lunedì 16 settembre 2013

Scampia nelle narrazioni storiche...



Mappa dell'Agro Napoletano, A. G. Rizzi Zannoni, 1793
La plaga verde che coronava il perimetro settentrionale della nobile capitale del regno, compresa tra i casali di Piscinola, Marianella, Miano e Secondigliano, ha affascinato nei secoli scorsi molti storici e viaggiatori, incantati come erano per la feracità del suo terreno, per la prelibatezze dei frutti, per l'abbondanza delle messi e per la bellezza dei paesaggi. Troviamo, infatti, diverse testimonianze letterarie e storiche tramandateci da autorevoli scrittori napoletani e anche stranieri, a partire dal periodo della dominazione angioina, delle quali citiamo alcune tra le più significative:


Il Chianese, valente storico napoletano e studioso dei nobili casali napoletani, menzionando le località che nel periodo ducale (X sec.) sorgevano nella parte australe della “Liburia”, cita tra gli altri “Piscinula” e “Mianu” (Piscinola e Miano).

Chiostro maiolicato di S. Chiara - Scene di vita agreste nei dintorni di Napoli, XVIII secolo.
Il Poeta Giacomino Pugliese, vissuto nel XIII secolo, così descrive il territorio, “Niun luogo al mondo, era più giocondo, di quel tratto della Liburia, pieno di ricchezza, utile, ameno, abbondante di seminati, di frutti, di prati di albereti. Quivi su l’uno e l’altro fianco della Via che da Napoli correva quasi diritta all’Anfiteatro dell’antica Capua, tagliando a mezzo quella distesa verdeggiante di campi, spargevansi numerosi villaggi e Casali, assai più che non siano oggi [...].

Anche il Summonte, citando i Casali esistenti nel XIV secolo intorno alla città di Napoli, tra cui quello di Piscinola e la sua piana agricola dello Scampia, così scriveva: “[…] Questi Casali sono abbondantissimi di frutta di ogni sorta e qualità[…]. Sono anco fertilissimi di vini preziosi e delicati, di frumento, di lino finissimo e canapo di grande qualità, di bellissime sete, vittovaglie di ogni sorte, selve, nocellami, polli, uccelli, et animali quadrupedi, così da fatica come da taglio: gli abitatori di questi Casali, quasi ogni giorno vengono a Napoli a vendere le loro cose .

"L'abbeverata" di Filippo Palizzi


Infine, la testimonianza del Sacco, che nel 1796 così scriveva: […] Piscinola Casale Regio di Napoli nella provincia di Terra di Lavoro(!), ed in Diocesi di Napoli, il quale giace in una pianura, d’aria temperata e nella distanza di quattro miglia dalla città di Napoli. Sono da notarsi in detto Casale, il quale esisteva sin dal tempo, in cui la città di Napoli fu presa e saccheggiata da Belisario, generale dell’imperatore Giustiniano, una chiesa parrocchiale sotto il titolo del SS. Salvatore, ed una confraternita laicale sotto la invocazione del Sagramento. Il suo territorio produce grani, granidindia, lini e canapi. Il numero degli abitanti ascende a milleottocentoquarantasei sotto la guida spirituale di un Parroco.”
Con il toponimo "Liburia" si identificava, già a partire dal periodo ducale, un esteso territorio, che comprendendo i nostri casali, si estendeva fino alla provincia di Caserta.
Questo luogo dal paesaggio bucolico, con le sue sterminate campagne e tante masserie disseminate, ha dato lavoro, per molti secoli, a un esercito di contadini e braccianti agricoli, originari prevalentemente dai casali di Piscinola e di Marianella. La loro presenza era così nutrita e incidente nel tessuto sociale, al punto da caratterizzare i toponimi dei centro storici. Infatti nel quartiere di Piscinola troviamo un "vico degli Operai" (vico che ha assunto tale denominazione nel secolo scorso), eloquente riferimento alla nutrita presenza di operai dei campi; mentre nel censimento urbanistico eseguito dal Catasto di Napoli, a fine ottocento, risulta la denominazione  di "vico Pagliano", sicuramente tradotto in italiano (un po' alla buona) dal termine locale "Appagliaro", locuzione ancor oggi in uso tra gli abitanti, che deriverebbe dalla presenza di numerosi pagliai, che forse i contadini e i braccianti delle terre dello Scampia realizzavano nei secoli per utilizzarli come ricoveri per animali da soma e per i carri adoperati nei loro andirivieni giornalieri dai campi.
Ancor più romantico è il ricordo antico della piana di Scampia, quando era coltivata interamente a canapa e a grano. Scene sopravvissute, purtroppo, fino alla fine degli anni  cinquanta del secolo scorso. Il colore giallo-oro delle messi hanno sicuramente caratterizzato il paesaggio, destando incanto e ammirazione negli osservatori occasionali o nei viaggiatori che venivano in tour organizzati, anche da oltralpe, tra il seicento e l'ottocento, per ammirare le bellezze di Napoli e dei suoi dintorni. 
Il toponimo "Scampia" deriverebbe dall'allocuzione "Scampagnato", ossia di luogo esteso, prevalentemente piano, privo di ostacoli naturali o edilizi, nel quale si puo' godere una visione illimitata del paesaggio. Altri accosterebbero il termine Scampia all'usanza avuta dai cittadini resiedenti nella parte intra moenia della città, di frequentare occasionalmente questi luoghi ameni, specie in coincidenza di festività religiose, organizzando gite e momenti di relax (oggi diremmo "fuori porta"), da trascorrere in aperta campagna o per gustare l'ottima cucina che si poteva godere nelle celebri trattorie ivi presenti (da leggere il precedente post sulle trattorie).



Tutt'oggi non è inusuale ascoltare dagli anziani, quando raccontano vicende della loro vita, l'antica allocuzione di "Abbascio 'o scampagnato"....
Salvatore Fioretto

(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

giovedì 12 settembre 2013

Angolo poetico di Piscinola.... II

L'angolo poetico di questa settimana è una bella prospettiva da me fotografata alcuni anni fa e poi trasportata in questo bozzetto a matita (elaborazione Photoshop). Si riprende in primo piano la Congrega settecentesca del SS. Sacramento e sullo sfondo l'edificio della ex scuola T. Tasso, dell'anno 1929...




Un milione di auguri...Da un Samurai di Chiaiano!!

E stata spedita da Chiaiano esattamente 95 anni fa, il 16 agosto del 1918, questa cartolina di auguri, raffigurante un coloratissimo samurai o mandarino cinese... Non sapppiamo chi l'abbia scritta e a chi l'abbia indirizzata, resta per noi un mistero questa cartolina e la sua immagine..., cartolina molto, ma molto singolare per l'epoca a cui si riferisce...!
                                                                             Salvatore Fioretto

mercoledì 11 settembre 2013

"Li Cunti" di Basile, tra Miano e Piscinola...!

 
Sospeso tra sogno e realtà, tra fantasia e suggestione, tra incanto e natura, così il mondo della fiaba e del cunto ha caratterizzato la letteratura del Seicento, non solo in Italia, ma nell'intera Europa... Tale esperienza culturale non poteva non toccare anche il nostro magico e incantato scenario campano e ancor più quello napoletano, rappresentato dagli antichi Casali di Napoli... e tra questi, come vedremo nel seguito, due Casali a noi vicini...! A farlo è stato quel "portento" della letteratura italiana del Seicento, lo scrittore Giambattista Basile. 
Basile fu figlio della nostra terra, della cosiddetta Campagna Felice; nacque infatti nell'Area Nord della provincia di Napoli, e precisamente nel Casale di Giugliano, nell'Anno di Grazia 1556 (15 febbraio).
Con Giambattista Basile la parlata napoletana viene elevata a lingua completa, perché il capolavoro da lui scritto, avente per titolo: "Lo cunto de li cunti, ovvero lo trattenemiento de peccerille", ha dimostrato a tutto il mondo, allora conosciuto e a quello dei secoli seguenti, la versatilità e la completezza del nostro bellissimo idioma napolitano. Il napoletano, dopo questa composizione letteraria, giudicata importantissima da tutti gli esperti e i critici,  viene così assurto a lingua completa, diffusa e tradotta in tutto il mondo. Altri due grandi scrittori, che hanno anche loro per primi contribuito alla diffusione della "parlata napolitana", sono stati: Giulio Cesare Cortese, compagno di studi del Basile e lo Sguttendio.  

Atto di nascita del Basile, conservato nella chiesa dell'Annunziata a Giugliano
I "Cunti" del Basile furono pubblicati postumi, intorno all'anno 1634, dalla sorella dello scrittore, la famosa cantante Adriana; l'opera fu in seguito soprannominata "Il Pentamerone", per semplice accostamento all'opera del Boccaccio; il Basile fu anche soprannominato il "Boccaccio Napoletano". L'impostazione del Pentamerone, infatti, è simile a quella del Decamerone del Boccaccio (anche se i contenuti sono diversi): mentre la prima opera (del Basile) si compone di 50 cunti divisi in 5 giorni di intrattenimento (PENTA), l'opera del Boccaccio è strutturata in 100 novelle divise in 10 giorni di intrattenimento (da cui il suffisso DECA).
Basile ambienta i suoi "Cunti" prevalentemente in posti fantastici, non disdegnando, in qualche racconto, la citazione di alcuni luoghi reali del territorio napoletano e dei suoi antichi Casali (Vomero, Marigliano, ecc.), nonché piazze, castelli, palazzi, regge, taverne e osterie della città di Napoli.
Due Cunti del Pentamerone, in particolare, sono stati ambientati nel nostro territorio, entrambi appartenenti alla raccolta della I^ Giornata: "La Mortella" e "'Lo Mercante", il primo ambientato a Miano e il secondo a Piscinola....
Incominciamo a descrivere il cunto de "La Mortella".
E' una storia fantastica ambientata a Miano...  Una contadina di Miano, ritenuta sterile, partorisce finalmente, dopo tante sue attese, una bella pianta di mortella. La donna la coltiva con molto amore... come avrebbe fatto per un figlio in carne e ossa... Un giorno passa per Miano un principe che si innamora della bella pianticella e riesce a convincere la donna, dopo molte insistenze, a vendergliela. Una volta entrato nella reggia, il principe scopre con molta meraviglia che dalla mortella fuoriesce una bellissima fata...  Inutile dire che si innamora perdutamente della bella ragazza. Anche la fanciulla ricambia l'amore al giovane e bel principe. Un giorno il principe è chiamato a partecipare a una battuta di caccia contro un animale feroce e quindi è costretto ad assentarsi alcuni giorni dalla reggia. Parte a malincuore, ma convince la bella fata a nascondersi nella mortella, ai cui rami attacca un campanello per poterle comunicare il suo rientro. Ma a notte fonda entrano nella camera del principe alcune femmine brutte e cattive, vecchie amanti del principe, le quali avendo notato la freddezza dell'uomo nei loro riguardi, cercano incuriosite di scoprire l'arcano... Le brutte donne, notando la bella pianta di mortella in un angolo della stanza da letto, prelevano alcune foglie dai rami, ma, ahimè, fanno suonare il campanello legato ad essa. La fata udendo il suono e credendolo segnale della venuta del Principe, esce dal nascondiglio, ignara del pericolo. Le donne ingelosite da tanta bellezza, capiscono che essa è la causa del distacco del Principe e cosi l'ammazzano, colpendola alla testa e dividono a pezzi il suo corpo. Solo una di esse però si rifiuta di inveire contro la povera fata.
Il principe tornando nella reggia, trova la stanza a soqquadro e l'assenza della fata... Si dispera dal dolore e invoca la morte per la perdita del suo amore; ma la fata, impietosita da tante sofferenze del principe, si fa resuscitare e ritorna ad abbracciare con più amore il suo uomo. I due decidono così di sposarsi. Si celebrano solenni nozze a corte e vengono invitate, tra i tanti sudditi e cortigiani, anche le vecchie e brutte assassine della fata. Il principe, conoscendo la storia, con uno stratagemma riesce a condannarle a morte, per annegamento nella fogna... perdona poi la donna che non aveva partecipato all'assassino. Ai genitori della mortella, che restano a vivere a Miano, il principe assicura la protezione e il sostegno economico per la loro vecchiaia.


Prologo al Cunto  de "La Mortella"

Il secondo cunto, quello de "'Lo Mercante" presenta invece due scene ambientate in un'osteria piscinolese, chiamata "Osteria dell'Aurinale". Il protagonista Cienzo, si ferma una domenica in questo locale e quindi scrive una lettera alla figlia del re... 
Riportiamo un sunto del cunto "'Lo Mercante": 
Un mercante di Napoli molto ricco, di nome Antoniello, ha due figli molto rassomiglianti: Cienzo e Meo. Un giorno il primogenito Cienzo, facendo a “pretate” (guainella) all’Arenaccia col figlio del re, lo colpisce malamente a sangue. Antonello, temendo una vendetta del re, consiglia il figlio di fuggire e gli affida  un cavallo e una cagna fatata. Il ragazzo lascia a malincuore Napoli e inizia un viaggio avventuroso nel suo entroterra... Dapprima trova rifugio in un casolare diroccato, ma rifiuta l’offerta generosa di un tesoro in monete d’oro. Poi salva una bella fata dalle molestie di un gruppo di malviventi. Poi, ancora, salva Menechella, la figlia del re, dalla imminente morte, liberandola dalle fauci di un drago a sette teste, che riesce ad uccidere, decapitandolo. Il re, saputo della disavventura della figlia e del salvataggio da parte dell’eroe, decide, quale sua ricompensa, di concedere la figlia in sposa al suo salvatore. Ma un impostore, sapendo della promessa del re, raccoglie le teste del drago e si presenta a corte sotto le mentite vesti del benefattore. Il re lo incorona quindi suo erede, onorando la promessa fatta. Cienzo, che nel frattempo si trova nella osteria di Piscinola, detta “Osteria dell’Aurinale”, viene a conoscenza del accaduto e dell’usurpazione subita, così scrive una lettera alla figlia del re, che le trasmette, servendosi della cagna fatata. La lettera viene consegnata alla fanciulla, non senza generare sospetti a corte. Il re fa intanto seguire la cagna da alcuni soldati, rintracciando l’autore della missiva, che si trova ancora nella taverna piscinolese. Cienzo viene quindi condotto al cospetto del re accusato di falsità, ma riesce a far valere la sua versione, mostrando come prova le sette lingue del drago. L’impostore viene così smascherato, con la testimonianza della fanciulla. Cienzo, incoronato dal re, diventa lo sposo di Menechella. Una mattina però scorge una bellissima ragazza dirimpettaia alla reggia e si innamora perdutamente. Abbandona quindi il talamo reale, per raggiungere la fanciulla... Meo, intanto, insospettito dall’assenza di notizie di Cienzo, decide di andare in cerca del fratello. Ripete, quindi, tutte le tappe da questi effettuate, nelle quali è ogni volta scambiato per il fratello, a causa della sua perfetta somiglianza. Giunge così a palazzo reale e incontra Menechella, che alla pari degli altri lo scambia per Cienzo. Meo trascorre la notte dormendo diviso dalla cognata, inventandosi una scusa per non disonorare il fratello. Il giorno seguente, continuando la ricerca, si reca dalla bella dirimpettaia e lì trova il fratello come assopito e disincantato dalla bellezza della fanciulla. Riesce a farlo rinvenire, raccontandogli tutto il viaggio e gli incontri avuti, compreso della notte trascorsa con la cognata. Cienzo, credutosi disonorato, uccide Meo, sgozzandolo. Menechella, che assiste alla scena dalla finestra, impreca contro il marito, rivendicando l’innocenza di Meo, che l’aveva invece rispettata. Così Cienzo, pentitosi dell’insano gesto, riesce a far resuscitare il fratello, utilizzando un infuso magico. I due fratelli si riabbracciano e vivono felici a corte, insieme a Menechella e al re, ai quali si aggiunge anche il padre dei due, il mercante Antoniello.

Lettera scritta nell'osteria dell'Aurinale, durante la prima giornata, il cunto si intitola "Il Mercante"
Per identificare il sito dell'"Osteria dell'Aurinale" dobbiamo "scomodare" il grande storico e filosofo napoletano Benedetto Croce, infatti nella versione de "Lo Cunto de li Cunti" da lui pubblicata e commentata (edita a Bari nel 1925), il filosofo riporta una nota a tergo della pagina, nella quale identifica l'osteria dell'Aurinale, grazie alla mappa "Topografia dell'Agro Napoletano" redatta nel 1793 dal topografo Antonio Rizzi Zannoni. In questa mappa, poco a nord del Casale di Piscinola, è riportato l'edificio con la scritta "Taverna del Pisciatoro". 
Particolare della mappa dell'Agro Napoletano, di A. Rizzi Zannoni, 1793
Il termine adoperato potrebbe destare non poca ilarità nel lettore...,  pensando a un luogo poco ameno, diciamo frequentato da gente poco raccomandabile..., ma in realtà non è proprio così... Per prima cosa, bisogna ricordare che il Basile non cura molto l'estetica del linguaggio adoperato ma, come in moltissimi altri casi, riporta fedelmente la "parlata" napoletana del XVII secolo; in secondo luogo, questa taverna prende il nome da un ruscello o "rigagnolo", che scorre in questa zona ancor oggi ed è denominato "Canale o Lagno del Pisciatoro". La denominazione di questo corso d'acqua si riferisce sicuramente alla sua modestissima e irrisoria portata d'acqua, specie in tempo di assenza di piogge. Il ruscello raccoglie le acqua meteoriche e sorgive provenienti dalle pendici dei Camaldoli e le convoglia, a distanza di chilometri, fino ad immettersi nel vecchio Clanio, ossia l'odierno canale dei Regi Lagni.

Ecco la nota a margine della pagine nell'edizione del 1925, tradotta da Benedetto Croce:


P- 97) • 19** «Osteria de Aurinale». Nella bellissima carta: Topografia dell'Agro Napoletano del Rizzi Zannoni, 1793, è segnata sulla via tra Mugnano e Piscinola una Taverna del Pisciatoro.


In una versione in inglese della stessa opera del Croce:


Nella versione de "Lo Cunto de li Cunti" curata e pubblicata dal maestro Roberto De Simone, nel 1989, si riporta per esteso il nome dell'osteria, come scritto nella mappa dell'Agro Napoletano.

Targa dedicata a G. B. Basile a Giugliano
Le altre opere scritte dal Basile sono: la raccolta "Delli madrigali et ode", dedicata ai Gonzaga di Mantova e la raccolta "Opere poetiche", comprendenti, tra l’altro, il "Pianto della Vergine", le "Egloghe amorose e lugubri", la "Venere addolorata" e "Le Muse Napolitane".
L'opera più importante resta senza dubbio "Il Cunto de li Cunti".
Dopo avere viaggiato per molti anni, Basile tornò definitivamente a Napoli nel 1614, dove, insieme al lavoro letterario, svolse anche molti incarichi diplomatici e quello di governatore in diversi centri del Regno, tra cui Montemarano, Avellino, Aversa e Giugliano. A Giugliano, sua città natale, morì forse di  peste, il 23 febbraio 1632.
Fu proprio grazie a tali incarichi di natura politica che Basile ebbe modo di conoscere a fondo il territorio campano, venendo così a contatto con una realtà diversa da quella “metropolitana” della capitale del Viceregno di Napoli. Nella loro complessità questi contatti furono però una felice e fruttuosa fonte di ispirazione per lo scrittore. 
"I Cunti" non sono stati scritti per essere indirizzati ai bambini, come si è portati a pensare, bensì destinati a un pubblico adulto; infatti, pur se rozzi e incolti, quali erano ai suoi tempi buona parte degli abitanti della metropoli e dei suoi casali, questi erano pur sempre capaci di intendere i frequentissimi doppi sensi che caratterizzano le metafore contenute nell'opera e, peraltro, il mezzo costituiva l'unico modo e metodo per diffonderle, senza incorrere alla sicura censura. L'opera divenne subito un libro noto e fu tradotto in altre lingue europee, già alla fine del Seicento. Grazie ad essa possiamo conoscere oggi con esattezza  l'idioma  parlato nella Napoli del Seicento!
"Lo Cunto de li Cunti" è quindi un classico di genere fiabesco popolare, al quale s’ispireranno poi, nei secoli successivi, molti favolisti, tra cui Perrault, Carlo Gozzi, Wieland, Ludwig Tieck e i fratelli Grimm; infatti, non tutti sanno che i più noti racconti di "Cenerentola", "La bella addormentata" e "Il gatto con gli stivali", altro non sono che il risultato di riduzioni o adattamenti de "Lo Cunto de li Cunti": fiabe a loro volta poi destinate ai più piccini.
Salvatore Fioretto
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)