sabato 4 aprile 2015

Come Francesco...padre Nicola Frascogna (1^ parte)

La vita e il sacrificio dei semplici sono dei grandi esempi per i saggi e per coloro in cerca della verità, ma sono anche uno scandalo per gli stolti e i miseri di cuore... Tuttavia il loro esempio genererà sempre frutti ubertosi e copiose opere di carità per il prossimo...
Con questo pensiero desideriamo introdurre la figura di un figlio di questa terra, nato nella vicina Mugnano, ma che ha frequentato tante volte Piscinola, dove ha anche concelebrato la Santa Missione comunitaria: ci riferiamo al padre Nicola Frascogna, sacerdote missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME).
Nicola Frascogna nacque a Mugnano di Napoli, il 15 settembre 1916, da Antonio e Agnese Gargiulo. Suoi fratelli furono Gennaro, Carmela e Maria. Rimase presto orfano di padre, quando aveva appena sei anni.
Dopo le scuole elementari, nel 1927, si iscrisse presso la scuola comunale di Giugliano per iniziare la "prima tecnica". Ma già al primo anno del corso di studi maturò in lui il proposito di farsi missionario. Fu incoraggiato nel progetto di vita dal parroco di Mugnano dell'epoca, il compianto mons. don Salvatore Cavallo, che tanto promuoveva l'opera missionaria realizzata a Ducenta dal padre missionario Paolo Manna (oggi Beato).
Il giovane Nicola entrò, quindi, nel Seminario del Sacro Cuore di Ducenta, nel dicembre del 1928; e dopo i primi quattro anni di studi passò nel 1933 ad Aversa, per compievi l'ultimo anno del Ginnasio.
Nel 1934 fu trasferito presso la casa apostolica del PIME di S. Ilario (Genova) per trascorrere l'anno di noviziato e per seguire il primo corso di Filosofia. Dal 1935 al 1936 seguì altri due corsi di Filosofia a Monza, mentre nel 1937 frequentò a Milano il corso di Teologia.
Fu ordinato sacerdote nel duomo di Milano, dal celebre cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, il 6 agosto del 1939, festività della Trasfigurazione (SS. Salvatore). 
La prima messa solenne Nicola Frascogna la celebrò poco dopo nella sua Mugnano; ma dovette presto ritornare a Milano, per completare l'ultimo anno degli studi teologici.
Dal 1940 al 1943 fu insegnante al ginnasio della casa apostolica del PIME a Treviso. 
Quando, nel 1943, l'Istituto di Ducenta divenne sede della Regione Meridionale del PIME, a Nicola Frascogna fu assegnata la cattedra di Teologia. 
Tra il 1950 al 1951 si dedicò alla predicazione nelle Sante Missioni al popolo volute da P. Manna, tra cui anche in quella tenuta presso la comunità di Piscinola. 
Dal 1951 al 1953 fu rettore del seminario teologico del PIME di Aversa. 
Proprio nell'estate del 1953 gli fu comunicata la sua destinazione, che fu per la missione di Vijayavada in India. Ma dovette aspettare il successivo mese di ottobre per la "consegna del crocefisso" dalle mani del vescovo, segno del mandato ricevuto di "andare, predicare, battezzare, curare".
Prima di partire volle salutare la comunità di Mugnano, radunata nella chiesa Parrocchiale di San Biagio, nella quale fu celebrata una Messa di commiato, presieduta dal cardinale di Napoli, Marcello Mimmi.  
Partì da Genova il 5 novembre del 1953, con il piroscafo "Onda", che approdò dopo circa un mese nel porto di Bombay, il 7 dicembre successivo. Riuscì a raggiungere la méta assegnata, la cittadina di Vijayavada, con un altro missionario, dopo due giorni di un estenuante viaggio in treno, l'11 dicembre successivo. Fu accolto dal vescovo Ambrogio Battista, con queste parole: "La missione ha ora una popolazione di 4 milioni di anime di cui oltre settantamila sono già cristiani. Molti villaggi si convertirebbero, se potessi dar loro un missionario. Questa è l'ora del soffio dello Spirito Santo per la nostra diocesi. Ma temo che essa passerà invano, perché non ho missionari sufficienti". Il presule sottolineò, poi, che i missionari in suo affido passavano a quattro, ma erano ancora insufficienti per compiere l'evangelizzazione...
Padre Frascogna si mise subito a lavoro per la sua missione e, negli anni che seguirono, con zelo apostolico e con grandissimo spirito di sacrificio realizzò moltissime opere, tra scuole, lebbrosari, chiese, conventi e orfanotrofi e, ancor di più, esercitò con passione il suo ministero sacerdotale, convertendo neofiti e celebrando i sacramenti. 
Nel 1959 fu nominato capodistretto a Bhimavaram.
Molti furono gli amici che dall'Italia lo sostennero e aiutarono i suoi progetti, con offerte in denaro e con aiuti di ogni genere, tra questi il più zelante e assiduo fu sicuramente il parroco della chiesa del SS. Salvatore di Piscinola, mons. don Angelo Ferrillo, assieme a tutta la comunità piscinolese, che nel 1960 vollero stipulare un vero e proprio gemellaggio con l'opera missionaria in India, impegnandosi a donare una retta fissa mensile. Con il loro aiuto padre Frascogna riuscì a realizzare molte chiesette e tante altre opere di carità, in vari punti del distretto indiano a lui affidato. Ma della amicizia e del gemellaggio spirituale tra padre Nicola Frascogna e la comunità piscinolese parleremo nella seconda parte del post, che pubblicheremo nelle prossime settimane.
Nel 1963 iniziò l'assistenza ai lebbrosi con il "lebbrosario volante"... Per raggiungere i suoi lebbrosi, sparsi nei villaggi della sterminata regione affidata, era costretto a spostarsi con fatica, sia a piedi e sia facendo uso di un vecchia bicicletta, difficoltà aumentata per la presenza delle suore Missionarie dell'Immacolata che sovente l'accompagnavano, ma padre Frascogna riuscì a rimediare a questo problema procurandosi una jeep, grazie all'aiuto di alcuni amici americani. La vettura fu da questi generosamente trasformata in una specie di autoambulanza, ben equipaggiata con le attrezzature mediche e in grado di trasportare i missionari e le missionarie nei villaggi più lontani e dove c'erano i malati più gravi, bisognosi di cure. Per questo motivo che la jeep fu chiamata il "lebbrosario volante"!
Nello stesso anno 1963, padre Nicola Frascogna aprì l'ospizio della SS. Trinità, per l'assistenza degli ammalati di Mogalturu.
Nel 1969 comprò un appezzamento di 1200 metriquadrati di terreno, nella periferia della cittadina di Viravasaram, per allestire un accampamento provvisorio capace di accogliere i lebbrosi che non potevano più camminare e quindi poter chiedere l'elemosina. Il centro fu realizzato con  capanne di paglia e fango. Nel recinto furono scavati due pozzi per fornire l'acqua potabile ai quaranta lebbrosi, che nel frattempo si erano lì rifugiati. Assicurò anche un piatto di riso per il loro sostentamento giornaliero.
Padre Frascogna dovette presto lottare anche e soprattutto contro i pregiudizi dei cittadini e contro le autorità che volevano i lebbrosi lontano dai loro centri abitati, per paura di essere contagiati; lui non si arrese mai e quando la battaglia si preannunciava già persa, si affidò con fiducia alla Provvidenza, e l'aiuto non tardò a venire...
Intanto, sempre con aiuto dei benefattori, aveva acquistato altri due piccoli appezzamenti di terreno, siti in aperta campagna, a Gonupundi e a Srugavruksham, ove istituì due centri per la raccolta di circa 200 lebbrosi. Gli aiuti continuavano ad arrivare dagli Stati Uniti e dall'Italia e presto le capanne di paglia e fango furono sostituite con casette in muratura e tetti in lamiere zincate. Per il sostentamento della comunità, padre Nicola lanciò un appello "Adotta un lebbroso con 200 lire al giorno" e la risposta non tardò a venire, infatti in molti risposero con slancio di generosità, attraverso il PIME, con numerose offerte, molte provenienti da Napoli, che a distanza di un anno furono moltiplicate.
Nel 1973 iniziò la campagna del piatto di riso per sostenere i lebbrosi. 
Nel 1976, padre Nicola Frascogna aprì, nel villaggio di Vegavarum, la "Casa P. Manna", un centro destinato alla cura e all'assistenza dei figli dei lebbrosi. L'opera era estesa su dodici ettari di terreno, comprendente anche una chiesa, un refettorio, una casa per il medico e un conventino per suore. Il centro, che si componeva di diversi reparti, fu dato in gestione alle Missionarie dell'Immacolata. L'impresa fu sostenuta da una comunità di Avellino, raccogliendo ben quattro milioni di lire dell'epoca... racimolati attraverso convegni, conferenze, dibattiti, mostre d'arte, concerti e visite alle parrocchie. Alcuni anni dopo il centro fu ampliato, con la costruzione di un reparto dedicato all'assistenza delle bambine, grazie al contributo della parrocchia del S. Cuore al Corso V. Emanuele di Napoli.
Nel 1979 Frascogna celebrò nella Casa Paolo Manna, "l'Anno internazionale del bambino", una ricorrenza indetta dall'ONU. Durante le cerimonie organizzate per la circostanza, le bambine e i bambini ospitati nei vari centri si esibirono in danze, canti e scenette artistiche.
Il Padre realizzò anche un'alta cortina di recinzione per proteggere il suo villaggio contro il continuo depredamento dei lebbrosi, da parte dei cosiddetti Mutragiolu: l'opera fu realizzata grazie all'offerta di un benefattore di Meta di Sorrento.
Chiesa Parrocchiale di S. Biagio a Mugnano, facciata
Prestò però la sua malferma salute iniziò a segnare il passo e ad aggravarsi, infatti nel 1980 fu sottoposto a cure per il diabete e per l'instaurarsi di una miocardite acuta. Nel 1981 fu ricoverato nell'ospedale di Bombay per l'aggravarsi della situazione clinica, in attesa del rientro definitivo in Italia. 
Padre Nicola Frascogna, sentendo la sua fine approssimarsi, non volle più tornare in Italia. Chiese di morire in terra di missione e di essere sepolto tra i suoi cari lebbrosi.
Morì nel piccolo ospedale di Versova, gestito dalle suore Missionarie dell'Immacolata di Bombay, il 20 maggio 1981 e fu dapprima sepolto nel cimitero di Gunadala, ove già riposavano altri missionari del PIME e poi successivamente riposto tra i suoi cari lebbrosi.
Il suo ultimo desiderio era stato così esaudito...
Alla comunicazione della scomparsa di padre Nicola Frascogna, così scriveva il padre Superiore Regionale, P. Vivenzi: "...Nonostante che soffrisse molto non l'ho mai sentito una volta lamentarsi per le sofferenze. Il suo pensiero erano i suoi cristiani, i suoi lebbrosi. Quante volte parlava di loro, delle loro sofferenze, specialmente quando vaneggiava. 
Ne ho assistiti diversi di sacerdoti, ma un'anima come la sua, preoccupata solo del bene delle anime, e dei suoi fedeli non l'ho mai incontrata.
Tutta la sua vita, le sue forze sono state usate solo per il bene delle anime, e così ha voluto finire i suoi giorni...".
Nella presentazione del libro biografico "Come Francesco", scritto da Ferdinando Germani, il cardinale di Napoli, Corrado Ursi, così scriveva sul missionario di Mugnano: "Sentì l'ansia dell'evangelizzazione, diede l'abbraccio ai lebbrosi, costruì il tempio di Dio in molti villaggi, suscitò la cooperazione tra le Chiese".                                                        (Fine prima parte)

Salvatore Fioretto 

Si ringraziano calorosamente i responsabili del PIME di Ducenta e di Roma per il sostegno e il generoso aiuto fornitoci durante il lavoro di ricerca della documentazione, inerente la vita di Padre Nicola Frascogna.

Le foto sono di proprietà del PIME e sono contenute nel libro "Come Francesco" di Ferdinando Germani, ed. PIME, anno 1981, dal quale sono state tratte anche le notizie biografiche. E' vietato copiare e utilizzare le foto senza aver ricevuto l'autorizzazione. 

(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

La zona dell'India dove era situata la terra di missione di padre Nicola Frascogna

lunedì 30 marzo 2015

Un personaggio, un artista: Salvatore Nappa

Una recente foto di S. Nappa con lo scrittore Imperatore, alla Biblioteca Severino
Questo territorio ha dato i natali a tanti bravi artisti, che lo illustrano nei vari campi: nella letteratura, nella musica, nel teatro e nello sport. Un grande artista in questi ultimi tempi sta dando il massimo della sua creatività e composizione, sia nel teatro che nella musica e nella letteratura, parliamo di Salvatore Nappa, che vive tra Piscinola e Marianella, luoghi a lui cari.
Salvatore ha svolto con passione e talento il suo attaccamento alla musica e alla composizione letteraria e teatrale, infatti nella sua lunga carriera artistica ha prodotto e diretto diversi lavori, collaborando con importanti personaggi del mondo del teatro, della canzone e del cinema campano e non.
Locandina dello spettacolo "Per amore del mio popolo"
Tra le sue opere ricordiamo il bel lavoro scritto con il suo amico Luigi Sica, dal titolo "L'albero dei cento piani". Tratta da questo lavoro, la fiaba "Il mago nel pozzo" è stata pubblicata nel 2004 e successivamente rappresentata per due anni nel corso della rassegna annuale del Maggio dei Monumenti a Piscinola: "O_Maggio a Piscinola", negli stessi luoghi dove la fiaba era stata ambientata dagli scrittori.
La produzione letteraria registra due importanti lavori, nel 1989 "L'umana Bestia", ed. Delfino e, nel 1998, "Storia di Napoletana follia".
Bello il testo teatrale scritto nel 2007: "Klan-destini", del qual Salvatore Nappa ha curato anche la regia.
Salvatore ha scritto diversi pezzi musicali, tra i quali ricordiamo quello dedicato a Piscinola, dal titolo "Periferia", che esibì per la prima volta alla presentazione del libro "Piscinola, la terra del Salvatore", presso il "Caffè Letterario" del Centro Hurtato a Scampia, nel 2011. 

Negli ultimi anni la sua attenzione è stata dedicata ai problemi d'integrazione della comunità degli extracomunitari originari dell'Africa, che sono residenti in Italia e in particolare a Castelvolturno, realizzando diversi reportage. 
Locandine di "Neri di tutti i colori"

Nel 2005, Nappa ha messo in scena, presso gli spalti del Maschio Angioino, curando la regia, un reading di poesie, prose e musiche, dal titolo: "Neri di tutti i colori", del quale seguì anche un reportage televisivo della RAI al TG3.
Notevole eco di critica ha suscitato il film: "Non tutti i neri vengono per nuocere", scritto e diretto da Salvatore, girato tra Napoli e Castelvolturno, nel 2009, registrando significativi consensi di pubblico e di critica.
Nel 2010 scrive "La ballata delle anime perse" e "La mozzarella della legalità" con Don. Luigi Ciotti, dei quali firma anche al regia.
Altri lavori negli anni lo hanno visto impegnato insieme allo scrittore e attore Peppe Lanzetta.

La copertina dell'ultimo libro scritto da Salvatore Nappa: "Aldilà del mare"
L'ultimo libro scritto da Salvatore Nappa s'intitola: "Aldilà del mare" (libro di poesie in italiano e arabo + CD). Il libro è stato presentato al centro Hurtado di Scampia nello scorso mese di gennaio. Ha avuto seguito, poi, la partecipazione dello scrittore al 34° Festival Internazionale di Poeti a Tozeur, in Tunisia, ricevendo un premio e un attestato di riconoscimento dopo la presentazione del libro.
L'ultimo lavoro teatrale di Salvatore Nappa è il poema tragico dedicato al sacerdote don Giuseppe Diana, ucciso dalla camorra a Casal di Principe, dal titolo "Per amore dal mio popolo - il profumo della memoria", scritto insieme a Raffaele Sardo.


Salvatore Fioretto 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati agli autori, ai sensi della legislazione vigente) 


  




Premio e attestato ricevuti al Festival di Tozeur (Tunisia)
Salvatore Nappa


mercoledì 25 marzo 2015

Un medico molto familiare...! Il dott. Lapenna Giuseppe

Chi viene ricordato non muore mai...!
Quando una comunità ricorda, a distanza di 27 anni dalla scomparsa, un proprio "figlio adottivo", si può dire che questo rappresenta il massimo riconoscimento che possa essere conferito ad una persona che ha dato tutto se stesso per il suo lavoro, andando spesso al di là degli obblighi dettati dalla stessa professione, ben sapendo il significato di impegno sociale, diremo "missionario", assunto nell'esercitare l'attività di "medico di famiglia" nella stessa comunità di appartenenza, fino a diventare un emblema nell'inventario collettivo, paragonabile alla figura di un "benefattore", oppure di un "vecchio" amico di famiglia...!
Intendiamo qui ricordare e soprattutto celebrare in questo scritto, un grande medico, piscinolese di adozione, che ha per tanti anni assistito diverse generazioni del quartiere e anche fuori zona, parliamo del dottor Giuseppe Lapenna, che fu "medico delle casse mutue" a Piscinola, a partire dalla metà degli anni '50, fino alla sua scomparsa, avvenuta tragicamente nel 1988.
Piazza Bernardino Tafuri e l'ex edificio scolastico "Torquato Tasso"
Giuseppe Lapenna nacque nel 1925 da una famiglia benestante originaria della Puglia. Il padre Francesco fu un importante ufficiale dell'esercito, raggiungendo al culmine della sua carriera il grado di colonnello. Durante la seconda guerra mondiale l'ufficiale Lapenna fu trasferito a Piscinola, a prestare servizio presso la scuola Torquato Tasso, allora militarizzata: era infatti qui allocato il "10° Reggimento Automobilistico Autocentro" del Regio Esercito Italiano. Francesco Lapenna trasferì quindi a Piscinola la sua famiglia, abitando nel palazzo Grammatico, in un appartamento situato al primo piano, con affaccio su via del Salvatore e su piazza Bernardino Tafuri.
Chiesa del SS. Salvatore e palazzo Grammatico, anni '40
A Piscinola, Giuseppe trascorse gran parte della sua gioventù, e anche se in un periodo non proprio tranquillo, riuscì ad ambientarsi rapidamente, senza nessun problema. Con la fine della guerra, riprese il corso degli studi intrapresi, frequentando, dapprima il liceo classico nel centro cittadino e poi, una volta conseguita la maturità classica, si iscrisse all'Università di Napoli, alla facoltà di Medicina, dove conseguì la laurea in Medicina, a metà degli anni '50. Essere medici rappresentò un po' una tradizione nella famiglia Lapenna, infatti anche il nonno paterno di Giuseppe fu un valente medico. Ma la sua famiglia si distinse per le prestigiose cariche pubbliche coperte o per le fiorenti attività imprenditoriali: uno zio, ad esempio, fu direttore della Colonia Penale di Procida, mentre un altro zio fu un facoltoso armatore navale procidano.
Di Giuseppe Lapenna, medico di famiglia, si ricorda la sua travolgente simpatia, la sua umanità e soprattutto la sua generosità. Aveva un numero considerevole di assistiti e, nonostante questo, non si risparmiava mai nella sua professione, accettando di svolgere, al termine delle sue estenuanti giornate di ambulatorio medico, tutte le numerose visite a domicilio nel contempo prenotate. 
Tramonto dal palazzo Grammatico,  foto di S. Fioretto, 2013
Per raggiungere i suoi pazienti allettati, spesso era costretto a percorrere le vie più impervie, fino alle distanti masserie piscinolesi, spesso con le più avverse condizioni meteoriche. 
Preciso e accorto nella professione, dedicava anche ore per le visite, tanto, che era una sua prassi ricorrente terminare il suo giro di visite domiciliari a tarda sera, spesso fino e oltre le ore ventitrè. 
Il suo primo studio medico fu allestito all'interno del palazzo Grammatico, successivamente, agli inizi degli anni '70, fu trasferito al primo piano di uno stabile sito in via Napoli a Piscinola.
Tuttavia, al di là della sua professione e di essere un bravo medico, il dottore Giuseppe Lapenna si era integrato benissimo nella comunità piscinolese e sovente partecipava alla vita sociale, frequentando anche delle associazioni, addirittura si racconta che fu diverse volte membro di giuria del comitato per i festeggiamenti in onore del SS. Salvatore, per l'assegnazione dei premi alla gara pirotecnica che si svolgeva durante la festa.
Piazza B. Tafuri, composizione grafica di S. Fioretto
Molti ricordano ancora oggi l'entusiasmo e la positività che egli trasmetteva durante il suo discorrere ma, soprattutto, ricordano il suo saper essere una persona semplice e modesta, sempre alla portata di tutti; non faceva mai pesare il suo ruolo di medico e soprattutto quello di essere una persona facoltosa. 
Non ostentava mai atteggiamenti altezzosi, mettendo sempre tutti a proprio agio, soprattutto le persone anziane, i contadini e i bambini...
Le passioni della sua vita, oltre la professione medica e la famiglia, sono state la caccia, e la cura della campagna. Possedeva un appezzamento di terreno situato in una frazione dell'isola di Procida, presso il quale si "rifugiava" e trascorreva piacevolmente i fine settimana, assieme alla sua cara famiglia. Per tale motivo tutti i venerdì prendeva sempre l'ultima corsa del traghetto che da Napoli conduceva a Procida; mentre il lunedì, puntualmente, era sul primo traghetto diretto a Napoli, per raggiungere il suo studio in via Napoli a Piscinola e iniziare in orario il suo impegno settimanale.
Piazza Municipio a Piscinola. Cartolina anni '4o
Altra sua passione era il laboratorio di analisi cliniche; tutti erano a conoscenza che presso la sua residenza procidana aveva addirittura allestito un laboratorio di analisi privato e spesso lo utilizzava per eseguire alcuni accertamenti clinici urgenti ai suoi pazienti delle "casse mutue", senza chiedere compensi per tali prestazioni aggiuntive oppure differiva il loro rimborso, secondo le possibilità dei singoli... 
Diverse testimonianze ricordano che spesso il dottore Lapenna non faceva pagare le visite private e molte volte aiutava le persona bisognose, specie quei malati indigenti che avevano difficoltà a pagarsi le prestazioni sanitarie e le costose medicine. Per tale motivo gli fu coniato il nomignolo di "'o miedeco d''e puverielle"... altri tempi diremo oggi...!
E' stato amico di tutti quanti lo conoscevano, infatti tanti anziani, interrogati oggi, lo ricordano ancora con molta nostalgia e compianto. Fu anche grande amico del farmacista dott. Raffaele Chiarolanza e del cantante Nicola Mormone.
Edificio T. Tasso. Foto di Serena Russo, 2013
Il dottor Lapenna ha incoraggiato diversi giovani a intraprendere gli studi universitari, spronandoli e aiutandoli nei momenti di scoraggiamento e di difficoltà.
Una brutta sera di febbraio del 1988, a causa di un gravissimo incidente automobilistico, avvenuto sulla superstrada perimetrale di Chiaiano, la comunità di Piscinola fu privata di questo valente e generoso medico, amico di tutti, quando aveva soli 63 anni!
Alla commemorazione funebre, tenuta nella chiesa del SS. Salvatore a Piscinola, alcuni giorni dopo i funerali di Procida, partecipò commosso l'intero quartiere, in segno di attestato di ringraziamento per tutto quanto il dottore Giuseppe Lapenna aveva fatto per la comunità, e da allora il suo ricordo non si è mai affievolito, infatti in tanti raccontano ancora aneddoti legati all'amicizia con il dottore. Sono ancora oggi memorabili le divertenti battute che spesso pronunciava durante le visite allo studio o a casa, soprattutto quando alcune volte non rinunciava alla tentazione di accettare l'invito per una frugale e gustosa cena, offerta "a volo" dalle brave massaie piscinolesi di un tempo.

A conclusione di questo ricordo del dott. Giuseppe Lapenna, riportiamo una preziosa testimonianza scritta da Pasquale di Fenzo, in commemorazione del compianto medico, che fu pubblicata sulle pagine del giornale IlMattino di Napoli, qualche giorno dopo la sua scomparsa.
Salvatore Fioretto

"Napoli, 15/2/88 Spett.le IL MATTINO, "Lettere al Giornale"
Vorrei approfittare di questa rubrica, per ricordare un uomo che non è più fra noi: Dr Lapenna Giuseppe, Geppino per gli amici. Da 20 o 30 anni, o forse da sempre, per cinque giorni su sette Vi imbarcavate sul primo traghetto per Napoli e dopo una giornata a curare e consigliare i Vostri pazienti ritornavate a Procida con l'ultima partenza. La sera dell'8 febbraio s'era fatto tardi perché un'ultima, inaspettata, visita domiciliare Vi doveva portare incontro ad un tragico destino. Avete approfittato dello sciopero dei quotidiani per andarvene in silenzio, così come avevate vissuto. Esercitavate la Vostra Missione (non professione) di medico a Piscinola, dove il dopoterremoto ha fatto più danni dello stesso terremoto. In questo quartiere malato Voi eravate non un medico di famiglia ma “il medico di famiglia» si veniva da Voi non solo per farsi visitare ed eventualmente curare ma, soprattutto, per scambiare quattro chiacchiere con un vecchio amico. Proprio quello che mi accingevo a fare martedì 9 febbraio, quando arrivato al Vostro studio ho trovate uno scarno biglietto listato a lutto: "Chiuso per la morte del Dr. Lapenna". Non è giusto morire così, improvvisamente, specialmente se si pensa che la strada sulla quale siete rimasto vittima di un assurdo incidente (la maledetta Via Nuova Toscanella) ha già fatto registrare tre morti a meno di un anno dalla sua apertura. Caro Dr Lapenna quella sera a casa mia, come credo in casa di chiunque vi conoscesse, regnava uno strano silenzio; i bambini non facevano i capricci, e Voi sapete quanto questo fosse difficile, quando li dovevate visitare. Nessuno di noi aveva l'influenza, i piccoli non erano raffreddati e non avevano il mal di gola, ma mai come in quel momento sentivamo la mancanza del nostro medico di famiglia. Perché Voi eravate il nostro medico di famiglia praticamente da sempre. Ricordo quando mio padre Vi rincorreva per pagarVi la visita domiciliare (allora era così), e poi immancabilmente tornava indietro dicendo: non sono riuscito ad infilargli i soldi in tasca.. Altre volte si veniva da Voi con un dolore al petto pensando sempre al peggio, e spesso bastava il Vostro sorriso rassicurante per mettere tutto a posto. E quante volte invece la Vostra umiltà trattandosi di malattie più serie ci ha indirizzati da uno specialista. Ricordo una Vostra massima: “il medico generico che ti vuole curare una malattia seria lascialo perdere. E' già bravo se ti sa indirizzare da un giusto specialista”. Spesso, dopo aver visitato uno dei bambini la sera, poi passavate la mattina dopo per vedere come stava, senza neanche aspettare la chiamata. “Sono passato per prendere il caffè”, mentivate. E la giornata assumeva un sapore particolare, addolcita da quel caffè preso assieme a Voi.. “Portamela allo studio, ma non per visitarla, ti trattieni un paio d'ore: devo “sentire” come tossisce”. Dr Lapenna mi mancheranno molto lo nostro lunghe conversazioni. Riuscivate ad appassionarmi ai Vostri racconti di caccia, a me che la caccia non amo. Riconoscerei i Vostri figli senza averli mai visti, tante me ne avete parlato, erano il Vostre orgoglio, li seguivate costantemente, anche se non Vi allontanavate dal Vostro lavoro per più di dieci giorni all'anno. E immancabilmente in quei dieci giorni un mio bambino si ammalava; quante volte da Piscinola ho telefonate a casa Vostra a Procida e Voi pazientemente e con cortesia mi ascoltavate mentre Vi descrivevo i sintomi della malattia, poi più che una diagnosi formulavate un augurio di pronta guarigione. E tante volte è bastato. Il giovane Dottore che prenderà il Vostro posto ha bisogno di tanti auguri ed incoraggiamenti, per lui sarà difficile sostituirvi, per noi sarà impossibile dimenticarVi.
Pasquale Di Fenzo - Piscinola"

Si ringrazia l'amico Pasquale di Fenzo per averci fornito il testo della lettera pubblicata dal giornale IlMattino di Napoli e per aver autorizzato la sua pubblicazione in questo post. Si ringrazia inoltre il dottor Lanzuise Giuseppe per la preziosa collaborazione di ricerca condotta.
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati agli autori, ai sensi della legislazione vigente) 

Crepuscolo a Piscinola, foto di Ciro Pernice, anno 2014

domenica 15 marzo 2015

Piscinola, Secondigliano, Miano e Marianella: il giardino di caccia di Sua Maestà, il Re!


Carlo di Borbone
Carlo Sebastiano di Borbone, meglio conosciuto col nome di Carlo di Borbone, nacque a Madrid nel 1716 (era il figlio del re Filippo V di Spagna sposato in seconde nozze con la duchessa Elisabetta Farnese), fu in origine duca di Parma e Piacenza, con il nome di Carlo I, ma grazie all’abile diplomazia e alle intercessioni politiche messe in atto da sua madre, Elisabetta Farnese, riuscì, nel 1734, a diventare il monarca di una nuova e autonoma dinastia nel Regno di Napoli e di Sicilia; trono che resse fino al 1759, con il nome di Carlo di Borbone (o Carlo VII), quando dovette partire per la Spagna; chiamato a reggere quel Regno, per la prematura morte del fratellastro Ferdinando VI. In Spagna divenne Carlo III e rimase in carica fino alla sua morte, avvenuta a Madrid, nel 1788.
Carlo fu un sovrano illuminato, perché riuscì nel corso del suo breve regno napoletano a realizzare imponenti riforme e opere pubbliche, riportando il Regno di Napoli nel novero dei più importanti Stati d’Europa. Ma, oltre ai suoi pesanti impegni politici e di governo, Carlo aveva diverse passioni e la sua via è stata un continuo interesse, diremo quasi maniacale, nel coltivarle o praticarle, ricordiamo: la musica, la pittura, la scultura, l’archeologia, le porcellane, la seta, ma di più su tutte prevalse la caccia: la sua passione per eccellenza, passione che esercitava fin dalla gioventù, quando era ancora duca di Parma e Piacenza.
Reggia e Parco di Capodimonte visti da una foto aerea
Quando Carlo divenne Re di Napoli e di Sicilia, nel 1734, diede subito l’incarico di far realizzare alcuni siti dove poter praticare questa sua “innocente passione” venatoria insieme alla sua vasta corte…. Il primo sito ad essere realizzato fu proprio il Real sito di caccia di Capodimonte, pensato per prima forse per meglio sfruttare questo enorme polmone verde sito alle porte della capitale e vicinissimo alla Reggia, dove risiedeva la Sua corte.
Il Real sito di caccia di Capodimonte fu completato in soli quattro anni e comprendeva anche una residenza per rinfrancare i partecipanti (la corte reale e gli ospiti), nel corso delle faticose scorribande di caccia. Ben presto, però, maturò in Carlo il progetto di una grande reggia da realizzare a Capodimonte, per dare una degna sede alla ricca Collezione Farnese, ricevuta in dono da sua madre Elisabetta. L'incarico per la costruzione della Reggia venne affidato a Giovanni Antonio Medrano, mentre la parte antistante alla futura Reggia fu attrezzata con un giardino all’inglese, progettato dal botanico Friedrich Dehnhardt.
Il Real sito di caccia di Capodimonte fu poi oggetto di imponenti lavori di perimetrazione, con innalzamento di una cortina di tufo, lavori che risultarono già ultimati nel 1736. Il Sito risultò sempre indipendente dalla Reggia e accessibile da questa solo attraverso la cosiddetta “Porta di Mezzo”.
Casina Vanvitelliana di caccia al Fusaro
Passarono altri anni, ed ecco che nel 1742 Carlo di Borbone affidò all’architetto Ferdinando Sanfelice l’incarico di progettare e organizzare l'enorme estensione del sito di caccia, in un parco per la corte. Nel nuovo parco sarebbero stati piantumati alberi pregiati, come Lecci, Tigli, Querce, Castagni e Olmi, ecc., e realizzati tanti viali, sentieri, larghi con fontane, statue e delle piccole architetture. All’opera di Capodimonte, oltre al Sanfelice, lavoreranno anche gli arch. Domenico Antonio Vaccaro e Antonio Canevari.
Nella parte settentrionale del parco fu costruito il Casino della Regina e in questa zona del giardino vennero piantumate piante esotiche, in modo da creare l’atmosfera migliore per l’edificio che era destinato ad ospitare i reali durante la caccia e le feste “private” dei vari personaggi che animavano la vita di corte; poco distante fu piantato anche un agrumeto.
Ai confini con il Cavone di Miano, poi, fu realizzata la Fagianeria, mentre un’altra zona fu delimitata e chiamata “Caccietta delli Beccafichi”, per la prevalente presenza di questa specie di uccelli.
Nella Fagianeria fu realizzato un edificio, denominato “Casa dei Fagiani forestieri”, in quanto destinato alla schiusa e al ricovero dei fagiani provenienti dall’estero (Cina, America, ecc.) e anche dei Pavoni. La caccia ai Fagiani era però quella prediletta da Carlo, infatti l’allevamento di questi volatili era molto praticato nelle varie riserve reali campane.
Carlo di Borbone con l'abito di Cavaliere dell'Ordine di S. Gennaro
Il Bosco di Capodimonte risultava per estensione, vegetazione e conformazione del territorio, ideale come sito di caccia e, poi, il contado circostante, disseminato di Casali, di campi, di pianure, di valloni e di colline, con acquitrini, canneti, torrenti e lagni, era il luogo ideale per poter sviluppare l’allevamento e la pratica venatoria.
Al completamento dei lavori, i numeri del Parco di Capodimonte erano imponenti, infatti presentava (come presenta ancora oggi), un’estensione di circa 134 ettari di verde, coltivati con diverse varietà e specie arboree, molte esotiche e rare (Qui sono rappresentate circa 400 entità vegetali, classificabili in 108 famiglie e 274 generi, di cui il 14% sono specie esotiche, quasi tutte impiantate tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento). All’interno del suo perimetro erano stati realizzati sedici edifici architettonici, tra residenze, casini, fabbriche per  artigianato, depositi e chiese, oltre a fontane, statue, dispositivi per la caccia, orti e frutteto (quest'ultimo chiamato Giardino delle Delizie). La Porta di Mezzo conduceva a un grande emiciclo, dal quale si apriva un ventaglio costituito da lunghi viali alberati. Queste scenografie naturalistiche, abilmente studiate dal Sanfelice e dagli altri architetti, con l'aggiunta di statue, di fontane e di altri elementi decorativi, conferivano al sito un tocco di originalità e di squisita raffinatezza, che esaltava e rendeva lustro alla corte, agli occhi dei visitatori stranieri. La diversificazione botanica del parco era scelta in relazione al tipo di caccia praticata dal re, per cui, a zone sistemate "a boscheto", con l'impianto di alberi ad alto fusto, come castagni, carpini, lecci ed olmi, si alternavano altre zone sistemate con bassi cespugli, con l'uso di essenze della flora mediterranea rappresentate dal Lauro, dal Mirto, dall’Olivella e da altre specie arboree; non mancavano poi acquitrini con rane e ampie distese a prato o in battuto. Completavano l'impianto del sito reale le aree coltivate per la produzione di alimenti per gli animali domestici e per la selvaggina, quest'ultimi erano allevati in appositi recinti e ricoveri. I prodotti orticoli e la frutta, ricavati anch'essi dalle coltivazioni presenti nel parco, erano utilizzati per le necessità della corte. 
Forse per il preesistente sito di caccia o forse per la densità della vegetazione lussureggiante, l’area verde di Capodimonte è stata sempre chiamata dai napoletani con il toponimo di “Bosco”.
Dipinto equeste del re Carlo
Non è da escludere che le battute di caccia si spostassero anche al di là del recinto del Bosco di Capodimonte, per interessare anche il contado e le campagne dei Casali posti all’interno del “Miglio” reale, come Miano, Piscinola e Secondigliano. Il Bosco di Capodimonte, farà poi parte di una moltitudine di siti di caccia che la dinastia reale dei Borbone di Napoli volle realizzare nel corso dei decenni successivi alla partenza di Carlo in Spagna, siti sparsi soprattutto tra il circondario di Napoli e di Terra di Lavoro; citiamo ad esempio: il parco della Reggia di Portici, il parco della Reggia di Caserta, il Lago di Agnano, la tenuta di Licola, Capriati al Volturno, la Tenuta degli Astroni, la real tenuta di Carditello, la Real tenuta di Persano, la Selva di Caiazzo, il Casino del Fusaro, il Casino di Quisisana (Castellammare), Mondragone, il Demanio di Calvi e altri siti reali ancora.
Questi siti non erano solo destinati ad essere luoghi per lo svago per la corte, ma furono anche utilizzati come delle vere e proprie aziende agricole o centri manifatturieri; essi rappresentavano una sorta di sperimentazione della nascente imprenditorialità, secondo le nuove idee illuministiche che incominciavano ad affermarsi ai tempi di Re Carlo. La produzione della seta a San Leucio, la pesca al Fusaro, gli allevamenti della Tenuta di Persano e gli allevamenti della Fagianeria di Caiazzo, rappresentano un validissimo esempio.
La selvaggina è stata sempre nei secoli scorsi oggetto di attività di bracconaggio e certamente quella di "proprietà reale" non poteva essere meno ambita e priva di attenzione...! Probabilmente, nei decenni successivi alla realizzazione del real sito di caccia di Capodimonte, la zona ad esso adiacente fu spesso imperversata da ladruncoli e da cacciatori fuorilegge che praticavano il bracconaggio e la caccia indiscriminata agli animali in transito per il real Bosco, alcune volte erano i nobili e gli aristocratici, proprietari delle tenute circostanti, a cacciare senza autorizzazione, ma spesso erano gli stessi contadini a catturare gli animali e gli uccelli, per difendere il raccolto dei loro campi oppure i loro allevamenti. Più volte re Carlo era stato costretto ad intervenire, emanando bandi e provvedimenti con sanzioni, indirizzati ai contravventori. Questi provvedimenti reali, per quanto severi, non avevano raggiunto l'effetto desiderato, e gli animali continuavano a scomparire...!
Ma ecco che nell’anno 1756 il Re Carlo passò a un’operazione di dissuasione più energica ed efficace, facendo disegnare una mappa e delimitando un’ampia area attorno al Bosco di Capodimonte, di raggio pressappoco un miglio, onde vietare qualsiasi attività venatoria illecita. Oltre a sancire il divieto (anche per scoraggiare i soliti distratti…), fece rendere visibile la linea di confine, apponendovi dei cippi dissuasori in pietra, posti con un certo intervallo, lungo le vie pubbliche e vicino ai monumenti e agli edifici.
Carlo di Borbone, statua nel Palazzo Reale di Napoli
L’Editto Reale, che è contenuto nella cosiddetta “Prammatica V”, del 20 settembre 1756 (che qui alleghiamo per intero), risulta essere un documento storico eccezionale, perché riporta una descrizione dettagliata di chiese, residenze nobili, osterie, masserie, strade regie e limitoni, presenti all’epoca dei fatti, spiegando chiaramente la successione di queste strutture, via via incontrate nel percorso e il nome dei suoi proprietari. Purtroppo non abbiamo trovato il grafico allegato, ma abbiamo eseguito una ricostruzione abbastanza attendibile su altre mappe, più o meno coeve.
Seguendo il percorso nel territorio di Piscinola, risulta che la confinazione divide l’abitato del Casale praticamente in due parti, anche se nel bando viene precisato che i Casali di Piscinola e quello di Secondigliano, insieme alle masserie e alle abitazioni rientranti in quella zonizzazione, erano da considerarsi esclusi da tale divieto. Interessante è la citazione della Chiesa del Salvatore e della Chiesa della Madonna delle Grazie, come rilevanze architettoniche di riferimento, sono anche citate la Cappella e il Palazzo de Luna, le masserie di Donna Romita, S. Giovanni a Carbonara e di S. Agostino Maggiore (detta "della Zecca"). Altro riferimento importante risulta essere il tenimento posto di fronte alla chiesa del Salvatore, che era denominato “Supportico dei PP. Gesuiti”.
Battuta di caccia sul lago Fusaro
Nel 1817, la Fagianeria di Capodimonte fu in parte trasformata da re Ferdinano IV per realizzare l’“Eremo dei Cappuccini”, mentre la restante parte della struttura sopravvisse fino al 1943, quando fu distrutta dai bombardamenti alleati.
Fino agli anni '50 del secolo scorso non era raro incontrare nel circondario del Bosco di Capodimonte, anche nei campi di Piscinola, alcune Volpi in fuga, oppure ammirare, sul bordo del muro del Bosco, i Pavoni che mostravano la colorata ruota, mentre ancora oggi qualche raro esemplare di Upupa, Barbagianni, Poiana o Civetta, sono i frequentatori di questo straordinario polmone di verde cittadino a Capodimonte.




Prammatica V (Pragmaticae edicta decreta interdicta regiaeque sanctiones Regni Neapolitani….) Anno 1756

 Siccome i molti, e diversi Bandi finora pubblicati per lo divieto di cacciare così nel Real Bosco di Capodimonte, come nel miglio di circonferenza che il cinge, non solo per gli equivochi sorti intorno alla circonferenza suddetta, ma per la varietà eziandio delle pene non hanno incontrata la dovuta ubbidienza, e vien tuttavia colà disturbata la caccia, ch’è riserbata all’innocente piacere della Maestà del Re N.S., così rimanendo i medesimi affatto aboliti, in esecuzione di più Sovrani ordini pervenuti a questa Superiore Delegazione della sua Real Casa, e  Corte promulghiamo questo Bando in istampa, che contiene non meno la precisa esattezza della suddetta confinazione disegnata eziandio, e circoscritta con termini di pietra, che la distinzione ancora delle pene dovute a contravveggenti.
Ricostruzione grafica della confinazione del "Miglio" con divieto di caccia
I.          Il giro della suddetta confinazione del miglio prende il suo cominciamento dalla Fabbrica del Reclusorio de’ Poveri, e proseguendo per la strada Regia alla Gabella degli Otto Calli, ed a Capodichino piega sulla sinistra della strada parimente Regia, che passando per mezzo le due Masserie l’una del Marchese Pollice a destra, l’altra di D. Francesco de Auxiliis a sinistra, mena a Secondigliano. Nell’ultima parte del qual Casale lasciandosi la suddetta strada Regia si volge per l’altra pubblica, il cui piegandosi sempre sulla sinistra s’incontra, la Masseria di Donna Romita, il Territorio del Monte della Misericordia, nel mezzo del quale territorio è il Limitone, che conduce diritto verso il Termine del Territorio de’ PP. Gesuiti, donde comincia, e continua l’altro Limitone, che conduce fino al Supportico detto de’ medesimi PP. Gesuiti rimpetto alla Parrocchia del Casale di Piscinola. Quivi rivolgendosi a sinistra, o sia verso Oriente si prende la strada che conduce alla Cappella della Madonna delle Grazie, dalla quale piegandosi a destra o sia verso Occidente s’entra nell’altra strada che conduce alla Casa con Cappella de Luna. Si prosegue quindi per lo Limitone che cominciando in faccia alla suddetta Cappella, passa per mezzo della masseria di San Giovanni a Carbonara, dalla qual s’imbocca nell’altro Limitone, che passa entro la masseria di Sant’Agostino Maggiore, e termina nel mezzo della strada innanzi l’Osteria detta del Sambuco, ove vedersi uno de’ termini lapidei apposti per disegnare la detta confinazione. Dalla suddetta strada si passa in un altro Limitone, che radendo la masseria del Principe di Belvedere giunge fino alla Valletta o sia il Cavone chiamato Saliscendi, e proseguendo verso la masseria del Marchese Valva, che rimane alla destra, indi l’altra di D. Cristoforo d’Onofrio, ch’è chiusa sulla sinistra, poscia la masseria di S. Giuseppe de’ Ruffi, ch’è sulla destra, s’entra nella strada pubblica, che conduce verso l’Osteria dello Scutillo, e continuando guida fino all’altra Osteria detta de’ Celsi o sia Taverna Nova. Dalla detta Taverna Nova si prende la strada, che passa innanzi a la cappella, e la Casa di D. Carlo Mauro, e si continua fino al principio del muro del Giardino di S. Vincenzo, e volgendo a sinistra si passa innanzi la porta maggiore della Chiesa di S. Gennaro de’ Pezzenti, indi si prende la strada, che mena alla Casa di D. Alesio Fasuli, dal portone della quale Casa la suddetta strada piega verso la Casa del Sarto Domenico Vicidomini, la quale rivolge verso la Chiesa di S. Severo. Dal largo, ch’è innanzi la quale Chiesa s’imbocca nel Vicolo, che diritto mena alle Case del Principe Salernitano, e dall’angolo delle medesime Case si passa nell’altro vicolo, che cala alla Casa di Andrea d’Andrea. Dall’angolo della quale casa si volge diritto verso la Casa, detta il Palazzo Cento Gradi, onde si entra nel Vicolo, che conduce fino alla Chiesa della Pacella, a cui succede l’altro detto la Scesa de’ Saponari, e poscia l’altro, che direttamente conduce fino alla porta della Chiesa di S. Maria degli Angioli. Quivi il confine vien dinotato dalla filza delle Croci che sono nel largo ch’è innanzi la suddetta Chiesa, in modo che quello spazio, che rimani fuori delle suddette Croci, sulla destra è libero. Secondo la direzione delle medesime Croci si cala alla strada  Regia,  si perviene al suddetto Reclusorio de Poveri, in cui viene a compiersi il di sopra cominciato giro del miglio.

Particolare del "Miglio" nei Casali di Secondigliano, di Piscinola e di Miano
II.       Il medesimo giro oltra dell’essersi confinato co’ termini di pietra, per chiarezza maggiore si è tutto disegnato col cammino delle Strade, e de’ limitoni, che vi s’incontrano, nel corso delle quali secondo il confine di sopra additato rimane sempre vietata la parte sinistra, libera, e sbandita la destra. In ispiega della quale generale regola, a troncare qualunque sotterfugio si dichiara, che rimangono fuori del divieto la Masseria del Marchese Pollice, il Casale di Secondigliano, la Masseria di Donna Romita, il Casale di Piscinola, la Casa e la Cappella de Luna, la Casa del Marchese di Valva, la Masseria di Auxiliis,  l’Osteria de’ Celsi, la Casa di D. Carlo Mauro ed il Giardino di S. Vincenzo; i quali luoghi tutti rimangono unicamente nominati per meglio individuare il giro medesimo.

III.      Le pene, che s’incontreranno solo le seguenti. Qualsivoglia persona, di qualunque grado, o condizione, anche dell’ordine Militare ch’entrando nella disegnata estensione del giro del miglio porti lo Schioppo, dal cui fucile non abbia tolta la pietra, oltra la perdita dello Schioppo, e di qualunque altro genere di Arma di Caccia (la qual perdita sarà sempre sicura in ogni caso di contravvenzione), essendo benestante, pagherà dieci ducati di pena; essendo povero e di bassa condizione, soffrirà un mese di carcere. Se nella medesima estensione del suddetto giro ardirà sparare, essendo benestante, pagherà 24 ducati di pena; essendo povero, e di bassa condizione, soffrirà tre mesi di carcere. Se finalmente oserà sparare, non già nell’estensione suddetta, ma dentro il chiuso del Real Bosco di Capodimonte, essendo Nobile sarà condannato a tre anni di Presidio; essendo di bassa condizione sarà condannato a tre anni di Galea. Tutte e tre le narrate specie di pene saranno nel caso della seconda contravvenzione duplicate, e nel caso della terza triplicate; e le pecuniarie esigendosi, coll’intelligenza di S. M., saranno applicate alla Fabbrica ed Opera Pia del Reclusorio de’ Poveri.

IV.      Siccome nella più volte nominata estensione del giro del miglio s’incontrano oltra la Strada Regia che per Capodichino mena in Aversa molte altre o pubbliche o vicinali, in cui può taluno trovarsi in viaggio portando lo Schioppo colla pietra al fucile senza il disegno di cacciare, così comanda S. M., che, rimanendo affatto immune, libera, e sbandita la suddetta Strada Regia, nelle altre strade pubbliche solamente sia lecito ad ognuno il portarlo anche con la pietra al fucile, purché però non ne faccia uso della quale così limitata facoltà sarà egli ammonito ancora dalle lapidi, che a tal fine saranno affisse a’ lati delle suddette strade. Essendo a’ Padroni delle Masserie necessario tenere gli Schioppi per la custodia delle biade, o de’ frutti, S. M. il concede, purché li tengano carichi di palle, e no di pallini, sotto pena di ducati dieci a ciascuno contravvegnente parimenti da duplicarsi nel caso della seconda, e di triplicarsi nel caso della terza contravvenzione. 

  Dalla Delegazione della Real Casa, e Corte il dì 20. Settembre 1756. D. Placido Principe Dentice. Bernardo di Ambrogio Segretario. Pubblicata a dì 20 Settembre 1756 Pasquale Moccia. Attesto io sottoscritto Scrivano Ordinario della Suprema Delegazione della Real Casa, e Corte essersi conferito in Capodimonte, Capodichino, Secondigliano, Arzano, Miano, Mianella, Polleca, Piscinola, ed in altri luoghi vicini, e quivi da’ Servienti delle rispettive Corti aver fatto pubblicare questi Bando. Napoli il dì di 20. Settembre 1756. Cristoforo Cordella Scivano.

Salvatore Fioretto

(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)


N.B.:     Le foto riportate in questo post sono state liberamente ricavate da alcuni siti web, ove erano pubblicate. Esse sono state inserite in questa pagina di storia della città, unicamente per la libera divulgazione della cultura, senza alcun secondo fine o scopo di lucro.
Dipinto raffigurante una battuta di caccia, con personaggi della corte reale


   





















Scene di caccia ai tempi di re Carlo, in due dipinti