venerdì 7 giugno 2024

Un marianellese con S. Alfonso nel Cuore... Padre Francesco Minervino

"Il P. Francesco Minervino è passato da questo mondo al Cielo il giorno 15 ottobre 1988 nella nostra casa di Pagani. Il confratello dalla seconda metà del mese di agosto era stato ricoverato prima al Vecchio e poi al Nuovo Pellegrini di Napoli per una grave anemia perniciosa che gradualmente e per successive complicazioni lo ha condotto alla fine della sua vita.
Il P. Minervino Francesco era nato a Marianella di Napoli il giorno 11 giugno 1909. Entrò nel nostro Educandato di Ciorani il 27 settembre 1920, ha professato nella nostra Congregazione il 3 ottobre 1925 a Pagani, ha fatto i suoi studi ginnasiali e filosofici a Cortona e quelli teologici a S. Angelo a Cupolo ed è stato ordinato Sacerdote il 1 novembre 1932 a S. Angelo a Cupolo.
Nelle note bibliografiche ci ha lasciato un resoconto completo della sua vita e delle sue attività. Così scrive: “La mia vocazione si deve al fatto che facevo il chierichetto nella cappella di Marianella. Con l’aiuto del P. Schiavone e di don Camillo De Risio entrai nell’Educandato di Ciorani”.
Il P. Minervino ha realizzato la sua vocazione vivendo nelle nostre co­munità di Morcone, S. Angelo a Cupolo, S. Andrea Jonio, Tropea, Tea­no, Curato, Marianella, Napoli, Pompei, Pagani.
Egli stesso ci attesta che è sempre stato missionario e predicatore. Ci ha lasciato un elenco di numerosissime Missioni popolari alle quali ha partecipato e di alcune predicazioni soprattutto sulla Madonna e su argomenti vari. Tra i suoi appunti si legge: “Conto gli anni del mio sacerdozio dai mesi di maggio che ho predicato. L’anno scorso (1980) furono più i giorni che sono stato in predicazione che quelli a riposo
“.
 
Per 15 anni è stato penitenziere a Pompei. Per un solo anno (1933) il P. Minervino è stato lettore nello studentato a S. Angelo a Cupolo.
Il confratello inoltre ha ricevuto come incarichi speciali nella nostra Provincia quelli di Procuratore Provinciale, Consultore Provinciale, Superiore della casa di Napoli, Maestro di secondo Noviziato, ed Archivista Provinciale.
Durante il periodo della sua permanenza a Napoli è stato Assistente di Azione Cattolica femminile del quartiere di Montesanto e nella comunità parrocchiale di S. Domenico Soriano.
Il P. Minervino ha anche scritto alcuni libri di utilità comune: “Le nostre Missioni” (3 vol.); lunghi schemi sulle istruzioni e prediche; un Catalogo dei primi membri della Congregazione e della Provincia Napoletana (2 vol.); un Inventario dei documenti custoditi in archivio; un opuscolo “Per vivere con Dio quale regolamento di vita cristiana“, e molti articoli per le riviste e i giornali.
Negli ultimi due anni della vita ha curato la pubblicazione della Rivista S. Alfonso.
Credo che il ricordo del P. Francesco Minervino resterà vivo nell’animo di molti confratelli e di molta gente che lo hanno incontrato ed hanno potuto ammirare il suo zelo apostolico e la sua comprensione e benevolenza nel sacramento della Riconciliazione.
Spesso ripeteva: “A me interessa lavorare per Dio e per le anime“.
Il suo spiccato senso di appartenenza alla Congregazione e alla Provincia, il suo amore a sant’Alfonso e alla sua opera, il suo instancabile lavoro missionario ci spronano a non risparmiare le nostre energie perché ciò che costituisce l’eredità alfonsiana più autentica possa oggi incrementarsi e migliorare per mezzo della nostra collaborazione e la nostra partecipazione.
L’interesse che il P. Minervino ha dimostrato nel riordinamento dell’archivio è stato in questi anni ammirato ed incoraggiato a più livelli e a più riprese.
Questa sua opera susciti interesse alla documentazione e allo studio della nostra storia soprattutto in qualche confratello che possa continuare a lavorare nello stesso settore con pari amore e generosità.
Colgo l’occasione per ringraziare sentitamente i confratelli e i laici che si sono offerti per assicurargli una assistenza continua e notturna in ospedale ed esorto tutti a voler pregare perché il caro confratello possa ottenere un copioso premio per le sue buone opere."

sabato 1 giugno 2024

"Vecchi ricordi di un marianellese", di padre Francesco Minervino

Proprio in questi giorni ci siamo imbattuti nella rilettura del bel libretto: "Marianella con la sua Chiesa nella storia", scritto e pubblicato nel maggio 1982 (seguito da altre due edizioni aggiornate negli anni), dai ragazzi dell'Azione Cattolica di Marianella, coordinati dall'allora Parroco, Don Salvatore Nappa, che abbiamo avuto il piacere di conoscere e frequentare quando era diventato parroco emerito di Marianella. Il libretto già lo conoscevamo, per aver curato la bella mostra allestita a Piscinola nel lontano 2004, sulla storia di Piscinola e di Marianella, perchè da esso attingemmo molti spunti di storia locale e riproducemmo le preziose foto d'epoca contenute. Ritornando a quanto sopra dicevamo, abbiamo riletto con maggior attenzione e con un pizzico di nostalgia la testimonianza scritta da don Francesco Minervino, che descrive uno spaccato di vita sociale dell'antico borgo di Marianella, così come si osservava nei primi decenni dello scorso secolo, e ci piace oggi pubblicarlo, per farlo leggere ai giovani e a quanti non hanno avuto ancora occasione di leggerlo.

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"Quando ero ragazzo, Marianella era un villaggio, campestre. A Pizza Chiesa vi erano la Parrocchia, la Congrega e qualche casa semidiruta e nella Piazza Umberto I dominavano il palazzo Landi e il gruppo di case dei De Rosa: qualche altra casa, sempre fatiscente, esisteva nel "campo" e nel "campitello". A Via Case Marfella esisteva, infondo, un filare di vecchie case e da poco di fronte al palazzo Amitrano  era sorto un grosso edificio. Al Corso Napoli, caratterizzato da una grossa fila di Platani secolari non vi erano che il palazzo Morricone ed un paio di palazzi già vecchi, più però ve ne erano a Via Piscinola e a Via Indipendenza. Vi erano poi le masserie: "Renza 'e coppa, Renza 'e vasce", Vialletta, il Carduino e San Giovanni.
Quando nacque S. Alfonso, certamente non esisteva che la Parrocchia, il suo palazzo, e questi pochi palazzi circondati da campagne. Era proprio un luogo di villeggiatura.
Tra Marianella e Napoli non esisteva che la Via (era un viottolo) detta di S. Giovanni, attraverso la quale si giungeva  a San Rocco, e di quì si proseguiva per la Via di Sotto che attraversava Capodimonte. L'attuale via ('a via nova), tra il Garittone e Marano col grande ponte a San Rocco, fu resa agibile a tutti gli effetti verso il 1912.
Allora, si cominciò a scendere a Napoli con carretti dotati di sedili: poi vennero i trams. Ricordo che nel 1919 quando io e gli altri ragazzi, scendevamo a Napoli, per frequentare le classi ginnasiali, ci appendevamo dietro per non pagare il biglietto.



Vi era anche il gas; e per le strade e la piazza si allineavano i lampioni.
Anche nelle feste le illuminazioni stradali erano a gas. In quel tempo anche installate alcune fontanine di acqua del Serino in vari punti del Paese, ove la gente si portava per attingere acqua, mentre i ragazzi si divertivano spruzzandola sui passanti. I Padri (Redentoristi) avevano una cisterna che tenevano piena d'acqua piovana, nel timore che fossa mancata l'acqua del Serino e così essa sarebbe servita per essi e il popolo; durante l'ultima guerra fu preziosa.
Esistevano quattro "cupe": quella tra Chiaiano e Marianella; l'altra del Carduino; la terza fiancheggiava il muro di cinta del giardino dei Padri; e la quarta ov'è ora Via dell'Abbondanza. Erano luoghi di incontro di noi ragazzi che le frequentavamo per parare le tagliole e catturare gli uccelli, mentre i grandi vi stendevano le reti.
Marianella (come i paesi vicini) è sempre stato un paese di povera gente. Pochi uomini riuscivano a trovare lavoro a Napoli e il più delle volte scendevano a piedi per risparmiare il costo del tram.
Le donne erano in gran parte sartine, ma più specialmente lavandaie e guantaie. Le campagne erano ben coltivate: pesche, ciliege, pere, mele e noci vi prosperavano: poco grano e il granone (granoturco). Abbondava invece la canapa: in autunno, in tutti i cortili vi ergevano cataste di fasci di canapa essiccata che si maciullava con la gramola ('a macenela).
Le famiglie distinte erano poche: una sola ragazza per quanto mi ricordi fu educata in collegio e le mamme l'additavano ai figli come esempio. Le altre ragazze erano educate in casa e (come si diceva)  crescevano attaccate alle gonne delle madri. Si diceva: "Marianella è 'o paese rè figliuole belle" ed era così.
Il pranzo della gente povera consisteva in un solo alimento che si somministrava in una grossa zuppiera; ma alla domenica era festa, si facevano gli zitoni al ragù o gli strangulaprievete (gnocchi) con braciole e polpette. Nelle ferie abitualmente, pasta e fagioli, riso e patate, ciceri e tagliatelle, pasta e lenticchie e verdura in quantità. Per i ragazzi zuppa di pane e latte al mattino, cena per nessuno, perchè si pranzava al ritorno degli uomini da Napoli. Negli intervalli si sbocconcellava del pane, quando c'era, perchè allora non esistevano panetterie, che incominciarono solo verso il 1920. Ogni famiglia faceva il pane in casa e in ogni cortile vi era un forno. La confezione del pane impastato nelle grosse madie era come un rito: si avvicendavano le mamme e le figlie ed era come una festa di famiglia. Uno spettacolo ancora più interessante era la preparazione dei dolci nelle festività: non mancavano neppure per i poveri. A Natale mustacciuoli, struffoli, susamielli, raffaiuoli, taralli e pizze dolci.
Tutti i fanciulli frequentavano le scuole: l'asilo infantile si trovava nel palazzo della scuola media, attualmente abbattuto (anno 1982), adiacente al palazzo Merricone. La 1^ elementare si teneva nel palazzo Lampo; la 2  e la 3 nel palazzo a sinistra di via Chiesa; la 4 elementare si faceva a Piscinola, essendo pochi i ragazzi di Marianella. Alla uscita di scuola era quasi immancabile ingaggiare battaglia tra piscinolesi e marianellesi a colpi di pietra, nel tratto tra il "Principino" e Marianella ('a vainella). Dopo la scuola l'unico posto di incontro era la Chiesa.
Il catechismo si insegnava a classe, in Parrocchia e anche in Cappella, da brave signorine insegnanti. Per la prima comunione si interessava la Sig.na Benigni maestra d'asilo coadiuvata da una sua sorella che abitavano in via Ramaglia. Dalla loro casa si andava in corteo in Chiesa per ricevere la Comunione, che si faceva a sette anni. La preparazione immediata ad essa per noi ragazzi si faceva in una cappella antistante la casa dei Redentoristi che è stata abbattuta e come premio avevamo solo fichi secchi. Il mese di maggio era un avvenimento: era il mese delle signorine che gareggiavano nell'onorare la Madonna.
Si predicava da una cattedra eretta al lato destro della Chiesa. Ricordo ancora con nostalgia, l'eco del "al tuo piè Maria diletta". Nell'ultima sera mentre il predicatore tornava in sacrestia veniva ricoperto di fiori. Esisteva la "shola cantorum" diretta dai Saetta: quando le signorine cantavano in cappella questa si trasformava in paradiso.
La cappella poi era frequentatissima: alla domenica le donne invadevano perfino il presbiterio e gli uomini assiepavano la sacrestia. Anche la Parrocchia era frequentata: alla domenica per l'ultima Messa era così gremita che gli uomini l'ascoltavano dalla Piazza. Eterna emulazione tra le associazioni del Carmine e di San Vincenzo, solo più tardi ci fu quella di San Giovanni. Si faceva a turno la festa: luminarie a gas acetilene, banda musicale locale, imponente processione, con la partecipazione delle associazioni dei paesi vicini, sparo di mortaretti (maschi) al mattino e fuochi d'artificio alla sera con gara tra i fuochisti.
In una delle sere si riffava ciò che i contadini avevano dato in dono. Solo in queste feste si vendevano i gelati a crema, abitualmente però si gustava il sorbetto (la limonata). Anche perché allora non esistevano bar, ma vi erano molte cantine per cui non era difficile imbattersi con ubriaconi.
La moralità dei marianellesi era encomiabile anche perché ottimi e zelanti parroci si erano succeduti in Parrocchia. La presenza dei Padri Redentoristi garantiva poi una formazione rigidamente cristiana: non ricordi episodi riprovevoli in quel tempo.
Il fidanzamento era praticato secondo le leggi della morale: visite brevi e non frequenti, in genere alla domenica e sotto sorveglianza dei genitori. E del resto era impossibile permettersi alcuna leggerezza perché allora si abitava in una grande stanza e si era costantemente sotto lo sguardo dei genitori e dei fratelli: all'Altare si giungeva veramente vergini.
Il matrimonio era molto semplice, tra gente povera: si formava un corteo con a capo gli sposi, seguiti dai parenti e dalla casa della sposa si andava in Chiesa; si usava la sola distribuzione dei confetti, e solo pochi si permettevano di dare taralli con la sugna, vino, biscottini, ancinetti (tipo di dolce all'anice - n.d.r.) e vermouth.
Il giorno precedente si portava in mostra il corredo della sposa dalla casa della madre alla nuova abitazione e per la mobilia tutto si riduceva al letto, un tavolo, qualche armadio e poche sedie.
Non vi è stato mai a Marianella un luogo di svago o di ritrovo essendo un sobborgo di Napoli. Le strade anguste e senza marciapiede non permettevano una passeggiata, non vi era nè una Villa né una grande piazza meritevole di questo nome, non vi era una biblioteca (adesso però c'è presso i Padri Liguorini e chi vuole ne può usufruire).
Al ritorno dal lavoro gli uomini si raccoglievano nelle cantine per bere e per giocare, solo la domenica essi andavano nelle masserie, dove era facile farsi anche una partita a bocce: la più frequentata era la masseria di Peppina 'a Corta alla periferia di Chiaiano.
I giovani se avevano soldi se ne scendevano in città per assistere a qualche spettacolo o si portavano a casa della fidanzata se l'avevano, mentre i ragazzi facevano quello che sempre hanno fatto e cioè giocavano fra di loro: i giochi erano "'a campana, mazza e piuzo, le comete, gli strummoli, il maglio per lanciare lontano una pallina di legno, gli schioccarielli di sambuca, corsa a piede e coi cerchi, oltre alle buccelle e 'a nascunnarella".
Da non dimenticare: Marianella con Villaricca, aveva di singolare, l'allevamento di cani da presa o mastini napoletani, cani feroci, ai quali si tagliavano le orecchie e si castravano. Erano il terrore  delle masserie, e anche adesso sono ritenuti i migliori cani da guardia, richiesti in tutto il mondo.
Veniamo ora alle condizioni sanitarie. Le epidemie erano di casa a Marianella. Lo spettacolo dei "morticelli" (Il più funesto ricordo della mia infanzia) si ripeteva frequentemente, e noi ragazzi andavamo raccogliendo i confetti che si gettavano ai bambini morti. La "Spagnola" trovò il terreno adatto per svilupparsi in una borgata ove l'igiene era sconosciuta e dove di cessi ne esisteva uno solo per cortile, con continue risse perche si otturavano. Il Tifo Petecchiale non ha avuto però fortuna a Marianella! Di medici ve n'era uno solo: don Gaetano Landi; e qualche "vammana": il medico era come una persona di famiglia.
Per le esequie provvedeva la Congrega: i fratelli si vestivano col camice bianco con mantelletta celeste e con in testa un cappuccio con due fori per gli occhi: e questo costituiva  un vero e proprio spauracchio per noi ragazzi.
E' quanto la memoria mi ha dato modo di ricordare ai miei concittadini giovani e anziani per onorare con Marianella i marianellesi del passato: e sono grato, per questo, al Parroco amico Don Salvatore Nappa perché è riuscito attraverso i giovani di azione cattolica della Parrocchia a dare alla storia tutto quello che di buono, e non è poco, praticavano i nostri antenati."

Padre Minervino Francesco

Marianella dei nostri tempi (nuovi alloggi di ediliza popolare)


sabato 25 maggio 2024

Della serie i racconti della Piedimonte: "Paisanella ca tutt’ ‘e matine piglie ‘o treno d’ ‘e sette e diece"… Di Luigi Fiorentino

Per la serie "I racconti della Piedimonte", ecco un altro bel racconto scritto da Luigi Fiorentino e pubblicato nel sito dell'associazione Clamfer (www.clamfer.it) alcuni anni fa, s'intitola "Paisanella ca tutt’ ‘e matine piglie ‘o treno d’ ‘e sette e diece".
Il racconto è stato inserito anche nell'appendice del libro "C'era una volta la Piedimonte", ed. Athena, anno 2014, di S. Fioretto.

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"In una bellissima ed azzurra giornata di un marzo, reduce da uno sciopero scolastico, mi ritrovai a passeggiare fra negozietti e bancarelle di Porta Capuana, con Mara, graziosa e riservata studentessa del liceo Garibaldi di Napoli.
Il tempo passò veloce ed all’orario di partenza
l’accompagnai in Piazza Carlo III dove c’era lo scalo del treno che ogni giorno la portava in città dalla provincia di Caserta.
In un angolo di questo maestoso spazio cittadino, sorgeva un grazioso fabbricatino grigio e rosa che allocava il fabbricato viaggiatori della Ferrovia Napoli-Piedimonte d’Alife.
I suoi servizi essenziali: l’ufficio movimento e
capostazione, la biglietteria con sala d’aspetto ed il deposito bagagli, erano sistemati in fila nei locali che si aprivano sul marciapiede; l’ultimo vano era riservato ad un piccolo caffè ristoratore la cui macchina espresso inondava l’aria di vapore dal vago sapore di cappuccino.
Prospicienti gli uffici erano presenti due binari, dove
sostavano i treni viaggiatori. Le modeste carrozze dei convogli erano fornite all’interno di sedili di legno, di porte e finestrini che funzionavano solo manualmente. I vestiboli d’ingresso agli scompartimenti, posti su alti scalini, erano protetti solo da precari cancelletti di ferro.
Questo permetteva ai viaggiatori di salire e scendere in assoluta libertà. Ogni convoglio in partenza, attraversando la piazza a velocità ridotta per cautela, consentiva a numerosi ragazzi del vicino borgo di Sant’Antonio Abate di rincorrere i treni ed attaccarsi per divertimento alle carrozze, fra il timore e l’ilarità dei viaggiatori.
Sullo staffone della motrice di testa viaggiava un addetto
della stazione che, con gli squilli di una trombetta e lo sventolio frenetico di una banderuola rossa, fermava il traffico di carretti, pedoni ed auto, che in quel tratto interferivano con i binari ferroviari. Ciò doveva servire ad agevolare il procedere del convoglio e prevenire spiacevoli incidenti.
Accadeva poi che i treni in arrivo, attraversando con lentezza la lunga e spaziosa piazza prima di arrestare la loro corsa in stazione, consentivano a molti audaci e frettolosi passeggeri di saltare giù dai vagoni ancora in movimento, concludendo sovente le loro acrobazie con spettacolari e rovinose cadute. A queste mie personali osservazioni della ferrovia, Mara che se ne serviva ogni giorno per recarsi a scuola, aggiunse le sue lamentele per l’insufficienza di posti a sedere, per i ritardi smisurati e talvolta per la cancellazione improvvisa di qualche corsa. Pertanto non ci fu grande sorpresa quando, quel giorno, apprendemmo che la corsa pomeridiana era stata spostata presso lo scalo merci posto sulla salita di Via Don Bosco. Più tardi scoprimmo che lo spostamento era affatto occasionale, ma rappresentava una novità in pratica definitiva.
Questa nuova stazione di testa si apriva su un grande e squallido terrapieno che disponeva di un paio di capannoni in muratura, una fontanella il cui getto fuori misura creava chiazze di acqua e fango; una lunga pensilina in lamiera, appoggiata su tubi Innocenti tra i due binari, serviva con precarietà a proteggere i viaggiatori in attesa dalle intemperie. Un poco più in là, sostavano alcuni carri merce abbandonati. Tutt’intorno si apriva una bellissima campagna piena di verde e con una
vista totale e spettacolare sul golfo di Napoli.
Il treno non era ancora arrivato e nell’attesa scendemmo alcune balze di quella bella campagna. Per riposarci ci sedemmo su due pietre poste lì come due sediolini di una sala d’attesa. Dopo esserci divise una piccola colazione che aveva Mara ed una sigaretta nazionale che avevo io, la ragazza che non aveva mai perso quella sua aria seria ed infastidita, incominciò a parlarmi come ad un vecchio amico.
Mi raccontò della sua famiglia che viveva di agricoltura in una masseria posta tra San Tammaro e la frazione di Carditello; del suo grande desiderio di continuare gli studi dopo il liceo, di laurearsi e vivere in città.
Ai genitori, estremamente condizionati dalla mentalità mediocre del paese, non perdonava di averla chiamata Tammara in onore del Santo Patrono locale, di vietarle di
indossare i pantaloni e di fumare qualche sigaretta.
Presi coraggio e raccontai delle difficoltà nel frequentare
la mia scuola, dei difficili rapporti con i miei genitori e del mio grande desiderio di lavorare subito. Conclusi dicendole che anch’io avevo un nome, Pasquale, poco gradito. Mi era stato imposto per far piacere ad un noioso zio senza figli.
In poco tempo si instaurò fra di noi un bellissimo clima
cameratesco di appartenenza generazionale. Ci sentimmo eroi vicini e solidali che lottavano come tutti i giovani, contro le incomprensioni di una società vecchia ed arretrata.
Proprio quando in quel momento nasceva fra di noi
un’amicizia non sentimentale ma fatta di bei sentimenti condivisi, il silenzio della campagna fu rotto dal fischio del treno che si apprestava a partire verso Piedimonte.
Appena il tempo di un sincero arrivederci ed il lungo ed affollato convoglio si mosse; prima lentamente, poi avanzò deciso verso la piccola galleria scomparendo definitivamente.

Epilogo: La Ferrovia Alifana dopo vari arretramenti scomparve per sempre nel 1976.

Mara, la ragazza, si laureò nel 1963 in chimica. Fu presto assunta nel CNR vincendo nel 1975 un premio per la sua ricerca sulle plastiche industriali.

Pasquale, la voce narrante, restò un romantico, visse una vita di lavoro ed una volta in pensione si convinse ancora di più, che il lavoro sia il migliore dei passatempi."

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Ringraziamo ancora l'autore per questo bel racconto e tutti gli amici dell'Associazione "Clamfer" di Napoli.

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In appendice a questo racconto ci piace spiegare la fonte del titolo del post, che è rappresentata dalla prima strofa della canzone napoletana "'O treno d''a fantasia", scritta proprio nel periodo al quale risale il racconto e, ancora (per seconda curiosità), che questa canzone fu cantata nel corso delle scene di un film, di uguale titolo, nelle quali è ripresa proprio la nostra Piedimonte..., ma questo sarà l'argomento di un altro dei racconti della serie...!

Ecco la canzone e il testo:

'O treno d''a fantasia (link della canzone interpretata da Gloria Christian, cliccare con il mouse)

Musica di Luigi Ricciardi, versi di Augusto Cesareo, 1957; interpreti: Sergio Bruni, Gloria Christian, Aurelio Fierro.

IL TESTO:
Paisanella ca tutt' 'e matine
piglie 'o treno d' 'e sette e diece
,
cu' chist'uocchie culor curvine
mai te veco 'e me guardà.
Tu t'assiette vicino 'o spurtiello,
e smaniosa annascunne 'a cartella,
po' a' 'ntrasatte te pitte 'a vucchella,
guarde ll'ora e te miette a penzà...

Ritornello:
E ttuffe, e ttuffe e ttuf!
E 'o pensiero che corre e và
e p' 'e strade d' 'a fantasia
'a stu treno te faie purtà!
E ttuffe, e ttuffe e ttuf!
pe' te 'e rrose so' senza spine,
'e speranze so' tutt' 'e bene...
pure 'e llacreme so' canzone...
E ttuffe, e ttuffe e ttuf!
già te vide e' 'o velo 'e sposa,
ma ll'ammore ca pienze tu...
E ttuffe, e ttuffe e ttuf!
manco a Napule ce sta cchiù!...

Paisanella ca po' tutt' 'e sere
te ne tuorne c' 'o stesso treno,
a chi puorte dint' 'o penziere
io vulesse andivinà.
Ogni ghiuorno, ogni ghiourno è 'nu mese
pe' chi passa 'na vita 'o paese,
ma pe' mme - d' 'a durata 'e 'na rosa
è st'ammore che smania te dà! 


Ritornello:
E ttuffe, e ttuffe e ttuf!


Finalino:
Chisto è 'o treno d' 'a fantasia...

S. F.

venerdì 17 maggio 2024

Comm'era bello 'o Capo 'e Coppa!... Un terremoto per cambiare Piscinola...!

Via V. Emanuele, presso la cappella del SS. Sacramento, anno 1978 (da video)

In questi dieci anni e passa di pubblicazioni di "Piscinolablog" abbiamo narrato tanti aspetti della storia di questo quartiere, personaggi, eventi, organizzazioni, episodi comunitari: sono stati spesso argomenti edificanti, positivi, che hanno destato non poco orgoglio negli animi dei concittadini, ma anche l'ammirazione dei lettori..., tuttavia, come si sà, la storia di una comunità non è fatta solo di rose e di fiori e, come in ogni vissuto, ci sono anche i periodi bui, i momenti negativi..., come quelli che hanno riguardato gli eventi dell'ultimo conflitto bellico mondiale oppure le varie epidemie e le rivoluzioni che pure sono accadute nel corso dei secoli. Quello che stiamo per raccontare oggi è un altro "evento" poco felice della storia di Piscinola, perchè legato a un periodo non proprio positivo, capitato in un passato abbastanza recente che, come i primi, ha segnato profondamente la storia e anche la vita di tanti piscinolesi, e i cui effetti sono ancora presenti nell'attualità: il Terremoto del 1980...!

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Pianta ottocentesca del centro storico di Piscinola
(manca l'ed. Tasso, completato solo nel 1930)

Il terremoto del 1980 non ha inferto danni significativi all’edificato del centro storico di Piscinola. Sicuramente ci sono state crepe nei muri, balconi pericolanti, archi puntellati, qualche vicolo interrotto: tuttavia, questi erano danni forse facilmente riparabili con un appropriato e mirato intervento di ristrutturazione. Ciononostante, il programma di “ricostruzione del dopoterremoto” adottò la soluzione della ristrutturazione urbanistica, realizzata su ampia scala, con demolizione e ricostruzione di interi “lotti” di quartiere. Si potrebbe dire, e lo diciamo con una vena di tristezza, visti i “non proprio” brillanti risultati ottenuti, che forse ha prodotto dei “cambiamenti” più profondi l’azione della “ricostruzione”, che il sisma vero e proprio.
Con la “ricostruzione” sono state abbattute alcune delle antiche masserie che, come abbiamo visto in altri post pubblicati, da tempo immemorabile erano presenti nella nostra zona e costituivano gli elementi architettonici caratteristici del Casale.

Foto aerea del centro storico di Piscinola, anno 1943

Anche molti palazzi e caseggiati antichi, detti “a corte”, sono stati purtroppo trasformati. Al loro posto sono stati edificati dei palazzotti in cemento armato, che non risultano affatto integrati nel contesto urbanistico preesistente. Infatti, anche se sono state completamente rifatte le abitazioni che si affacciano sulla Via Napoli e sulla Via Vittorio Emanuele, queste strade sono rimaste strette e tortuose.
I fabbricati ubicati lungo il Vico degli Operai sono stati, per metà ricostruiti ex novo, in stile “moderno” e per l’altra metà trasformati, recuperando architettonicamente qualche struttura esistente, ma ridisegnandone i volumi e anche lo stile.

Masseria di Via Vecchia Miano in fase di demolizione, 2002

Il nucleo abitativo di Via Vittorio Emanuele non è stato ancora completato; mancano, infatti, ancora molti palazzi che costeggiano l’antica Via Dietro la Vigna.
Pochi gli edifici preesistenti che sono stati recuperati integralmente, ripristinandone le antiche fattezze architettoniche. Due di questi, degni di essere menzionati, sono: il complesso di fabbrica situato in Via Plebiscito e quello del palazzo “Don Carlos”, in Via Vittorio Emanuele. Si tratta di caseggiati “a corte”, con porticati, volte ed archi. Dopo il restauro, queste strutture hanno assunto un aspetto veramente molto interessante.
Anche dal punto di vista “comunitario” si sono avute delle metamorfosi significative: anch’esse conseguenze dirette dell’avvento della “ricostruzione”. Moltissimi degli abitanti originari di Piscinola sono stati come “dispersi” nei vari edifici di edilizia popolare, distribuiti sul territorio.

Via Napoli, angolo Vico Operai
(a sx i soci dell'ass. Madonna de Loreto)

Essi furono trasferiti in questi alloggi in via transitoria, per far fronte al breve periodo di rifacimento degli alloggi; purtroppo, dopo la realizzazione degli interventi, per diversi motivi, molti non hanno più fatto ritorno nelle loro abitazioni, restando lontano dal loro quartiere d’origine.
Molti “valori” che erano presenti nella comunità piscinolese, come la solidarietà, la semplicità della vita quotidiana, il buon vicinato, l’ottimismo per il futuro, il radicamento al territorio e alle tradizioni, sono “beni” purtroppo scomparsi per sempre.
Le famiglie originarie di Piscinola un tempo si conoscevano tutte, tanto da far uso di soprannomi e nomignoli. Ciascun abitante aveva un nomignolo che gli era stato “affibbiato” in occasione di qualche avvenimento della sua vita, oppure tramandato per legame familiare. Tutti gli abitanti si sentivano appartenenti ad una comunità antica e radicata e partecipavano alle sue feste, tramandandone le tradizioni."

Caseggiato in Vico Operai

Da questa metamorfosi, per niente indolore, verificatasi con la "ricostruzione del dopoterremoto", sono trascorsi quarant'anni e gli effetti sono ancora evidenti davanti agli occhi di tutti..., tuttavia auspichiamo una svolta positiva, con l'avvio di un programma di riqualificazione urbana della parte modificata assieme a degli interventi di restauro architettonico di quanto è sopravvissuto nel centro storico di Piscinola, da eseguirsi mettendo al centro del programma la valorizzazione del patrimonio storico-architettonico, evidenziandone i caratteri antropologici originari del borgo, come avviene per altri centri storici omologhi d'Italia.

Cortile di Via Vittorio Emanuele (Capo 'e coppa), anni '70

Concludiamo questo post, riguardante la storia recente dell'antico quartiere di Piscinola, con una poesia a tema, presentata alla manifestazione “Maratona della lettura”, tenutasi presso il “Centro Hurtado” di Scampia, nel luglio 2010:

 

‘O Capo ‘e coppa…

Ogni vota ca passo pe’ 'sta strada,
Me vene 'na malincunia dint’ ’o core…
E faccio fatica a ricurdarme comm’erano
'Sti viche e 'sti stradullelle antiche…
Mo tutto s’è cagnate, nun c’è rimaste niente cchiù!

Antico e moderno...

Che fine hanno fatto 'sti viecchie ‘e 'stu paese,
Ca ‘e sere se vedevano fore ‘e purtune,
Chi a ghiucà ‘e carte e chi a fumà 'a pippa?
Se ne so’ gghiute cu’ Piscinola vecchia…?!
Chisà se hanno avuto ‘o tiempo ‘e riturnà…!

Comm’era bello cammenà p’ ’o Capo ‘e Coppa,
'Sta via, cu’ ‘e stradulelle attuorno, era 'nu bbuvero,
Cu’ ‘a ggente sempe ‘nfesta e surridente…,
Affacciata a tanti balcuncielle, cu’ ‘e mullune appise,
‘Nsieme ‘a sovere e piennule ‘e pummarola…!

Disegno di cappellina (ancora esistente)
in via Vicinale Dietro la Vigna

For’ ’e logge d’ ’e curtile currevano e zumpavano
Decine e decine ‘e scugnizzielle,
E mmiez’ ‘a ll’aia ‘e bambulelle ca facevano ‘a cucenella,
‘O cane c’alluccava for’ ’o vascio,
E ‘lli vecchie ca vennevano ‘e cravune e l’allessa…

Addio munno antico! Addio Piscinola vecchia!
Ve ne site ghiute pe’ ll’opere ‘e ll’uommene!
Chille ca pensano ca ’o prugresso è 'na necessità,
Ma po’, se scordano ca ’o vero bisogno ‘e l’omme,
Songhe ‘e ricorde, ca sulo lloro ‘mbriacano ‘o core…!

Salvatore Fioretto

Il contenuto di questo post è stato in gran parte tratto dal libro "Piscinola, la terra del Salvatore - Una terra, la sua gente, le sue tradizioni", di Salvatore Fioretto, ed. The Boopen, anno 2010.

Bozzetto allegorico con i caratteri architettonici dei quartieri di Piscinola (a sx) e Marianella (a dx),
come erano e come sono, contenuto nel libro dell'Arch. Megna, "Il futuro nella memoria"


Ruderi della masseria di V. Vecchia Miano, prima della demolizione, foto S. Fioretto, 2000

Interno del cortile detto "Staviano" in via del Plebiscito, dopo restauro, 2004
Vico Operai, in fase di sgombero, anno 1987. 


Ruderi della masseria di V. Vecchia Miano, prima della demolizione






Piazza B. Tafuri (ex Piazza Municipio), 1971
(Edifici di fronte alla Chiesa del SS. Salvatore, demoliti nel 1985)