sabato 5 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! Il ciclo biologico già ecosostenibile (prima parte)

Scaglie di Ossido di Rame (verderame)

Quando si ricordano le tradizioni contadine del nostro territorio non si può non soffermarsi sulle primizie e sui prodotti agricoli che la campagna donava  nel corso delle stagioni, soprattutto per i loro buoni sapori e i gradevoli profumi, che oggi risultano indescrivibili. A tal proposito, in passato, per  descrivere la nostra campagna, era correntemente utilizzato un aggettivo (oggi definiremo arcaico), che era "ferace", esso racchiudeva, in modo sintetico e univoco, il significato di terra estremamente fertile e generosa, ovvero di alta produttività, per la quantità e soprattutto per la qualità dei suoi prodotti. Basti pensare che la campagna del nostro territorio, che è parte della piana napoletana settentrionale, con Miano, Piscinola, Scampia, Mugnano, Calvizzano e altre località, pur essendo priva di sistemi di irrigazioni artificiali, con assenza di pozzi artesiani, canali e di altri corsi d'acqua, riusciva a garantire abbondanti raccolti, e spesse volte consentiva di fare anche due raccolti di ortaggi e di cereali nel corso dell'anno. Innanzitutto era il microclima del territorio che risultava essere così stabile e costante da garantire delle precipitazioni piovose distribuite nel corso dell'anno, sia quelle abbondati nel periodo primaverile e autunnale e sia quelle sporadiche, ma con intervalli costanti, nel periodo estivo, quando si avevano delle brevi ma intense precipitazioni a carattere temporalesco (senza vento e grandine), che venivano abilmente sfruttate, dall'esperienza e dall'intelligenza dei contadini, per dare un apporto costante di umidità alle colture, anche nel periodo caldo, tanto da poter eseguire una seconda semina. Inoltre, gli ingegnosi contadini del passato avevano sperimentato e applicavano abitualmente anche dei sistemi di coltivazione delle colture che consentivano di trattenere per lungo tempo l'umidità nel suolo, dopo le ultime precipitazioni. Per esempio, era eseguita la tecnica del "rincalzo" (detta in gergo locale: 'ncauzà), alla base delle colture degli ortaggi, in modo che il terreno umido risultasse ricoperto da uno strato superiore di altro terreno (abilmente apportato con zappe) e, quindi, riparato dai raggi del sole e dalla conseguente evaporazione. 

Scaglie di Ossido di Calcio (calce viva)
Nei tempi passati il territorio in esame era incontaminato (e salubre) sia nel suolo che nell'aria, con la sua biodiversità e, come in ogni ecosistema antico e incontaminato, permetteva di autoregolarsi in termini di difesa dalle patologie botaniche e dai parassiti; infatti, proprio perchè era un ecosistema rimasto intatto da secoli, comprendeva tutta una vasta gamma di insetti, uccelli e altre specie di animali, che con la loro presenza (e la loro dieta) risultavano antagonisti ai parassiti che attaccavano le colture. Coccinelle, maggiolini, cicale, formiche, vespe e tanti altri insetti che, cibandosi di afidi, acari e insetti dannosi (come le cocciniglie o le lumache), costituivano una barriera efficace e proattiva alla difesa del raccolto nei campi.
Poltiglia Bordolese a secco
Il trattamento delle colture era ancora basato su delle pratiche antiche e pressoché naturali, addirittura alcune tramandate dagli antichi romani, come la famosa "Poltiglia Bordolese",  costituita da un composto di ossido di Calce (Calce viva) e solfato di Rame (Verderame) con cui venivano trattavate le piante da frutto, le viti e anche alcuni ortaggi.
Il "Verderame" consentiva (ma viene utilizzato ancora oggi) di prevenire e di combattere la Peronospora, una malattia parassitaria che attacca le foglie delle piante, delle viti e degli ortaggi, come i pomodori. Il primo trattamento si eseguiva a fine inverno, ovvero "a marza secca", cioè prima della uscita delle gemme sugli alberi. Quelli successivi si eseguivano prima e dopo la loro fioritura.
Foglia di vite attaccata dalla Peronospora

Altra antica pratica utilizzata, e anch'essa tramandata dai romani, era il trattamento dell'uva contro l' "Oidio" (malattia funghigena che attacca i grappoli), utilizzando lo zolfo in polvere. Lo zolfo, che era estratto dalle miniere del meridione d'Italia, veniva diffuso a secco sui tralci e sui grappoli d'uva in formazione, con l'aiuto di un mantice a mano. Il trattamento di solito si eseguiva due volte all'anno, tra giugno e luglio; lo zolfo veniva distribuito sulle viti al mattino presto (intorno alle ore 5:00), con assenza di vento e con la presenza di rugiada sulle foglie (per favorire l'attaccamento dello zolfo).

Grappolo attaccato da Oidio

Il trattamento delle piante e degli ortaggi era anche eseguito utilizzando alcune piante selvatiche, preventivamente fatte macerare in acqua, il cui odore ripugnante faceva allontanare i patogeni dalle colture; come l'Euphorbia: un arbusto selvatico che cresceva sui bordi delle strade e della ferrovia Piedimonte d'Alife, che qui chiamavamo 'e fetienti, (il termine è un riscontro oggettivo riguardo all'odore ripugnante emanato dalla pianta). L'acqua che aveva macerato queste essenze era utilizzata con successo per trattare le piante attaccate dagli afidi, come i moscerini (detti pidocchi).
A conferma di quanto gli antichi contadini avessero anticipato i tempi e di quanto naturali e biologici fossero i prodotti da essi utilizzati nei trattamenti delle colture, s
appiamo tutti che oggi nelle coltivazioni biologiche è ammesso l'uso del Verderame, della Poltiglia Bordolese, dello zolfo e anche degli altri sistemi che abbiamo qui descritto.
Anche l'acqua risultante dalla cottura della pasta era riutilizzata in agricoltura, sia come concime e soprattutto per stimolare, secondo la credenza popolare, la produzione di funghi dei Pioppi, sulle ceppaie secche... Forse c'è un fondamento biologico in questa pratica antica ...!
Il concime utilizzato nei tempi passati per concimare le campagne era prevalentemente di origine naturale e biologico. Si utilizzava lo "stallatico" raccolto nelle stalle frequentate da equini e bovini, poi la "pollina" raccolto dai pollai delle masserie, altro concime fertilissimo erano gli escrementi dei conigli.
Lo sterco dei maiali era raccolto insieme all'acqua utilizzata per lavare le superfici pavimentate dei porcili. Anche l'urina raccolta  nelle stalle era utilizzata per concimare i campi e, grazie al suo apporto azotato, veniva stimolato e favorito lo sviluppo della vegetazione delle piante. Le urine erano raccolte in un pozzetto chiuso presente in ogni stalla, chiamato "pisciniello" (piccola piscina); queste venivano poi travasate in contenitori di legno, chiamati "varricchi", che erano a loro volta anche utilizzati per il trasporto nei campi, mediante una portantina manuale, con un asse di legno sorretto a spalle.
Un'altra tipologia di concime utilizzata nei campi (sempre biologica) era quella di origine vegetale, infatti oltre a utilizzare tutti gli scarti di cucina, come quelli derivanti dalla pulizia degli ortaggi, si utilizzavano anche delle erbe appositamente coltivate nei campi in alcuni periodi dell'anno. Questa pratica è ancora oggi utilizzata in altri posti ed è chiamata in gergo agricolo: "sovescio". Le erbe o le piante selvatiche utilizzate erano: le Fave piccole (favielli), le Cicorie selvatiche, le Rape, i "Rapestoni" (Ramolaccio), l'Erba Medica, il Trifoglio, i Lupini selvatici, e altre erbe ricche di sali minerali di Potassio, Fosforo e Azoto, come le erbe chiamate Centocchio e Portulaca, che nascevano spontaneamente.  Al momento che si eseguiva la zappatura o l'aratura dei campi, si procedeva a estirpare queste essenze e a distribuirle nei solchi ('e taglie) e, quindi, a interrarle. Queste piante marcivano prima della semina e trasmettevano le sostanze nutritive al terreno, in modo da alimentare le nuove colture, fin dai loro germogli.

Cenere
Anche la cenere raccolta dai camini e dai forni era utilizzata per concimare i terreni. Si sa che la cenere era anche utilizzata per lavare i panni e preparare la "culata".
I residui della lavorazione dei legumi e dei cereali (piselli, fagioli, fave, grano, orzo, granoturco, ecc.), erano utilizzati, oltre come nutrimento degli animali nelle stalle, anche come loro giacigli (lettiere) e quindi anch'essi contribuivano a rendere lo "stallatico" facilmente lavorabile per la raccolta e distribuzione nei campi e ricco di altre sostanze organiche.
C'è da aggiungere che in passato, nei centri abitati dei paesi, ma anche nelle grande città, si eseguiva la raccolta degli escrementi degli animali, sia dalle stalle che dalle strade; l'addetto a questo servizio, che oggi chiameremo operatore ecologico, era chiamato "Lutammaro", termine che deriva da "Lutamma", che nel napoletano antico si riferisce ai "residui organici".
Tutto questo per dire che la "raccolta differenziata", di cui in tanti oggi si riempiono la bocca, era una consuetudine normalmente eseguita nei tempi trascorsi, anche in questo territorio, avendo un triplo vantaggio: sia in termini di raccolta assicurata dei rifiuti, perché eseguita "porta a porta", sia di riutilizzo dei materiali di rifiuto organici, attraverso un ciclo biologico naturale e sia perché consentiva di assicurare un reddito certo per alcuni lavoratori.
Era così salubre l'ambiente e il ciclo di produzione delle derrate agricole, che sovente, quando si ricevevano visite nei campi di amici o di acquirenti, i contadini raccoglievano la frutta e la porgevano contestualmente ai visitatori, per farla a loro gustare e apprezzare, ma senza lavarla e nessuno ha mai lamentato problemi di salute!
Altri tempi diremmo oggi!! (segue seconda parte)

Salvatore Fioretto 

 

Trifoglio


Erba medica

Centocchio

martedì 1 novembre 2022

Ricordi dell'Alifana, la realizzazione di una sezione nel museo civico di S. Maria Capua Vetere, di G. Laurenza

Cartolina celebrativa , con il dipinto del maestro Cerezo Zacarias

Quello che riportiamo nel seguito è una parte dell'articolo scritto e pubblicato dal direttore del Museo di Santa Maria Capua Vetere, dott. Giovanni Laurenza (http://www.giovannilaurenza.com), nel quale si riportano i suoi bellissimi ricordi sulla ferrovia "Napoli Piedimonte d'Alife", sia del tronco antico, elettrico e sia di quello moderno, diesel. Completa lo scritto la descrizione della manifestazione svoltasi per festeggiare il centenario dell'inaugurazione della ferrovia, celebrato nell'anno 2013 nel teatro Garibaldi, e l'allestimento museale nel museo civico di Santa Maria Capua Vetere. 

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[...] "Nei miei ricordi d’infanzia c’è una Alifana mitica, quella con le carrozze bianco-rosse. Dalla Stazione della Ferrovia dello Stato, attraversando i binari, si arrivava ad un cancelletto in ferro e ad una piccola rampa di scale dalla quale si accedeva alla distesa di papaveri su cui sorgeva il deposito dei treni e la cabina elettrica dalla stazione di S. Andrea. Era il percorso seguito anche dai viaggiatori per evitare il giro più lungo di via Napoli.
I convogli partivano sferraglianti al suono della trombetta del capostazione De Felice per avviarsi, costeggiando l’Appia, verso il passaggio a livello allo Spartimento. Non era infrequente che una caduta di corrente facesse fermare il treno giusto al centro della strada, dando l’inizio ad un colorito battibecco tra il macchinista, e i carrettieri e gli automobilisti in attesa.
Momento emozionante era il passaggio alle spalle della trattoria Casina Rossa, mitica sosta dei camionisti, che aveva resistito alle offerte della Compagnia Ferroviaria per il suo abbattimento, costringendo i binari ad una curva sulla quale la motrice si manteneva in un pericoloso equilibrio, dato lo scartamento ridotto. I passeggeri che avevano abbassato i finestrini con vetri a ghigliottina per gustare i profumi delle anguille fritte provenienti dalla cantina, venivano invitati dal controllore a sedersi nel lato opposto del vagone per non aumentare il pericolo di ribaltamento.
Uno dei passeggeri più affezionati era Mariuccia, che ogni mattina prendeva il treno a Frignano con le sue ceste di anguille di fosso e rane, e scendeva alla stazione di S. Andrea dove nel piazzale antistante sostava il suo carrettino e con il quale si avviava sulle gambe malferme a fare il giro della città magnificando i suoi prodotti.
Le carrozze dell’Alifana non avevano servizi igienici: ma tutto si risolveva con la disponibilità del macchinista che, a richiesta, sostava qualche minuto in più in una stazione per permettere l’uso dei bagni a chi non ne poteva fare a meno.
Più emozionante era la partenza del treno per Capua e Piedimonte: veniva agganciata una seconda locomotiva che aveva il compito di spingere il treno perché riuscisse a superare il ponte di via Battisti che le permetteva di scavalcare la linea ferroviaria dello Stato. Di lì poi iniziava il viaggio cittadino, con fermata a Curti (angolo via Melorio), alla stazione S. Pietro in via Caserta, e un’ultima fermata cittadina alle spalle dell’Anfiteatro.
La tratta più pericolosa era quella che costeggiava la villa comunale perché non infrequentemente frotte di ragazzi attendevano il convoglio dietro la cancellata che sbarrava via Perla per lanciare pietre: stava all’abilità del controllore, pericolosamente esposto sul predellino della motrice, a minacciare ed individuare i delinquenti per impedirne l’insano passatempo.
La mitica Alifana andò in pensione nel 1976 quando la TPN (Tranvie Provinciali Napoletane) la sostituì con un inutile servizio autobus che annullava il pregio dell’Alifana: quello di evitare il traffico ed arrivare nei paesi dell’aversano e a Napoli in tempo accettabili.
Motrici e locomotive finirono demolite. Quella che si era salvata insieme ad una carrozza, destinata al Museo di Pietrarsa, divenne rifugio provvisorio di alcune famiglie rom, per finire bruciata dai vandali.
La nuova Alifana, che viaggia sui binari delle Ferrovie dello Stato, è legata alla mia vita di studente universitario. L’arrivo alla Stazione di S. Maria era festoso, allietato dagli studenti del Conservatorio provenienti da Piedimonte. Non di rado il macchinista attendeva di qualche minuto i ritardatari, tra le ire del capostazione.
Un caffè al buffet di Giovanni, che allora ornava l’atrio della stazione, e via verso Napoli per sbarcare alla stazione di piazza Garibaldi su uno dei due binari più estremi, lontanissimi dalla stazione: l’altro era riservato ad un altro mito ferroviario, il verde convoglio del “Valle Caudina”. Con la consorella ferrovia, l’Alifana si palleggiava il titolo di ferrovia di cartone.
Passati i tempi d’oro, qualcuno si ricordò della vecchia Alifana e del suo mito. Nel 1985, sul Bollettino che magnificava conquiste e sogni dell’Amministrazione Comunale, apparve l’idea di trasformare la Stazione di S. Andrea in un Museo dell’Alifana. Non se ne fece nulla.
A mantenere vivo in Città il ricordo della vecchia Alifana e del suo mito ci ha pensato l’Associazione Agorà di S. Andrea, territorialmente legata alla ferrovia, con due manifestazioni organizzate nel 2009 e nel 2011, nel corso delle quali l’idea di un museo fu ripresa dal sindaco Giudicianni.
Ma gli sforzi per arrivare a questo risultato non diedero alcun esito, anche se si sperò in un ravvedimento delle competenti amministrazione quando una vecchia carrozza, ancora conservata nei depositi sammaritani fu recuperata per il restauro.
Nel 2013, ostacolato dall’ottusità di qualche burocrate e tra lo scetticismo dell’Amministrazione Comunale mi dedicai alla organizzazione delle celebrazioni del centenario della inaugurazione dell’Alifana.
Cercai e ottenni la collaborazione dei sammaritani in qualche modo “imparentati” con la Piedimonte. La mia intenzione era di celebrare non tanto stazioni, motrici, carrozze e materiale ferroviario, esistendone una grande quantità di foto su internet, quanto piuttosto le persone che quella ferrovia avevano reso umana.
Al mio appello risposero in tanti: ebbi l’impressione che non ci fosse famiglia sammaritana che non avesse avuto un parente nell’Alifana.
Tornarono così alla memoria collettiva capistazione, frenatori, bigliettai, controllori: Sapone, Guaglione, Saggese, D’Aiello, Pasquale Conforti, Luigi De Lucia, il capo tecnico Antonio De Felice, Raffaele Prodomo, l’ing. Carmelo Donsì, i capistazione Giovanni Mele, Renato De Cato e Luigi Maisto, i macchinisti Arturo Giordano e Domenico di Lorenzo, Giuseppe Di Lollo, Alberto Caruso, Francesco Angellotti, Salvatore Licciardola, Vincenzino Celio, Ciarmiello, Ettore Frisella, Gennaro Prodomo, Gennaro Salvi, Di Grazia , Viggiano.
Ed ebbi l’aiuto di personale ancora in servizio come Antonio Mastroianni, capostazione di S. Angelo in Formis, figlio di don Mimì figura storica degli autoferrotranvieri sammaritani.
Tutto il prezioso materiale storico e fotografico, momentaneamente sottratto alle gelose cure dei parenti, fu scannerizzato e composto 16 pannelli con la collaborazione grafica di Salvatore del Prete.
Chiesi la cortesia all’amico acquerellista spagnolo Zacarias Cerezo di realizzazione per l’occasione il manifesto e la cartolina ricordo.
La mostra fu allestita il 6 aprile nell’atrio del teatro Garibaldi. Nell’occasione il G.A.F.A. (Gruppo Amici Ferrovia Alifana) allestì nel Salone degli Specchi un plastico che ricreava alcuni angoli caratteristici del percorso della nuova Alifana tra S. Maria e Piedimonte.
Al termine della manifestazione provvidi a trasferire i pannelli e il materiale raccolto presso una sala del Museo Civico, aprendo una nuova pagina della nostra storia cittadina."

dott. Giovanni Laurenza

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Lo scritto, qui riportato del dott. Laurenza, risulta essere molto suggestivo e, come un bel quadro d'autore, trasmette tutta la bellezza del paesaggio, della ferrovia e dell'umanità esistente in un'epoca non tanto lontana dalla nostra.
Speriamo vivamente che possa essere ripreso e realizzato il progetto che prevede la trasformazione a museo ferroviario della stazione terminale di Sant'Andrea de Lagni, dell'antica ferrovia elettrica Napoli Piedimonte d'Alife; come pure speriamo che abbiano la stessa progettualità e finalità le stazioni ferroviarie superstiti di Aversa, Mugnano e Secondigliano.
Segnaliamo, infine, che la stazione terminale di "Piscinola-Scampia" della nuova ferrovia EAV, "Piscinola Aversa" (unica costruita sulla preesistente stazione antica), risulta
tutt'oggi essere priva di testimonianze fotografiche ed artistiche che ricordino la vecchia "Piedimonte"; l'appello  doveroso che formuliamo ai responsabili della ferrovia, è quello di rimediare presto a questa grande lacuna storica...!

Salvatore Fioretto

Per i lettori interessati ad approfondire l'opera svolta dal dott. G. Laurenza, consigliamo la consultazione del suo sito in internet: https://www.giovannilaurenza.com/