giovedì 16 dicembre 2021

C'era una volta il Natale..., quello di casa nostra...!

"C'era una volta, ....", così incominciavano le più belle fiabe che abbiamo appreso nella nostra infanzia, e tutte continuavano con la frase, "ma tanto tempo fa...", come per sottolineare la straordinarietà del racconto e per marcare il filo sottile che divideva la realtà dall'immaginario...; però, nella fiaba che stiamo per raccontare, che poi fiaba non è, possiamo modificare l'introduzione classica, con  questa frase temporale: "C'era una volta, ma fino a qualche tempo fa...", perché la nostra storia, la nostra pseudo fiaba, ha avuto termine in un tempo relativamente recente, e non è stato un finale a lieto fine, come avviene nelle più belle fiabe ricordate...!

Piennoli di Pomodori appesi per la conservazione
"C'era una volta - dunque - ma fino a qualche tempo fa"..., un Borgo antico, ma antico assai, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi e del mondo, un Borgo assai piccolo e anche assai povero, dove i suoi abitanti si conoscevano tutti per il proprio nomignolo (che dicevano "soprannome"), si aiutavano tra loro nei momenti di necessità e si stimavano a vicenda, come avviene in una bella e grande famiglia. In questo piccolo Borgo, contornato com'era da una bella e vasta campagna (diremmo sterminata e folta di verde), la natura ripeteva sempre il suo ciclo, delle quattro stagioni, alternandole con costanza e donando: sole, luce, acqua e aria pulita, e poi fiori e tanta frutta.... di ogni forma e varietà!
Minestra maritata in cottura

Li donava sempre e in quantità sufficiente per quanto necessitava al bene primario di tutto e di tutti, al bene fondamentale della vita: la TERRA!
Il susseguirsi dei colori, dei profumi, dei riti associati alle stagioni, che mutavano, alternandosi con costanza, era come uno sprono al continuo rinnovamento degli uomini. Il percorso della vita di ciascun uomo assumeva a quei tempi un sapore e un significato pieno, intenso, concreto e stabile, che dava intimo calore e tante aspettative di benessere, per il futuro, per un miglioramento atteso: per la SPERANZA! Perché per l'uomo la speranza è una necessità irrinunciabile, indissolubilmente presente nell'animo umano, che alimenta e dona un senso pieno alla vita...!
Il ciclo dell'anno si concludeva con l'approssimarsi dell'inverno. L'addio alla bella stagione volgeva con l'accorciarsi delle ore di luce e, poi, con l'arrivo delle piogge e del freddo induceva il rallentamento di quasi ogni attività umana all'aperto. Le persone del Borgo rimanevano più a lungo in casa, nel torpore e nell'intimità della famiglia, spesso davanti a un camino scoppiettante, luminoso e caldo, per il fuoco accesso. Si attendeva così l'arrivo della solennità più attesa dell'anno: quella del Santo Natale.
Struffoli
La Festa tanto attesa, soprattutto da anziani e piccini, era accompagnata da riti e da tutta una tradizione, che era stata tramandata di padre in figlio e, così, ripetutamente, di generazione in generazione, da tempo immemorabile, che nessuno più ricordava... Durante questa attesa il fumo che usciva dai comignoli delle case, si univa con quelli di tante altre case e si diffondeva nell'aria aumentando di intensità e di profumi particolari. Quando il tempo era umido e piovoso, questo fumo ristagnava in basso, nei vicoletti stretti e nelle venelle semideserte del piccolo Borgo, donando un intenso profumo di essenza di legno bruciato. Spesso il profumo che prevaleva era quello della resina di pino o del legno di noci e di viti... Questi erano gli odori più intensi e gradevoli che si riuscivano ad apprezzare e a percepire nel nostro antico Borgo nel periodo invernale.

Già con l'arrivo dell'Avvento incominciavano a vedersi i primi zampognari girovagare tra i vicoletti e i caseggiati. Spesso si incontravano fin nelle numerose e lontane masserie. Il loro era un girovagare accompagnato dal suono di melodiose novene, sovente esibite davanti a semplici presepi allestiti nelle case oppure al cospetto delle innumerevoli cappelline stradali.
Formato di letterina natalizia
I presepi erano realizzati già a partire dalla festività dell'Immacolata. Erano soprattutto i fanciulli a prepararli, guidati dalle sapienti mani di nonni e genitori. Per adornarli si utilizzavano esclusivamente i pastori di terracotta. Si può dire che in quei tempi la plastica era un materiale praticamente sconosciuto! Per realizzare le grotte, al posto del sughero, si utilizzava la corteccia nera ricavata dai pioppi secolari delle campagne.
I pastori si acquistavano presso un improvvisato rigattiere della zona, che li barattava in cambio di ferri vecchi e di altri rottami metallici o di stracci dismessi.
I zampognari, dopo le loro esibizioni musicali, ricambiavano sovente le offerte ricevute, con dei caratteristici cuocchiarotti (cucchiarelle) di legno, da essi realizzati con abile lavorio d'intarsio. Il breve manico di queste caratteristiche posate di legno terminava con una specie di uncino, utile per appenderle alle rastrelliere delle cucine.
Patate cotte sotto la cenere ardente
Intanto, già da alcune settimane antecedenti alla Festa, ogni bambino iniziava a scrivere l'immancabile "letterina", contenente i buoni propositi e gli auguri a tutti i componenti della famiglia. La "letterina" come un rito secolare, veniva fatta trovare sotto il piatto del capofamiglia, al momento di iniziare il pranzo natalizio, a cui seguiva, la sua lettura ad alta voce e, in cambio, un dono in denaro.
Queste "letterine", spesso decorate con cornici dorate e argentate, con figure di natività e di angeli, iniziavano sempre con la frase: "Natale, 19..., Cari genitori, mammà e papà...".

Le mamme e le nonne avevano già avviato al cruento destino i poveri capponi, scegliendoli nel gallinaio (vallenario), tra i più "prestanti" galli. Gli aspiranti capponi venivano poi alimentati giornalmente con abbondante porzione di granoturco. Il "granone" veniva fatto letteralmente ingoiare ai poveri volatili, con aiuto di listelli di legno...
Pigne di Pino
Si pensava che, così facendo, si favorisse l'ingrassamento... e, in effetti, alla fine essi diventavano grassi e come si dice molto "ruspanti"... I capponi costituivano la base del celebre piatto natalizio, che era la "Minestra Maritata"; una pietanza molto grassa che conteneva, tra i tanti elementi componenti, i celebri "broccoli di Natale".
Questi "broccoli" erano una varietà di verdure a foglia blu che venivano piantati ogni anno, ricorrendo ai semi raccolti dalle precedente stagioni. Le pianticelle venivano poi messe a dimora, negli orti e nelle campagne,
in equidistanti file, fin dal precedente Ferragosto. Tra gli ingredienti della minestra c'erano anche le cosiddette "Noglie", che erano degli insaccati piccanti, realizzati con le interiora e di parti meno pregiate risultanti dalla macellazione del maiale. Ma il cappone veniva preparato anche imbottito, farcito con carne macinata di vaccino e pane raffermo, con l'aggiunta di pinoli, pepe, formaggio grattugiato e di uva sultanina  (uva passa). Dopo la farcitura il pollo subiva una specie di operazione..., perché il taglio praticato per l'imbottitura veniva letteralmente cucito con ago e cotone, come se dovesse presentarsi alla cottura con un bel vestito...!
Spighe di granoturco

Il "ruoto" (tegame di rame) contenete il cappone veniva poi inserito nel forno a legna, accompagnato con patate e spezie profumate raccolte dai giardini: salvia, rosmarino, prezzemolo e un bicchiere di vino buono, quello di Pere 'e Palummo nostrano...
Ma i cento e più forni a legna che ogni cortile, ogni masseria e ogni casa colonica del Borgo, accoglievano per la cottura altre prelibatezze del palato, degne di una cucina nostrana che, oltre che semplice, potremmo definire genuina e dal profumo invitante...! Ovviamente il lardo e lo strutto erano gli unici tipi di grasso utilizzati nei condimenti.
Il combustibile principe dei forni era rappresentato dalla storica fascina, composta da rami di Pioppo (Chiuppete), da "vitecaglie" (tralci di vite) e rami di potatura di alberi da frutta e da ceppaie varie. Le fascine erano legate a forma di fuso, per farle passare agevolmente attraverso la piccola "bocca" del forno.
Piennolo di sorbe

Queste e altri rami di potatura, erano abilmente accesi e fatti bruciare nel forno per portare la temperatura al punto necessario per cuocere pizze di scarole, pizze di pomodori e origano selvatico e "ruoti" di coniglio o di pollo alla cacciatora, ma anche l'immancabile ppane 'e rrane (pane di grano integrale) e di freselle
La preparazione del  pane doveva coprire il fabbisogno di ogni famiglia, almeno per due settimane.
Per i dolci natalizi, tra quelli che più richiedevano tempo e attenzione nella preparazione, c'erano gli immancabili Struffoli: cubetti di impasto all'uovo, fritti nell'olio bollente e rifiniti con miele, cedro e confettini dai mille colori e forme, che si chiamavano "Diavulille", perchè "saltellavano" ovunque...! C'era anche qualcuno che preparava la Pastiera, anche se in inverno non era facile trovare a quei tempi il grano germogliato, la ricotta fresca e le essenze necessarie.
Cappone

Mentre le donne, le "maestre" di casa, erano affaccendate a preparare il pranzo di Natale, gli uomini, che erano intenti a scaldarsi al cospetto del camino, mettevano delle patate a cuocere sotto la cenere oppure delle salsicce ad arrostire sulla fiamma scoppiettante. Le salsicce si trovavano sempre appese su un travetto di legno posto al lato del camino. In quell'angolo le salsicce e gli altri insaccati erano posti ad "asciugare" (a ridurre il grasso) ed erano profumati con l'aggiunta di foglie d'Alloro...
Sapori e odori unici questi, che il trascorrere del tempo ha reso questa cucina semplicissima e umile, un mito, alla guisa di una scomparsa archeologia culinaria...!
Altro piatto tradizionale era "l'insalata di rinforzo": un piatto di contorno preparato con le papaccelle sotto aceto (specie di peperoni piccoli che venivano conservati in recipienti di terracotta pieni di aceto di vino), assieme a olive di Gaeta, cavolfiori e carote lessate e tagliate a pezzetti.
Cappone farcito (detto "'mbottonato")

Ma la preparazione più impegnativa e anche rischiosa era quella dei pinoli che erano utilizzati nelle polpette e nelle braciole del ragù domenicale e nella rinomata pizza di scarole, considerata la pizza rustica natalizia per eccellenza. I pinoli erano ricavati dalle pigne raccolte tra novembre e dicembre dai poderosi alberi pino, di cui un tempo era ricco il territorio intorno al nostro Borgo. Per raggiungere le chiome degli alti alberi, si utilizzavano, fino a una certa quota, degli scalilli (scale strette, alte fino a 15 metri) e poi, per raggiungere la quota operativa per la raccolta delle pigne, occorreva scalare il restante tronco dell'albero con le sole forze delle braccia e dei piedi nudi, affrontando la  prova rischiosa, con tanta acrobazia ed equilibrio!
Le pigne raccolte si facevano "aprire" sulle carbonelle ardenti e, poi, con la sapienza del movimento delle mani e delle dita, si riuscivano ad aprivano i gusci, a uno a uno, per trarre i semi, rischiando di bruciarsi i polpastrelli delle dita!
Riscaldamento delle pigne

Ma il lavorio per ricavare i pinoli non era ancora finito, perche i preziosissimi pinoli dovevano essere tratti dal guscio nero che ricopriva i semi. L'operazione era condotta con certosina pazienza da donne e bambini, quando essi erano ancora caldi; spesso la sera, riuniti nella cucina.
A distanza di anni abbiamo capito perché i pinoli costano così tanto anche oggi...!
L'uva passa si comprava presso i negozi specializzanti nella vendita delle spezie o in salumeria, anche se qualcuno riusciva a riprodurla in proprio, dall'essiccazione degli acini d'uva locale, tipo Mangiaguerra o Pere 'e Palummo.
Pigne e Pinoli

La frutta natalizia che offriva il territorio era costituita prevalentemente da mandarini e arance. In ogni masseria e in ogni giardino del Borgo non potevano mancare gli alberi di questi agrumi, naturalmente accompagnati dai limoni chiamati di Sorrento. Qualcuno si vantava di possedere anche "'e limme" (ossia il Limo, una specie di Bergamotto, che forse qui era autoctono) che, per il suo particolare e intenso profumo, era usato per preparare liquori e dolci. Il resto della frutta proveniva dai piennoli (frutta appesa a spaghi), che erano opportunamente preparati a metà autunno e quindi appesi ai balconi, suppigni (porticati) e androni di palazzi e masserie.
"Piennoli" di pomodoro

Tra questi c'erano: i caki (Diasporo), le sovere (Sorbo), i melloni verdi e grappoli di uva sultanina. L'"appesa" si completava con i piennoli di pomodori, mazzi d'aglio nostrano, cipolle e anche le spighe di granoturco, conservate per la successiva semina primaverile.
Finalmente giungeva la sospirata festa:
Natale!
Già di buon mattino, la visita ai genitori e ai suoceri era una usanza che costituiva quasi un obbligo per mariti e mogli, che usavano portare in dono agli anziani genitori un cesto di vimini pieno di generi di prima necessità e anche qualche dolce; il cesto veniva chiamato semplicemente: "'O canisto".
La mattina della Festa si aveva il tempo anche per ricordare i genitori defunti, recandosi
al cimitero per portare loro dei fiori, spesso prendendo una delle corse della ferrovia Napoli Piedimonte d'Alife ('a Piedimonte), per quelli che si trovavano sepolti a Mugnano o a Marano.
Diaspori, chiamati comunemente "Caki"

Piatto centrale del pranzo di Natale erano gli immancabili Capitoni e il Baccalà fritti, come dalla più genuina tradizione napoletana. Seguiva l'insalata di rinforzo con Papaccelle (peperoni) sottoaceto, cavoli lessi e olive. Concludevano, poi, la frutta secca (di noci, nocelle, semi di zucche e castagne del monaco) e, poi, mandarini e arance. Al termine del pranzo era usanza far bruciare le scorze dei mandarini e della frutta secca nel camino; pratica che donava un inconfondibile profumo a tutta la casa! La sera di Natale, come nei giorni seguenti, era d'obbligo giocare alla Tombola. Per segnare i numeri sulle cartelle di faceva uso di chicchi di granoturco o fagioli, oppure cocci di ceramica ricavati da qualche piatto rotto. Ogni numero che era estratto dal cestino (panariello) veniva ironicamente commentato in base al significato attribuito dalla tradizione napoletana, nella Cabala.
Melone per la conservazione invernale

Per il Capodanno si soleva ripetere un po' quello che si faceva a Natale, con la variante di buttare la notte dell'ultimo giorno dell'anno, dal balcone o attraverso la porta, oggetti vecchi non più usati, quelli rotti e anche l'ultimo foglio del calendario dell'anno vecchio.
La Befana era l'unica festa dell'anno dedicata ai bambini; pochi erano i dolciumi che venivano loro donati: qualche caramella e spesso mandarini, noci e nocciole.
Suggestiva era la processione del Bambinello che la parrocchia di San Nicola a Polvica, organizzava ogni anno per le strade del quartiere, portando in processione una bella statuetta di Gesù Bambino. All'evento annuale veniva sempre invitata a suonare, in testa alla processione, la storica banda musicale di Piscinola.
Questa tradizione natalizia si è perpetuata in questo antico Borgo fino a qualche decennio fa, a cui si è poi aggiunta negli ultimi anni anche la Maratona di San Silvestro, che era una corsa podistica, disputata per le strade principali, nel tardo pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno, tra spari di mortaletti e di bengala.

Ecco, questo era il Natale
di una volta, quello "nostro", così come si svolgeva fino a pochi decenni fa...,
"Insalata di Rinforzo"
fatto di semplicità e di speranza. Era il Natale tramandato da secoli, appartenente a un mondo che oggi molti ritengono passato, retrogrado, non all'altezza con i tempi attuali...! Forse sarà pure vero, perché a quell'epoca c'era ancora tanta miseria e la maggior parte delle famiglie viveva ancora di stenti o in linea con quanto riuscivano a guadagnare, per sbarcare il cosiddetto lunario. Il Natale di quel tempo era una festività che potremmo dire "intima", vissuta senza abbandonarsi agli eccessi e agli sprechi, ma apparteneva pur sempre a un mondo che nella sua semplicità donava un
profondo calore umano a ognuno, infondeva la gioia di vivere e fondamentalmente, alimentava la Speranza! Oggi abbiamo perso un po' tutti quella semplicità e quei valori antichi. Riteniamo di possedere tanto, forse tutto, ma è una cocente e pura illusione!
Viviamo in una società consumistica, alimentata da uno pseudo benessere che ha come suo idolo il consumo sfrenato!
Baccala fritto
Siamo dell'opinione che questa società ha perso fondamentalmente quei valori primari che dovrebbero stare al centro di tutto, ovvero: i rapporti umani, la solidarietà e il saper apprezzare le cose semplici... Non è facile farlo capire alle giovani generazioni di oggi, ma forse un giorno, quando essi cercheranno di rompere questo trend e di ritornare di nuovo ai valori umani passati, scopriranno che il mondo si è privato per tanto tempo di questi valori fondamentali per ogni essere umano, in cambio di un effimero progresso materiale, tanto freddo e poco appagante...!

Buon Natale 2021 a tutti!

Salvatore Fioretto
























venerdì 12 novembre 2021

Quel borgo antico chiamato "la Toscanella"

Descriviamo in questo post i brevi tratti storici di un'altra nota località del nostro territorio, situata nell'antica terra di Pulvicae (Polvica, presso Chiaiano); ci riferiamo alle origini storiche de la Toscanella. Abbiamo consultato per lo scopo il volumetto, già preso in prestito in altre circostanze, dal titolo: "Santa Croce ai Camaldoli - Napoli, 1688 - 1988, Ieri, oggi, domani". A cura di Don Camillo Degetto, dal quale riportiamo il paragrafo dedicato:

"Quando la cappella di Santa Croce fu eretta a Parrocchia, nella cura fu compresa la cappella detta di "Santa Maria a Toscanella".
Era un luogo che nel 1714 comprendeva sei nuclei familiari di contadini: Giulio Coppola, coniugato con Giuseppina De Sanctis; Giuseppe Riccio, coniugato con tale Trinchilla; Aniello Semiolo, coniugato con V
ittoria Fontana, Stefano Semiolo, coniugato con Angela Riccio, Giovanni Maisto, marito di Angela Capuozzo e tale Giovanni Sollo, marito di Mattia Ligorio.
Le anime da comunione (cioé dagli otto anni in su) erano 31.
Nel 1799 la cappella era di giurispatronato dei signori Piscicelli-D'Aragona. Attualmente
(anno 1988) i D'Aragona posseggono ancora dei fabbricati colonici nella via del Portone, verso il Frullone.
Essa si trovava proprio al limite del territorio della città di Napoli, in cui era compresa.
L'incrocio di Toscanella, detto poi "Fondina", aveva una certa importanza: di lì, attraverso la via del Portone, poteva raggiungersi il Frullone (da non confondersi con l'attuale ospedale Psichiatrico "Frullone", che ne porta il nome situato proprio sulla scogliera del Frullone), quindi S. Rocco e Napoli, senza dire che la via incrociava, prima di raggiungere il Frullone, la strada che portava "ai Quaranta" e l'altra che, per la masseria di Nicola Bisogni, portava a Ponte Caracciolo (queste strade esistono tuttora). Sempre all'incrocio di Toscanella partiva la strada che portava a Santa Croce; l'altra che portava alle attuali masserie dei Rusciano, al limite del fondo dei Monaci di S. Teresa della Madre di Dio, e quella che conduceva  al Casale di Polvica, dove era il palazzo del Barone e quello del Governatore o Capitano del feudo.
Nel 1779, come si rileva dalla mappa di Giambattista Porpora, ingegnere della Regia Camera della Sommaria, per raggiungere Santa Croce, a Polvica, vi era un'altra strada, accosto all'edicola della Madonna della Croce, alla via  Croce che passava a confine della masseria Paratina, ancora oggi visibile dal largo antistante il cimitero di Chiaiano.
Con decreto dell'Arcivescovo del 29 ottobre 1884, il Rione Toscanella fu scorporato dalla curia parrocchiale di S. Croce e annesso al beneficio della parrocchia di S. Nicola di Bari in "pago pulvicae", cioè al casale di Polvica. Lo stesso parroco di S. Croce, don Luigi Verrusio, non si oppose allo scorporo, attese le difficoltà di comunicazione fra Toscanella e S. Croce.
Verso la fine, salendo da Polvica, dalla Via antica Toscanella, vi era la masseria detta "la Caracciola" dove, nel 1646, vi era la cappella di S. Nicola che apparteneva a Anniballo (Annibale) Capace, che nella S. Visita di quell'anno fu  rivenduta piena di foglie e utilizzata per deposito di vino.
Molti si domanderanno perché il ponte comunemente viene denominato "della Caracciola" e non Ponte Caracciolo. Nei secoli scorsi spesso i cognomi diventavano maschili o femminili a seconda del sesso della persona cui si riferivano; così per Caracciolo che, riferendosi a masseria, diventava masseria la Caracciola".
In merito alla via Barone, a cui si riferisce il testo, il toponimo deriva sicuramente dal Barone Salinas, che un tempo aveva la sua nobile residenza in questa parte del territorio. Di questa struttura restano solo alcune tracce architettoniche sopravvissute. Nel territorio era presente anche la masseria detta dei Teresiani, con annesso tenimento di proprietà dei padri di questo ordine, che avevano in zona anche altri appezzamenti agricoli.
Altra menzione della via Toscanella la troviamo nella celebre guida: Napoli e i napoletani - Guida generale pratica illustrata”, anno 1935. Ed. “La Voce di Napoli”. A pagina 70 si legge: “Polvica (frazione) di Chiaiano. Trovasi a termine del Corso Umberto I° (da via S. Maria a Cubito) e comprende le seguenti vie e piazze: Nicola Romano, Barone, Toscanella, Croce, Chiesa, Napoli e Arco di Polvica”.
Mentre a pagina 91, si legge: “Toscanella (via) Chiaiano. In continuazione delle vie: Corso Umberto I° e Barone – va alla località Ponte Caracciolo, incontro via Margherita.” Infine, a pag. 34 si legge: "Cupa Capuozzi: In continuazione di via Toscanella. Si perde nelle campagne”.

Come si deduce dalla lettura, la maggior parte delle notizie sono state prese dai registri parrocchiali delle chiese del luogo, che sono preziose testimonianze storiche dei territori trattati, a volte uniche fonti disponibili da consultare. In merito all'etimologia del termine "Toscanella" ancora nulla sappiamo di certo. Secondo le fonti consultate, doveva essere il nome di una masseria  esistente in antico tempo nel territorio, ma non si conosce l'origine del termine; tuttavia diverse località dell'Italia centrale presentano il toponimo di "Toscanella", come nel Lazio. Infine, alcune mappe antiche del territorio mostrano il percorso del corso d'acqua che scorreva sottostante al ponte "della Caracciola".

Salvatore Fioretto

venerdì 5 novembre 2021

Il grano e le noci... la ricchezza del nostro popolo...!

Il grano… simbolo di abbondanza!

Il paesaggio agricolo, che un tempo circondava Piscinola, ha conosciuto per secoli il caratteristico colore giallo-oro del grano.

Questo frumento è stato, infatti, coltivato in maniera intensiva fino agli anni ‘40-’50 del secolo scorso, spesso nelle zone agricole sottostanti i vitigni e le piantagioni di alberi da frutta.
La semina e la mietitura del grano erano effettuate esclusivamente a mano. La prima utilizzando piccoli aratri manuali (ferrillo), mentre la seconda con l’aiuto di piccole falci (sarrecchie).
Appena eseguita la semina del grano, i campi dovevano essere sorvegliati costantemente per non farli depredare dagli uccelli. Per tal motivo, a bambini e ragazzi veniva affidato il compito di allontanare gli uccelli dai luoghi della semina. Essi si munivano di bastoni e di contenitori metallici (buatte), con i quali si recavano nei campi producendo rumori fastidiosi per i volatili e cantando ad alta voce questa cantilena:

 Sciò sciò l’auciello,
‘a dint’ ’o ggrano d’ ‘e zzio Aniello,
Sciò sciò auciello…!
Sciò, sciò…!

Il grano, dopo la mietitura, era raccolto in piccoli fasci, legati tra loro utilizzando alcuni steli della stessa pianta.
I fasci erano, quindi, disposti in covoni, per proteggerli dall’umidità notturna o da eventuali piogge. Successivamente grandi quantità di grano erano trasportati nel centro di Piscinola, per essere trebbiato.
Nei pressi di via Napoli Piedimonte d’Alife (‘o canciello) si disponeva di una grande trebbiatrice, che di volta in volta eseguiva la trebbiatura del grano raccolto da ogni singolo contadino.
Questa operazione era considerata una ritualità nel mondo contadino di allora, proprio come un avvenimento di festa, tanto che ogni anno accorrevano per l’evento molti ragazzi e bambini, ma anche donne, uomini e anziani. Tutti erano intenti ad ammirare il concludersi di un ciclo della natura, ma anche ad osservare la gioia che si leggeva sui volti dei contadini, per il buon raccolto portato a termine.

Se la quantità di grano prodotta era invece modesta, la separazione dei chicchi di grano dalle spighe era fatta, come già si è detto, a mano, nelle aie delle masserie. Tuttavia la lavorazione del grano non finiva con la trebbiatura e la pulizia. I semi di grano, infatti, erano riposti in sacchi di canapa, adagiati sui pianali dei carri e portati al mulino, per essere trasformati in farina.
I mulini si trovavano nelle zone di Secondigliano, di Mugnano e di Calvizzano.





L'arte della panificazione

Scavi di Pompei, macina del grano e forno
Tutte le masserie ed alcuni cortili del centro storico di Piscinola disponevano in passato di un forno a legna, adibito alla cottura del pane e delle pietanze casalinghe.
Poiché il forno, come è noto, era un bene di proprietà comune, tutti potevano utilizzarlo, ma dovevano pure concorrere alla manutenzione e alla riparazione. Spesso si dava “ospitalità” anche a qualche vicino, il cui forno non era temporaneamente disponibile per manutenzione.
Durante le festività di Natale e di Pasqua ed in occasione della festa del SS. Salvatore si sfornavano una grande quantità di teglie (ruoti) di capretto, pizze rustiche, tortani, casatielli, dolci, panettoni, biscotti e naturalmente di “pastiere”; ma l’uso prevalente dei forni consisteva nella cottura del pane casalingo e dei suoi derivati, soprattutto le “freselle”. In ogni famiglia il pane veniva prodotto con cadenza settimanale.
I forni venivano sempre alimentati con le “fascine“ raccolte nelle campagne. Ovviamente, a ogni cottura, gli utilizzatori dovevano provvedere a fornire la propria quota di legna.
Le “forme” di pane venivano preparate in ogni famiglia abilmente dalle mani esperte delle donne anziane, la sera prima della cottura. Si utilizzava allo scopo farina di grano duro; quella che oggi chiamiamo di “tipo integrale”. Per il lievito si usava uno o due pezzi di pane fatti fermentare qualche giorno prima.
Di solito, quando la panificazione non era giornaliera, ci si scambiava tra i vicini il lievito di pane.
La formazione del pane avveniva secondo una procedura secolare, tramandata da madre in figlia, che prevedeva una manipolazione interminabile dell’impasto: per avere un pane fragrante e soffice.
L’impasto era preparato all’interno delle case, dentro un recipiente di legno (mattala), utilizzando un affilato attrezzo di ferro per scarificare le superfici. La lievitazione dei pezzi di pane avveniva durante la notte. I pezzi erano adagiati in contenitori di legno (dette pianelle) e coperti con teli di canapa. Già alle prime ore dell’alba si procedeva ad accendere il fuoco nel forno e alimentarlo con fascine e altro legname, fin quando la temperatura della camera di cottura non raggiungeva i valori richiesti.
La valutazione era basata solo sull’osservazione e sull’esperienza. Si puliva, poi, attentamente la superficie del forno, asportando la cenere e i carboni ancora presenti, mediante una scopa di “palma” fissata ad un lungo asse di castagno. La scopa veniva immersa nell’acqua più volte, per non farla bruciare.
Dopo la pulizia del forno, si procedeva a infornare il pane con una lunga pala di legno. Una volta completata la sistemazione dei pezzi, si chiudeva la “bocca” del forno con una portina di ferro e si posizionava nella parte antistante della cenere ardente. Sulla volta della portina, dove c’era della fuliggine, si disegnava con le dita una croce e si invocava la Provvidenza, dicendo la frase: “…Crisce ‘e fatte santo” (ossia lievita e santificati).
Durante la cottura si controllava ripetutamente il pane, spostando e capovolgendo ripetutamente i pezzi, mediante un asse di legno (scazzaturo).
Quando il pane era finalmente cotto, si procedeva a sfornarlo ed a pulirlo accuratamente dalla cenere, mediante teli di canapa. Dopo un breve raffreddamento, i pezzi di pane venivano posti in cesti di castagno (sporte) e trasportati in casa, spesso sostenuti abilmente sopra testa.
Le “freselle" erano ricavate da piccoli pezzi di pane a forma di ciambella e presentavano due fasi di cottura. Si procedeva ad una cottura iniziale, dopo la quale le ciambelle si sfornavano e si tagliavano in due metà sulla linea circonferenziale.
Successivamente si rinfornavano i pezzi, provvedendo a farli cuocere lentamente, fino a quando non assumevano la consistenza richiesta, ossia l’essere diventati dorati e croccanti.
C’è da dire che il pane di una volta, al contrario di quello di oggi, durava almeno una settimana senza indurirsi, mantenendo quasi invariato il sapore e la freschezza.

Le noci
La raccolta e la lavorazione delle noci rappresentavano un altro dei momenti d’aggregazione più importanti della civiltà contadina delle nostre zone e dimostrano quanto fosse forte il legame di solidarietà storico che si era instaurato tra le famiglie piscinolesi.
Le foto aeree del territorio di Piscinola eseguite nel 1929, ma anche quelle eseguite negli anni ‘40 e ‘50, mostrano un territorio pieno di alberi di noci, distribuiti nella piana di Scampia: costeggianti le strade principali, le stradine interpoderali, le cupe e la linea della ferrovia Napoli-Piedimonte.
L’albero di noci ha trovato dalle nostre parti un’ambientazione favorevole per la sua coltivazione, sia per la buona posizione geografica e morfologica, perché predilige un terreno asciutto, particolarmente ricco d’elementi minerali favorevoli al suo sviluppo, sia perché il clima ventilato scongiura il manifestarsi di pericolose malattie vegetali, a cui il tipo d’albero è sempre stato soggetto.
La lavorazione delle noci ha trovato sempre un mercato favorevole e, dopotutto, gli alberi erano anche un ottimo investimento a lungo termine, perché il legno era ed è, tutt’oggi, considerato pregiato nell’industria dei mobili e di altre applicazioni del settore, come parquet, strumenti musicali, ecc.
Gli alberi non richiedevano di particolari cure.
Solo quando erano nella fase di crescita dovevano essere tutelati da una specie di grosso verme, che scavava nel fusto enormi e dannose gallerie.
Raramente necessitavano di potature, se non quelle utili per guidare le giovani piante e quelle occorrenti per la pulizia dai rami secchi. Non occorrevano neanche trattamenti o concimazioni.
L’attività principale era la raccolta delle noci.
Essa aveva luogo a settembre, quasi sempre dopo la festività del “Nome di Maria”, dipendeva comunque dal clima. Infatti l’evento decisivo per la raccolta era la caduta delle prime pioggerelle settembrine, associate al clima ancora caldo.
Questa condizione meteorologica favoriva l’apertura del mallo e il distacco delle noci dai rami. La raccolta delle noci (scugnare ‘e noci), avveniva mediante la bacchiatura, ossia con l’aiuto di grossi assi o pertiche di legno di castagno (fruvoni), lunghi fino a 5 metri.

La raccolta delle noci (disegno)
Con queste pertiche si soleva bacchiare (ossia “scrollare”) le cime dei rami e quindi far cadere le noci. Per raggiungere le cime degli alberi, che a volte superavano i 20 metri di altezza, i bacchiatori (‘e scugnatori) eseguivano una vera e propria scalata della pianta, come veri e propri equilibristi, senza scarpe e senza alcuna protezione. Quando raggiungevano un ramo di appoggio “favorevole”, gli “scugnatori” si posizionavano in maniera stabile, seduti o appoggiati su uno dei rami e iniziavano a bacchiarli, agitando il “fruvone” con le due braccia.
Quando la bacchiatura terminava, essi si spostavano su un altro albero vicino, mentre una squadra variegata di anziani, bambini, donne e uomini procedeva a raccogliere le noci cadute al suolo.
Le noci erano raccolte in cesti (sporte) e, successivamente, riposte in sacchi di iuta o canapa, per il trasporto ai luoghi di trattamento e d’immagazzinaggio.
I sacchi pieni di noci si legavano e si trasportavano nella masseria, con l’aiuto di carriole o carri.  Nella stessa sera o in quella del giorno seguente, le noci erano versate in un’apposita macchina specializzata per l’eliminazione del mallo. Questa macchina era composta da una sorta di crogiuolo in acciaio, tutto rivestito con legno e chiodi, con la base circolare rotante.

"Smallatura" delle noci, foto di gruppo in cortile di via V. Emanuele a Piscinola, anni '60

Il movimento di rotazione era conferito da un motore a scoppio carrellato e da una grossa cinghia di trasmissione in cuoio.
Quando le noci erano nella macchina veniva spruzzata anche dell’acqua per favorire la pulizia delle stesse dai residui di mallo. Nella parte sottostante la macchina fuoriuscivano i residui di mallo, che attraverso un breve canale erano immessi nella campagna circostante. Il mallo costituiva un ottimo concime naturale.
Le noci pulite erano estratte dalla macchina attraverso una porticina laterale ed erano successivamente riposte su un grosso tavolato, per essere selezionate. Dopo la selezione, le noci venivano messe ad essiccare, distribuite sui solai delle abitazioni (lastreco).
L’operazione di essiccatura durava circa una settimana.
Ogni sera, eccetto la prima, le noci dovevano essere raccolte in cumuli, mediante attrezzi di legno a forma di rastrelli. I cumuli andavano coperti con sacchi e tende, per proteggere le noci dalla brina notturna o dalle eventuali piogge. Il contatto con l’acqua o l’umidità notturna avrebbe, infatti, favorito l’insorgenza di muffe e l’apertura dei gusci.
La distribuzione delle noci sul solaio doveva essere molto accurata, perché lo strato di noci doveva risultare uniforme per avere un’essiccazione omogenea. Terminata l’essiccazione, le noci venivano raccolte in sacchi e riposte nei depositi fino al momento della loro vendita.
Il commercio delle noci poteva avvenire in due modi: “per conta” o “per peso”. Il metodo “per conta”, ossia per numero di noci contate, era adottato quando le noci erano venute “verdi”, ancora con il mallo; mentre quello “per peso” era utilizzato quando le noci erano vendute “secche”.
Per avere un numero di noci equivalenti a un chilo di noci secche si dovevano contare almeno “cento noci” verdi con mallo e si doveva poi aggiungere a queste una certa percentuale di noci, per sopperire alle parti difettose e agli scarti. Spesso per la vendita ci si affidava ai sensali della zona (‘o sanzaro).
Quando le quantità di noci raccolte erano modeste ed erano destinate al solo uso familiare, la pulizia ed il lavaggio delle noci erano eseguiti a mano (scurzare ‘e nnoce). Anche in questa circostanza un nutrito numero di parenti e amici si raccoglieva nei cortili e procedeva a “scurzare” le noci. L’evento, che si ripeteva annualmente, si trasformava spesso in una piccola sagra, con tanto di canti, schiamazzi, racconti, risate, degustazione di buon vino e dell’immancabile caffè. Alla fine dell’attività tutti i partecipanti si trovavano con le dita delle mani colorate di “nero pece”…!!

Rievocare oggi, quando siamo nel cosiddetto terzo millennio, questi aspetti storico-antropologici del nostro territorio, ci porta a percepire una delicata sensazione di bellezza e di purezza e, soprattutto, la vita di un popolo che scorreva legata alla coltivazione della terra, che si rinnovava col cadenzare delle stagioni e con i suoi raccolti genuini e abbondanti. Era quello un rinnovarsi della vita, perché il raccolto era visto come una garanzia per il sostentamento della famiglia, assicurato per un intero anno. Altri tempi diremo oggi; purtroppo il cosiddetto benessere, di cui ci fregiamo di godere, ci ha privato invece di poter apprezzare queste semplicità della vita e la bellezza della natura incontaminata e, con esse, di avere un più sentito senso di appartenenza al territorio. 

Salvatore Fioretto

 

I testi pubblicati in questo post sono stati interamente tratti dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore", anno 2010, ed. The Boopen, di S. Fioretto. Le foto inserite sono tratte in gran parte dal Web da siti diversi, a cui si rimanda per la consultazione.