sabato 30 aprile 2016

'O cap''a Chianca, il borgo nel borgo... un'umanità perduta...! di Luigi Sica



Come è noto la strada denominata via del Plebiscito viene da tutti gli abitanti originari di Piscinola indicata con il toponimo di "'o Cap’' a Chianca", questo perché, molto probabilmente in tempi remoti, in questo luogo doveva esserci una rinomata macelleria, da cui Chianca, che sta per "Panca", ossia un asse o un bancone di legno usato per esporre le carni; d'altra parte tutt'oggi nell'idioma napoletano il macellaio viene denominato "Chianghiero". Dal libro di Fioretto si apprende anche che all'inizio del secolo scorso in questa zona si realizzò un piccolo macello comunale, per scoraggiare la ricorrente abitudine dei piscinolesi di macellare in proprio i maiali e altro bestiame, senza nessun controllo veterinario... ma forse all'epoca non c'era tanto bisogno...

Chiesetta Madonna della Pietà, via del Plebiscito, foto Fioretto, 2014

Il nostalgico ricordo di 'o Cape 'a Chianca mi porta a considerare che per la sua vivacità non era da meno dell'altro "capo" di Piscinola, più famoso, già ampiamente descritto in questo blog, ovvero de "O cap''e Coppa".
Il nostro Cap''a Chianca era uno straordinario posto con tanti negozi e negozietti, con un pullulare di ambulanti e c'era anche una rinomata trattoria.
Molti di questi negozianti li ho ricordati nel mio libro "Il borgo perduto" ed. Marotta e Cafiero, tuttavia mi piace qui descrivere questi esercizi seguendo il percorso stradale, che si sviluppa dalla Piazza B. Tafuri verso il ponte della Piedimonte, lato Scampia.

Tatonno ‘o gassusaro 
Don Antonio Ronga era un uomo assai intraprendente, invece di commerciante si potrebbe definirlo un "industriale antesignano", del perché lo capirete seguendo la lettura... In un locale che oggi posizioneremmo tra l’attuale tabaccheria Biancardi e il fioraio Sica, donn’Antonio approfittando di una fontana pubblica posta all’inizio di Via Acquarone, aprì una fabbrica di ghiaccio; con un grosso macchinario di refrigerazione, produceva enormi parallelepipedi a sezione quadrata di ghiaccio e bacchette di ghiaccio della lunghezza di un metro con lato di circa 15 cm. 
Foto panoramica, lato via del Plebiscito, di C. Pernice, anno 2013
Questo ghiaccio che serviva a pescivendoli, venditori di meloni e angurie e di gelati garantiva una attività esclusivamente estiva. Ma il buon donn’Antonio per lavorare tutto l’anno associò a quest’attività la produzione di ‘gazzose’. Tanto di acqua gratuita ne aveva a volontà, zucchero (saccarina), acido citrico e anidride carbonica, acquistati a livelli industriali, costavano poco o niente. Ma donn’Antonio completò la sua piccola impresa con un piccolo impianto di imbottigliamento ed etichettatura con il nome di ‘RONGAssosa’.
La gassosa di donn'Antonio si comprava nelle cantine o nella stessa fabbrica produttrice e serviva per diluire o dolcificare vini pesanti o ‘spunti’ in processo di acidificazione. Tempo dopo lo stabilimento sparì ed al suo posto sorse un bellissimo bar con un ampio saloncino vetrato d’ingresso, arredato con tavolini e sedie. Oltre al locale del bar vero e proprio, all’interno c'era una sala biliardo e una sala per guardare la nascente televisione in bianco e nero...

Nannina ’a malamente 
Il negozio di Nannina, detta 'a malamente, si trovava esattamente dove ora c’è il fioraio Sica. Nannina vendeva stoffe in quel locale che si presentava come un antro buio, con un nauseabondo odore di naftalina e canfora, sostanze usate allore per allontanare tarme, cocciniglie e altri insetti che potevano danneggiare le stoffe. In quel tempo le stoffe erano realizzate prevalentemente con filati di origine animale o vegetale.
Cartolina anni '40
Nannin’a’malamente vendeva tela per i sarti (taffetà per camiciai, orbace, panno casentino o toscano, panno grosso, mussola, georgette in seta, chiffon, organza, cretonne bianco o stampato, batista leggera in lino o cotone, gabardine di lana o seta, stoffe di lana per vestiti e cappotti (pied de poule e spina di pesce), tela di lino per lenzuola, federe), cotoni d’ogni tipo e infine bottoni di variegati colori, dimensioni e qualità. Caratteristico e molto richiesto in quei tempi era il fustagno, una stoffa nera detta “pell’e’riavulo”, per la sua resistenza agli strappi e all’usura, adatta per i pantaloni dei contadini. I suoi figli, si alzavano di buon ora la mattina e uscivano di casa con enormi sacchi di panno nero sulle spalle. Praticavano l’ambulantato a piedi, recandosi nei paesi vicini: Marianella, Chiaiano, Marano, Mugnano, Arzano, Grumo Nevano, Secondigliano, Casandrino ecc...

Don Mario Sica (fioraio)
Veduta aerea del Cap''a Chianca...
Il negozio di don Mario Sica (mio zio) era (e resta tuttora) la fioreria più accorsata di Piscinola. Il retro del negozio sbucava in un cortile attraverso il quale, tramite una breve scalinata, s’accedeva in un giardino che aveva del fantastico, perché conteneva un'immensa varietà di specie vegetali: rose, camelie (bianche e rosse), palme, philodendron, garofani, phicus semplici e benjamin variegati, cespi di capelvenere ed orchidee difficili da coltivare, insomma era una foresta di specie indigene ed esotiche! 
Non c’era festa d’onomastico, di nascita, di battesimo, di comunione o uno sposalizio che non fosse addobbata da Mario Sica il fioraio e, ovviamente, nemmeno una cerimonia funebre. 
Tra le tecniche di addobbo floreali utilizzate da zio Mario ricordo l'utilizzo di particolari arbusti che crescevano spontanei ai lati del binario della Piedimonte, chiamati 'e fetienti, a causa dell'odore nauseabondo emanato dal fogliame. Nel nostro territorio si trovavano da per tutto; ricordo che da ragazzo mi fermavo a guardare i lenti treni della Piedimonte che, avanzando, aprivano spazi tra i folti cespugli di questi arbusti... Avevano uno stelo dritto, alto anche più di un di un metro, che venivano sezionati e servivano da supporto per sostenere i delicati fiori e poter comporre cuscini oppure corone (ghirlande) sorrette a loro volta da grandi foglie di palma, che diventavano l’emblema d’ogni funerale o delle ricorrenze storiche.

Felice ’e po' parlamme,
Portale della proprietà Del Forno, foto Fioretto, 2004
Felice era un ciabattino che amava intrattenersi a parlare con la sua clientela. Sovente quando  iniziava a raccontare un fatto, improvvisamente interrompeva il racconto, chissà se per mancanza di memoria o per sua tattica, dicendo la proverbiale frase finale "po' parlamme’" (poi ne riparliamo). Se Felice avesse solo voluto mantenere fede a tutti quei numerosi rimandi, non gli sarebbero bastate altre tre vite...
Ebbe un solo figlio molto dedito allo studio, che divenne esempio e scorno di tutti i ragazzi svogliati, me compreso. Talvolta, quando frequentavo le medie, mi mandavano da lui a ripetizione; con gli anni ho capito che quel ragazzo, laureando in lettere e filosofia, era, almeno in quel tempo, un ragazzo molto timido e riservato, con un gran desiderio di affermarsi nella vita e compensare i genitori dei sacrifici che avevano compiuto per sostenerlo.
Pascalino d''a lavanderia’ (sig. Pasquale di Vaia),

quando Nannin’a’ malamente chiuse il suo esercizio commerciale, sorse sul lato opposto della strada la lavanderia di Pascalino, dove oggi c’è il bar Scopato. Pascalino vendeva tutti gli articoli di merceria e per sartoria che in precedenza erano venduti da Nannina e in più esponeva: shampoo, deodoranti, smalti per unghie, rossetti ed altri articoli per donne. Iniziò a svolgere il servizio di lavanderia, ritirando coperte e capi di vestiario sporchi, che provvedeva a portare in una lavanderia industriale che si trovava in centro, nei pressi di Piazza Carlo III.
La cantina don Vincenzo Di Guida

Festeggiamenti del SS. Crocifisso, processione in via del Plebiscito, anni '50
Era la più grande cantina trattoria di Piscinola. Dalla "sala di mescita" dei vini si accedeva ad una sala trattoria e da qui ad un retrostante spazio all’aperto con annessa pista per il gioco delle bocce. Questa cantina, alla pari di quelle di Don Lurenzo e dei Sarnacchiaro, offriva alla clientela ciò che si preparava giornalmente, direi in maniera molto casereccia, ma a differenza delle prime era frequentata da numerosi cacciatori che tornavano dalle battute di caccia che si tenevano nelle terre delle lontane masserie oppure a Scampia. Essi si ritrovavano qui per gustare il pollo o il coniglio alla cacciatora, gli antipasti con affettati di formaggi e salami, prodotti dalle stesse mani dell’oste, don Vincenzo, che era anche uno stimatissimo cuoco, e offriva altri piatti forti, come: i funghi, fritti o arrostiti, i rinomati risotti e le famose pappardelle, preparate in casa dalle anziane contadine del posto...
La salumeria di donna Giulia Biancardi

La salumeria era posta quasi alla fine di via del Plebiscito e vendeva gli stessi prodotti delle ‘puteche’ piscinolesi, solo che all’interno del cortile retrostante disponeva di un forno, che era attivo tutta la notte per produrre un pane ricercato da numerose famiglie di Piscinola e anche da fuori contado. Erano in tanti a preferire "'o ppane 'e onna Giulia a putecara, abbascio 'o Capa 'a Chianca...!"
Portale ad arco della proprietà Del Forno, foto Fioretto, 2014
Il tenimento di Don Mimì del Forno

Sulla via del Plebiscito si trovava (e si trova tutt'oggi) il caratteristico doppio portale di tufo che fungeva da arco di ingresso della proprietà di don Mimì del Forno, famoso imprenditore agricolo, abitante a Materdei.
In questo luogo, infatti, Don Mimì aveva il suo tenimento agricolo, che era molto vasto e soprattutto curato, dove erano selezionate pregiate varietà di pesche che venivano presentate nei vari congressi specialistici italiani, ricevendo spesso dei riconoscimenti e premi, con recensioni su riviste specializzate del campo. Della varietà di pesca di Mimì del Forno e di altri aneddoti legati alla figura di questo apprezzato imprenditore a Piscinola, sono stati dedicati altri post all'interno di questo blog.

Tra i tanti venditori ambulanti ricordo: don Silvestro, che d’estate vendeva la "rattata" (granita di limone), in primavera, caramelle e d’inverno castagne lesse; don Vicienzo e don Rafele ’o caramellaro, che vendevano caramelle con dei caratteristici banchetti di legno muniti di lastre di vetro scorrevoli; don Ciro 'o piattaro, che vendeva piatti, bicchieri, posate in alluminio, pentole, bacili e bagnarole di stagno; Donn’Eugenio ’o pulezzastivali, che lucidava scarpe con tinture e cere di sua produzione. C'erano altri ambulanti che ora non ricordo molto bene il nome, che ormai sono entrati nell’immaginario collettivo piscinolese.
Portale ad arco e cortile palazzo "Staviano", foto Fioretto, 2014
Desidero infine ricordare tra gli antichi contadini di Piscinola, che spesso si incontravano per strada, quelli che mi sono rimasti impressi nella mente con i loro caratteristici soprannomi: Palle ’e Cercula (forse originario del territorio di Cercola), zì Cicchella, e’ Vizze, Rafiluccia ’a Mossa, Senz’ossa.

Senz'ossa era un contadino, abbastanza in carne, che abitava nel palazzo posto a confine con il giardino di Villa Vittoria. Era molto bravo a crescere polli, conigli e soprattutto maiali, che ingrassava al punto che non erano più capaci di stare sulle proprie zampe. Sapeva fare un vino apprezzatissimo e produrre salami, capicolli, prosciutti e salsicce di un sapore ricercato e non più gustato.
Altri tempi!

Luigi Sica



Ringrazio l'amico, Luigi Sica, per aver contribuito con quest'altro suo bel racconto alla ricostruzione di un altro pezzo della storia recente del nostro amato Borgo. S.F.
Chiesetta Madonna della Pietà, via del Plebiscito, foto Fioretto, 2014
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