Squadra B" non fu ingaggiata dalla federazione al torneo nazionale... preferendo stranamente quella perdente...!
Giuseppe Coppola (*)
Un altro grande organizzatore dei tornei di ciclismo a Piscinola fu Vincenzo De Lise, detto 'O Guardiano, che nel 1955 impiantò in piazza B. Tafuri un circolo sportivo chiamato "Rinascente Piscinola", che era affiliato alla U.V.I. (Unione Velocipedistica Italiana). Vincenzo organizzava con cadenza annuale il torneo della "Coppa Piscinola", a cui partecipavano molti ciclisti. Tra i corridoi piscinolesi di quel periodo c'è da segnalare anche Avolio Paolo, vincitore di diverse gare disputate nel comprensorio. Il torneo aveva una tappa lunga quasi 120 km, con percorso che si snodava tra Piscinola, Chiaiano, Marano, Qualiano, Montagna Spaccata e ritorno a Piscinola; con arrivo previsto in rettilineo nella zona Madonna delle Grazie. Dopo qualche tempo la tappa divenne cittadina, con doppio percorso tra Piscinola, Capodichino, Capodimonte, Colli Aminei, Cappella Cangiano, Chiaiano e Piscinola.
Il gruppo sportivo piscinolese e supporters "Adolfo Leone", in una gara a Sparanise, anno 1950
Significativa era la partecipazione di atleti provenienti dalla provincia di Caserta e altre località della Regione Campania. La gara era nota per la sua durezza, per i sostenuti dislivelli, con strette curve; lunga quasi 80 km, prevedeva due giri e una volata in discesa di 4 chilometri, fino al traguardo di Piscinola. 
Registriamo una cronaca avvenuta al giro dell'anno 1960. In quel torneo era dato per vincente il corridore originario di Alvignanello, frazione di Ruviano, che si chiamava Giuseppe Coppola, giovane promettente atleta, che aveva tutto il sostegno e il tifo dei suoi compaesani, giunti in molti a Piscinola per sostenerlo nell'impresa. 
Giuseppe Coppola e Luigi Del Buono, 1963 (*)
Correva insieme ad altri due suoi conterranei: Luigi Del Buono e Salvatore Russo. Questi giovanissimi, pieni di speranza, partivano dal nulla, per inseguire un sogno ritenuto da tanti compaesani praticamente impossibile... Tra i corridori c'era anche Carapella e De Novellis, nonchè l'intera rosa dei corridori piscinolesi della Rinascente.
Verso l'ultimo giro della corsa ci fu uno scatto a tre di Carapella, De Novellis e Coppola, ma poi Coppola prese il sopravvento nel rush finale, proiettatosi verso l'ambito traguardo, quando mancavano poco più di quattro chilometri alla fine... Così perdurava la situazione in testa e il Coppola sentiva già suo l'ambito trofeo, ma non aveva fatto i conti con la sfortuna, sempre in agguato per un corridore...! Quando mancavano solo due chilometri al traguardo, purtroppo, accadde che due motociclette uscendo da un incrocio sbarravano la volata al traguardo del sicuro vincitore, spedendolo direttamente al pronto soccorso del Cardarelli..., con la prognosi di frattura alla clavicola e quaranta giorni di ingessatura, immobilizzato con tanto di busto di gesso. Coppola arrivò al nosocomio privo di sensi e, quando rinvenne, gli fu difficile accettare la disfatta, senza che questa fosse stata da lui stesso determinata. Riuscì per fortuna a superare il brutto momento e dopo sei mesi era di nuovo in sella a sognare altre avventure con le due ruote...
Nel 1962, la tappa del Giro di Piscinola, con 24 corridori partecipanti, tra cui Cristiano, Martino e Madonna, fu vinta invece dall'altro corridore di Alvignanello, Luigi Del Buono (*).
Partenza della gara ciclistica Piscinola, organizzata dalla "Rinascente" di Vincenzo De Lise, 1960
Anche Pierino De Lise, soprannominato come il padre 'O guardiano, negli anni 70, fondò nei locali del palazzo Chiarolanza il circolo  sportivo chiamato "Motta", organizzando e partecipando a tornei di ciclismo provinciali e  regionali, con una propria squadra. 

Gruppo di corridori del "CSI Piscinola" in una tappa di allenamento, anni '80
Alcuni dei nostri atleti divennero nella maturità importanti dirigenti sportivi, come Sabatino Cascella che fu per molti anni giudice di gara e Gennaro Giordano, che fu un buon allenatore di Basket.
Nel 1970, come affiliati C.S.I., la famiglia De Lise organizzò anche un torneo di ciclismo, intitolato Coppa Chiarolanza. 
Nell'anno 1982, dopo essere stato allievo del CSI di Piscinola, di Pierino de Lise, vinse a Falciano del Massico (CE), il Campionato regionale, categoria dilettanti (di seconda), il corridore piscinolese Nicola Palladino, appartenente alla squadra sportiva De Maio di San Giovanni.
Giuseppe Iovine, erede di una grande tradizione sportiva
Anche Marianella organizzava in quegli anni un torneo di ciclismo, messo in piedi dall'Associazione cattolica S. Alfonso, il cui presidente si chiamava Domenico Todaro. L'organizzatore sportivo era Ciro D'Aniello. Tra i suoi corridori ricordiamo Giovanni Ciaramella. Altro bravo corridore piscinolese fu Vittorio Avolio.
Dell'attività sportiva della famiglia De Lise ritorneremo con un apposito post dedicato.
Oggi tanti giovani e meno giovani coltivano nel nostro quartiere questo sport a livello amatoriale (ricordiamo l'amico Iovine Giuseppe) e ancora tanti giovanissimi si affacciano a questa antica tradizione sportiva del territorio, sperando che in un imminente futuro sia ripresa e valorizzata anche a livello professionale.
Salvatore Fioretto 

(*) Alcune notizie di cronaca e le due foto sono state tratte dal libro "La bella favola dei tre compari - Piccola storia di paese", scritto dal dott. Giovanni Casaura, ed. R.E.I., anno 2014.

Si ringrazia per la gentile collaborazione: Salvatore e Nicola Palladino, Pierino de Lise, Luigi Sica (di Ferdinando), Avolio Paolo, Gerardo Ciccarelli e Ferdinando Iannicelli. 

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Giro per il Viale dei Colli Aminei, anni '60 (dall'archivio fotografico Mattozzi)