venerdì 11 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! I prodotti dell'orto (seconda parte)

(segue dalla prima parte)
Tutti i contadini avevano nelle loro campagne o nei giardini, una zona dedicata esclusivamente alla coltivazione degli ortaggi ad uso domestico e, per quanto possibile, destinati anche al loro commercio. A tal proposito ecco come descrive la conformazione urbana e agricola di Piscinola il famoso architetto e scrittore Cesare De Seta, nel libro: "Iconografia delle città in Campania: Napoli e i centri della provincia" ... a cura di ‎A. Buccaro, ed. Electa, anno 2006: "Piscinola, dal caratteristico impianto trilobato, mostra nella suddivisione particellare la diffusa presenza di case dotate di orti retrostanti, oltre i quali si estende la campagna, nonché dei tipici impianti residenziali a corte e ...di masserie periferiche, che caratterizzavano dall’età antica l’intero territorio suburbano".

Broccoli di Natale (Vvruoccoli 'e Natale)

Questi orti erano a conduzione familiare, ed erano curati specialmente dalle massaie, dai fanciulli e dagli anziani, mentre gli uomini (giovani e adulti) eseguivano solo la zappatura e la semina. Deduciamo che questo era il motivo fondamentale che giustificava l'ubicazione di questi orti nelle zone più accessibili e vicine alle masserie e ai caseggiati, ma si trovavano sparsi anche nelle vaste campagne, in vicinanza soprattutto dei pagliai, dei ricoveri degli attrezzi e delle postazioni di stallo per cavalli e asini. In questi orti si praticavano, in ogni periodo dell'anno, diverse tipologie di colture, ben distribuite e suddivise tra gli ortaggi di varie specie (verdure, legumi e varie). I prodotti degli orti erano sufficienti a soddisfare il sostentamento di ogni nucleo familiare, nonostante che all'epoca ciascuno contasse al suo interno numerosi componenti.
Per assicurare una resa costante dei prodotti, la cosa importante da ricordare era quella di eseguire la periodica "rotazione" delle postazioni di semina, di anno in anno, affinchè non venissero esaurite le principali sostanze nutritive del terreno. Il cambiamento della coltura permetteva anche di apportare gli elementi e le sostanze carenti. Questa tecnica è riconosciuta, dagli specialisti di storia botanica, altrettanto antica e anch'essa tramandata dai romani.

Menestrella 'e Pasca

Fin dall'inizio della primavera erano gli ortaggi, cosiddetti "a foglia larga", a prevalere negli orti nostrani, assieme ai legumi.

I broccoli, chiamati semplicemente "minestra di Pasqua" ('a menestella 'e Pasca") rappresentavano una fonte di attingimento costante di verdure per le cucine domestiche, perchè le cime di questi ortaggi, che venivano utilizzate quando erano prossime alla fioritura, erano prodotte dalle piante a ritmo serrato. Occorreva però essere attenti a lasciare integre, durante il taglio, le gemme sottostanti e non farle fiorire, affiché si conservasse la continua loro produzione. Per tale motivo questi broccoli erano soprannominati in gergo locale: "'e cuoglio cuoglio".... La cosa interessante è quella che si poteva disporre della produzione di queste verdure fino ai primi caldi primaverili, praticamente fino alla fine del mese di maggio.


I semi di questa varietà di broccoli erano messi a dimora verso la fine di giugno, in piccoli "letti" di terreno (chiamati 'mpuosti p''a chiantimma), assieme ai Broccoli di Natale ('e Vvruoccoli 'e Natale), in modo che dopo ferragosto, al sopraggiungere dei primi temporali, già si disponeva delle pianticelle da utilizzare per il trapianto nei solchi di produzione ('e linee). I solchi venivano opportunamente preparati con ferrilli e zappelloni (aratri a mano e zappe a forma di triangolo).

I "Broccoli di Natale" erano già pronti per la raccolta nella prima metà di dicembre; essi rappresentavano gli elementi principali per preparare la rinomata "minestra maritata", mentre la menestella 'e Pasca era gustata assieme alla pasta (ai mezzani di Gragnano), con un semplice ma saporito piatto, che richiedeva l'aggiunta di un pizzico di peperoncino.

Friarielli

Altre verdure che non mancavano mai negli orti erano le rape ('e vvruoccoli 'e rape) e i prelibati friarielli: questi ultimi erano una particolare varietà della famiglia delle rape. Tuttavia, considerando che per la coltivazione dei friarielli erano necessarie ampie estensioni di campagna, ecco che gli antichi contadini avevano escogitato una tecnica di coltivazione molto ingegnosa, che potremmo dire "intensiva"; essa infatti permetteva la produzione di significative quantità di "cime di rape", simili ai friarielli, ma utilizzando solo pochi metri quadrati di orto. Le rape, una volta cresciute, venivano reimpiantate su questi "letti" di terreno, preparati a forma di rettangoli regolari e opportunamente concimati nella parte sottostante.
I "letti" (chiamati 'e pòrche) erano conformati con una leggera convessità dal centro verso la periferia, in modo da impedire il ristagno di acqua piovana e favorire il suo deflusso verso i solchi che delimitavano il perimetro. Le rape erano seminate a maglia regolare, distanti l'una dall'altra una trentina di centimetri circa. La tecnica era chiamato in gergo locale "'e vvruoccoli curnati": definizione che tradotta, intendeva significare: "broccoli governati". Infatti, se essi erano ben curati, all'inizio della primavera si otteneva una produzione costante e ininterrotta di "cime di rape", che perdurava costantemente fino all'inizio dei primi caldi di maggio. Col termine di "governo" s'intendeva, quindi, la costante raccolta di "cime", che doveva essere eseguita con continuità, affinchè si impedisse la fioritura (spigare), altrimenti le piante diventavano definitivamente improduttive.
Tra le rape c'era anche la varietà che si sviluppava producendo una sorta di bulbo alla base, che qui chiamavano 'e càtozze; queste parti delle rape erano alquanto dure da mangiare e venivano riservate all'alimentazione delle mucche; purtuttavia, per evitare che le bestie si strozzassero mangiandole intere, l'esperienza maturata dai contadini consigliava che esse dovevano essere preventivamente sezionate (spaccate) in due o quattro parti.
I legumi erano degli altri alimenti che non mancavano mai negli orti del territorio. C'erano  i piselli: quelli utilizzati erano quasi sempre della varietà locale, molto produttiva, chiamati 'e Santa Croce.

Piselli chiamati "Santa Croce"

Questi erano impiantati in file lunghissime e, data la loro significativa altezza di crescita (fino e oltre 2,5 metri), erano sostenuti e "guidati" su rami  di pioppo (frasche), opportunamente infissi nel terreno. Le file di piselli potevano essere affiancate e distanti l'una dalle altre, due metri circa; mentre nello spazio intermedio si piantavano altri ortaggi, sempre su "letto" di terreno, come: lattughe, insalate incappucciate e scarole.
Le fave che dovevano adornare e allietare le tavole primaverili delle case, erano raccolte fresche e accompagnavano i pasti, specie del periodo pasquale, assieme alla ricotta salata, alla pancetta, ai formaggi e vari salumi, oltre ovviamente al pane integrale ('e rrano) e al vino.

Fagioli piccoli chiamati "Villaricca"

Si procedeva anche a essiccarle per poterle utilizzare durante l'inverno, quando erano cucinate assieme alla pasta oppure con sugo di pomodoro.
I fagioli raccolti negli orti erano di diverse tipologie: c'erano innanzitutto quelli celebri, detti 'e fasulille, ovvero i fagioli che venivano raccolti quando erano ancora in via di formazione dentro al loro baccello (conche). Si mangiavano interi, lessi assieme alle patate bollite, opportunamente conditi con olio, sale e limone. Spesso si piantavano anche fagioli rampicanti, sorretti sempre da frasche di pioppi; anche questi erano cucinati come i primi fagioli sopra descritti.

Fagioli detti "cu ll'ucchitiello"

Per la produzione di fagioli freschi, preparati nelle pietanze con la pasta oppure a zuppa, erano coltivati 'e spellucarielli, la cui varietà prevalente era chiamata Borlotti. Mentre la produzione intensiva dei fagioli, da conservare secchi per il periodo invernale, richiedeva l'impegno di vaste estensioni di campagna; per questi era preferita la varietà nostrana, molto produttiva, chiamata 'e Villaricca, che erano fagioli di piccolissime dimensioni, ma molto saporiti. Non mancavano anche quelli dal formato grande, chiamati 'e cannellini. Altra varietà antica, prodotta soprattutto a Piscinola e zone circostanti, erano quelli chiamati "fagioli con l'occhietto" (cu ll'ucchietiello), sia nella varietà bianca che nera.

Patate della varietù chiamate "Ricciuni"

Le patate, di antica tradizione locale e molto adatta alla conservazione invernale, erano chiamati 'e Ricciuni. Erano queste patate di piccole dimensioni, spesso con peduncoli tondeggianti, ma erano molto produttive e saporite. Dopo ogni raccolto annuale, si aveva la premura di conservare una parte delle patate per la semina dell'anno successivo. Solo negli ultimi tempi furono introdotte qualità di importazione, come quelle provenienti dai Paesi Bassi, molto produttive, ma non eguagliavano nel sapore le patate nostrane. L'apprezzamento principale delle patate "Ricciuni" si aveva nel corso dell'inverno, quando si utilizzavano per essere cotte sotto la cenere del camino. Un sapore senza eguali...!

Le cipolle qui in uso erano le varietà che prendevano il nome del mese in cui si eseguiva la raccolta, ovvero: quelle bianche, chiamate 'e Maggiaiole e quelle rosse, chiamate ll'Austegne.
Non mancavano le colture di aglio e dell'aglione, che erano qualità tramandate di generazione in generazione, ad elevata produzione e soprattutto dal grande profumo. La produzione dell'aglio aveva tutta una procedura riservata alla loro pulizia, alla essiccazione e alla conservazione. In quest'ultimo passaggio, della conservazione, per ogni bulbo d'aglio raccolto (capa d'aglio) veniva conservato integro il suo tratto di peduncolo (per circa venticinque centimetri), destinato a essere legato assieme agli altri e realizzare così il classico "mazzetto" da appendere ai muri (mazzo d'aglio). Questi venivano appesi alle pareti dei balconi, agli usci delle casa, oppure negli androni delle masserie e duravano intatti per tutto l'inverno, fino al successivo raccolto.
I pomodori erano sorretti anch'essi dalle frasche di pioppo. Si utilizzavano generalmente i tipi detti 'a fiaschetto. Negli ultimi tempi sono stati introdotte le varietà del Vesuvio (dette cu 'o pizzitiello), le Mezze San Marzano e le Minturno, qualità di pomodori che non richiedevano grandi apporti di acqua per il loro sviluppo. Anche i pomodori erano conservati per l'inverno, ma con diverse tecniche: si producevano le caratteristiche collane, dette piennoli, per essere appese ai muri, oppure erano preparate conserve di pomodori in bottiglie o vasetti di vetro, con l'aggiunta di basilico. C'era però un altro metodo di conservazione, molto più antico dei primi, che era quello dell'essiccazione al sole, dopo averli sezionati in parti sottili ('e pacchetelle). Alla fine della loro essiccazione erano opportunamente ridotte in polvere con l'aiuto di mattarelli o mortai.

Il granoturco era impiantato su grandi appezzamenti di terreno per produrre cibo, utilizzato sia per l'alimentazione delle famiglie e sia per gli animali (galline e suini), anche le parti vegetali delle piante erano utilizzate: le foglie di rivestimento delle pannocchie secche ('e sbreglie) erano usate per il riempimento dei materassi, mentre i fusi delle pannocchie ('e tuderi), venivano bruciati nei camini. Con il granoturco si produceva anche la farina di mais ('a farenella), utilizzata per produrre migliacci fritti o pizze al forno (pizza 'e farenella). Mentre le pannocchie erano cotte su carbonelle ('e spighe arrustute) oppure lessate ('e pullanghelle).
Per i peperoni si coltivavano solo le varietà piccole e verdi, chiamati peperuncielli 'e sciumme (peperoncini di fiume), detti forse così perche richiedevano per la loro crescita e produzione un apporto significativo di acqua.
Mentre nei vasi di casa si coltivavano le spezie utili per la cucina: peperoncini piccanti (peperuncielli forti), salvia, rosmarino (rosamaria), prezzemolo ('o petrusino) sedano (ll'accio), basilico ('a vasenicola), e qualcuno anche l'alloro a cespuglio. Altro elemento utilizzato in cucina era l'origano ('a rècheta), che era frequente coltivarlo allo stato libero, sui terrazzamenti che delimitavano le strade ('e separelle): essa rappresentava una varietà selvatica, praticamente autoctona del territorio, sovente dalla crescita spontanea.

Varietà di zucchine "San Pasquale"

Si coltivavano anche la cicoria e la rucola. Quest'ultima era utilizzata in cucina per preparare delle speciali insalate, molto apprezzate dagli intenditori, composte dalle "cime" di rucola e dalle parti di erba portulaca: ricordate con il simpatico binomio di: 'a rucola e pucchiacchiello. Non mancavano nemmeno i ravanelli ('e rafanielli) e i finocchi. Per la coltivazione dei ravanelli erano privilegiati la varietà piccola e tonda.
Le zucchine erano sempre della varietà detta San Pasquale, e che qui davano degli ottimi risultanti sia per la produzione delle zucchine e sia specialmente per l'abbondante produzione di fiori di zucca ('e sciurilli): elementi principi per preparare le famose e prelibate "pastette 'e sciurilli" fritte.

Cime delle piante dei zucchini ('e Talli)

Forse non tutti sanno che al termine della loro produzione, venivano utilizzate in cucina anche le cime delle piante, opportunamente pulite (spellate) dalle parti puntigliose che coprivano i gambi. Le cime dei zucchini venivano, poi, bollite in bagnomaria e, infine, gustate in saporite minestre, con olio, sale e limone, accompagnate ovviamente da pane casareccio e vino...! Queste verdure così preparate erano chiamate dai contadini 'e Talli.
Le zucchine subivano un altro processo di trasformazione per la loro conservazione invernale, anch'esso remoto e dimenticato oggi. Erano infatti tagliati in listelli sottili e poi messi ad essiccare, esposti ai raggi del sole estivo. Alla fine venivano poi conservate nelle dispense, in appositi contenitori. Questi prodotti di lavorazione erano chiamati: 'e fèlle.

 Zucchine secche ('e Felle)

Delle zucche prodotte nei campi esistevano due tipologie: quelle per essere cucinate in pietanze (di forma sia tondeggiane che oblunga) e quelle destinate all'alimentazione degli animali nelle stalle (mucche e maiali), tuttavia da quest'ultime si ricavavano anche abbondanti quantità di semi di zucca. I semi di zucca ('e sèmmienti) venivano abbrustoliti nei forni, insieme ad altri legumi e semi secchi ('e spassatiempi), come ceci, nocciole e noci. C'era anche chi seminava arachidi e lupini, ma in modestissime quantità.
I funghi era un'altra leccornia del palato, tuttavia qui si ricavavano solo due varietà: quelli prodotti sui Pioppi (ma si sviluppavano anche alla loro base), chiamati
'e chiupppetelli e quelli ricavati dagli alberi da frutta, chiamati "'e semmentini".

Funghi di Pioppo ('e chiuppetielli)

I funghi di Pioppo si sviluppavano in gran quantità specialmente sulle chiome degli alberi secolari neri, solitamente alla fine di agosto. Nella parte alta dei Pioppi, infatti, erano spesso presenti delle particolari cavità scavate nel tronco marcito (chiamate 'e scafoncie), ed erano quelle le zone dove si sviluppavano prevalentente questa varietà di fungo, dal grande cappello bianco latte e dal profumo indescrivibile. L'altra varietà di funghi nostrani, chiamati 'e Semmentini, si sviluppavano alla base di tutti gli alberi secchi di frutta, solitamente tra ottobre e novembre. Questi funghi, dal sapore meno intenso dei primi descritti, si formavano anche alla base delle piante di rose rinsecchite e alla base di altri alberi secchi, addirittura come l'Alloro e le viti. (segue nella terza parte)

Salvatore Fioretto

 





sabato 5 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! Il ciclo biologico già ecosostenibile (prima parte)

Scaglie di Ossido di Rame (verderame)

Quando si ricordano le tradizioni contadine del nostro territorio non si può non soffermarsi sulle primizie e sui prodotti agricoli che la campagna donava  nel corso delle stagioni, soprattutto per i loro buoni sapori e i gradevoli profumi, che oggi risultano indescrivibili. A tal proposito, in passato, per  descrivere la nostra campagna, era correntemente utilizzato un aggettivo (oggi definiremo arcaico), che era "ferace", esso racchiudeva, in modo sintetico e univoco, il significato di terra estremamente fertile e generosa, ovvero di alta produttività, per la quantità e soprattutto per la qualità dei suoi prodotti. Basti pensare che la campagna del nostro territorio, che è parte della piana napoletana settentrionale, con Miano, Piscinola, Scampia, Mugnano, Calvizzano e altre località, pur essendo priva di sistemi di irrigazioni artificiali, con assenza di pozzi artesiani, canali e di altri corsi d'acqua, riusciva a garantire abbondanti raccolti, e spesse volte consentiva di fare anche due raccolti di ortaggi e di cereali nel corso dell'anno. Innanzitutto era il microclima del territorio che risultava essere così stabile e costante da garantire delle precipitazioni piovose distribuite nel corso dell'anno, sia quelle abbondati nel periodo primaverile e autunnale e sia quelle sporadiche, ma con intervalli costanti, nel periodo estivo, quando si avevano delle brevi ma intense precipitazioni a carattere temporalesco (senza vento e grandine), che venivano abilmente sfruttate, dall'esperienza e dall'intelligenza dei contadini, per dare un apporto costante di umidità alle colture, anche nel periodo caldo, tanto da poter eseguire una seconda semina. Inoltre, gli ingegnosi contadini del passato avevano sperimentato e applicavano abitualmente anche dei sistemi di coltivazione delle colture che consentivano di trattenere per lungo tempo l'umidità nel suolo, dopo le ultime precipitazioni. Per esempio, era eseguita la tecnica del "rincalzo" (detta in gergo locale: 'ncauzà), alla base delle colture degli ortaggi, in modo che il terreno umido risultasse ricoperto da uno strato superiore di altro terreno (abilmente apportato con zappe) e, quindi, riparato dai raggi del sole e dalla conseguente evaporazione. 

Scaglie di Ossido di Calcio (calce viva)
Nei tempi passati il territorio in esame era incontaminato (e salubre) sia nel suolo che nell'aria, con la sua biodiversità e, come in ogni ecosistema antico e incontaminato, permetteva di autoregolarsi in termini di difesa dalle patologie botaniche e dai parassiti; infatti, proprio perchè era un ecosistema rimasto intatto da secoli, comprendeva tutta una vasta gamma di insetti, uccelli e altre specie di animali, che con la loro presenza (e la loro dieta) risultavano antagonisti ai parassiti che attaccavano le colture. Coccinelle, maggiolini, cicale, formiche, vespe e tanti altri insetti che, cibandosi di afidi, acari e insetti dannosi (come le cocciniglie o le lumache), costituivano una barriera efficace e proattiva alla difesa del raccolto nei campi.
Poltiglia Bordolese a secco
Il trattamento delle colture era ancora basato su delle pratiche antiche e pressoché naturali, addirittura alcune tramandate dagli antichi romani, come la famosa "Poltiglia Bordolese",  costituita da un composto di ossido di Calce (Calce viva) e solfato di Rame (Verderame) con cui venivano trattavate le piante da frutto, le viti e anche alcuni ortaggi.
Il "Verderame" consentiva (ma viene utilizzato ancora oggi) di prevenire e di combattere la Peronospora, una malattia parassitaria che attacca le foglie delle piante, delle viti e degli ortaggi, come i pomodori. Il primo trattamento si eseguiva a fine inverno, ovvero "a marza secca", cioè prima della uscita delle gemme sugli alberi. Quelli successivi si eseguivano prima e dopo la loro fioritura.
Foglia di vite attaccata dalla Peronospora

Altra antica pratica utilizzata, e anch'essa tramandata dai romani, era il trattamento dell'uva contro l' "Oidio" (malattia funghigena che attacca i grappoli), utilizzando lo zolfo in polvere. Lo zolfo, che era estratto dalle miniere del meridione d'Italia, veniva diffuso a secco sui tralci e sui grappoli d'uva in formazione, con l'aiuto di un mantice a mano. Il trattamento di solito si eseguiva due volte all'anno, tra giugno e luglio; lo zolfo veniva distribuito sulle viti al mattino presto (intorno alle ore 5:00), con assenza di vento e con la presenza di rugiada sulle foglie (per favorire l'attaccamento dello zolfo).

Grappolo attaccato da Oidio

Il trattamento delle piante e degli ortaggi era anche eseguito utilizzando alcune piante selvatiche, preventivamente fatte macerare in acqua, il cui odore ripugnante faceva allontanare i patogeni dalle colture; come l'Euphorbia: un arbusto selvatico che cresceva sui bordi delle strade e della ferrovia Piedimonte d'Alife, che qui chiamavamo 'e fetienti, (il termine è un riscontro oggettivo riguardo all'odore ripugnante emanato dalla pianta). L'acqua che aveva macerato queste essenze era utilizzata con successo per trattare le piante attaccate dagli afidi, come i moscerini (detti pidocchi).
A conferma di quanto gli antichi contadini avessero anticipato i tempi e di quanto naturali e biologici fossero i prodotti da essi utilizzati nei trattamenti delle colture, s
appiamo tutti che oggi nelle coltivazioni biologiche è ammesso l'uso del Verderame, della Poltiglia Bordolese, dello zolfo e anche degli altri sistemi che abbiamo qui descritto.
Anche l'acqua risultante dalla cottura della pasta era riutilizzata in agricoltura, sia come concime e soprattutto per stimolare, secondo la credenza popolare, la produzione di funghi dei Pioppi, sulle ceppaie secche... Forse c'è un fondamento biologico in questa pratica antica ...!
Il concime utilizzato nei tempi passati per concimare le campagne era prevalentemente di origine naturale e biologico. Si utilizzava lo "stallatico" raccolto nelle stalle frequentate da equini e bovini, poi la "pollina" raccolto dai pollai delle masserie, altro concime fertilissimo erano gli escrementi dei conigli.
Lo sterco dei maiali era raccolto insieme all'acqua utilizzata per lavare le superfici pavimentate dei porcili. Anche l'urina raccolta  nelle stalle era utilizzata per concimare i campi e, grazie al suo apporto azotato, veniva stimolato e favorito lo sviluppo della vegetazione delle piante. Le urine erano raccolte in un pozzetto chiuso presente in ogni stalla, chiamato "pisciniello" (piccola piscina); queste venivano poi travasate in contenitori di legno, chiamati "varricchi", che erano a loro volta anche utilizzati per il trasporto nei campi, mediante una portantina manuale, con un asse di legno sorretto a spalle.
Un'altra tipologia di concime utilizzata nei campi (sempre biologica) era quella di origine vegetale, infatti oltre a utilizzare tutti gli scarti di cucina, come quelli derivanti dalla pulizia degli ortaggi, si utilizzavano anche delle erbe appositamente coltivate nei campi in alcuni periodi dell'anno. Questa pratica è ancora oggi utilizzata in altri posti ed è chiamata in gergo agricolo: "sovescio". Le erbe o le piante selvatiche utilizzate erano: le Fave piccole (favielli), le Cicorie selvatiche, le Rape, i "Rapestoni" (Ramolaccio), l'Erba Medica, il Trifoglio, i Lupini selvatici, e altre erbe ricche di sali minerali di Potassio, Fosforo e Azoto, come le erbe chiamate Centocchio e Portulaca, che nascevano spontaneamente.  Al momento che si eseguiva la zappatura o l'aratura dei campi, si procedeva a estirpare queste essenze e a distribuirle nei solchi ('e taglie) e, quindi, a interrarle. Queste piante marcivano prima della semina e trasmettevano le sostanze nutritive al terreno, in modo da alimentare le nuove colture, fin dai loro germogli.

Cenere
Anche la cenere raccolta dai camini e dai forni era utilizzata per concimare i terreni. Si sa che la cenere era anche utilizzata per lavare i panni e preparare la "culata".
I residui della lavorazione dei legumi e dei cereali (piselli, fagioli, fave, grano, orzo, granoturco, ecc.), erano utilizzati, oltre come nutrimento degli animali nelle stalle, anche come loro giacigli (lettiere) e quindi anch'essi contribuivano a rendere lo "stallatico" facilmente lavorabile per la raccolta e distribuzione nei campi e ricco di altre sostanze organiche.
C'è da aggiungere che in passato, nei centri abitati dei paesi, ma anche nelle grande città, si eseguiva la raccolta degli escrementi degli animali, sia dalle stalle che dalle strade; l'addetto a questo servizio, che oggi chiameremo operatore ecologico, era chiamato "Lutammaro", termine che deriva da "Lutamma", che nel napoletano antico si riferisce ai "residui organici".
Tutto questo per dire che la "raccolta differenziata", di cui in tanti oggi si riempiono la bocca, era una consuetudine normalmente eseguita nei tempi trascorsi, anche in questo territorio, avendo un triplo vantaggio: sia in termini di raccolta assicurata dei rifiuti, perché eseguita "porta a porta", sia di riutilizzo dei materiali di rifiuto organici, attraverso un ciclo biologico naturale e sia perché consentiva di assicurare un reddito certo per alcuni lavoratori.
Era così salubre l'ambiente e il ciclo di produzione delle derrate agricole, che sovente, quando si ricevevano visite nei campi di amici o di acquirenti, i contadini raccoglievano la frutta e la porgevano contestualmente ai visitatori, per farla a loro gustare e apprezzare, ma senza lavarla e nessuno ha mai lamentato problemi di salute!
Altri tempi diremmo oggi!! (segue seconda parte)

Salvatore Fioretto 

 

Trifoglio


Erba medica

Centocchio

martedì 1 novembre 2022

Ricordi dell'Alifana, la realizzazione di una sezione nel museo civico di S. Maria Capua Vetere, di G. Laurenza

Cartolina celebrativa , con il dipinto del maestro Cerezo Zacarias

Quello che riportiamo nel seguito è una parte dell'articolo scritto e pubblicato dal direttore del Museo di Santa Maria Capua Vetere, dott. Giovanni Laurenza (http://www.giovannilaurenza.com), nel quale si riportano i suoi bellissimi ricordi sulla ferrovia "Napoli Piedimonte d'Alife", sia del tronco antico, elettrico e sia di quello moderno, diesel. Completa lo scritto la descrizione della manifestazione svoltasi per festeggiare il centenario dell'inaugurazione della ferrovia, celebrato nell'anno 2013 nel teatro Garibaldi, e l'allestimento museale nel museo civico di Santa Maria Capua Vetere. 

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[...] "Nei miei ricordi d’infanzia c’è una Alifana mitica, quella con le carrozze bianco-rosse. Dalla Stazione della Ferrovia dello Stato, attraversando i binari, si arrivava ad un cancelletto in ferro e ad una piccola rampa di scale dalla quale si accedeva alla distesa di papaveri su cui sorgeva il deposito dei treni e la cabina elettrica dalla stazione di S. Andrea. Era il percorso seguito anche dai viaggiatori per evitare il giro più lungo di via Napoli.
I convogli partivano sferraglianti al suono della trombetta del capostazione De Felice per avviarsi, costeggiando l’Appia, verso il passaggio a livello allo Spartimento. Non era infrequente che una caduta di corrente facesse fermare il treno giusto al centro della strada, dando l’inizio ad un colorito battibecco tra il macchinista, e i carrettieri e gli automobilisti in attesa.
Momento emozionante era il passaggio alle spalle della trattoria Casina Rossa, mitica sosta dei camionisti, che aveva resistito alle offerte della Compagnia Ferroviaria per il suo abbattimento, costringendo i binari ad una curva sulla quale la motrice si manteneva in un pericoloso equilibrio, dato lo scartamento ridotto. I passeggeri che avevano abbassato i finestrini con vetri a ghigliottina per gustare i profumi delle anguille fritte provenienti dalla cantina, venivano invitati dal controllore a sedersi nel lato opposto del vagone per non aumentare il pericolo di ribaltamento.
Uno dei passeggeri più affezionati era Mariuccia, che ogni mattina prendeva il treno a Frignano con le sue ceste di anguille di fosso e rane, e scendeva alla stazione di S. Andrea dove nel piazzale antistante sostava il suo carrettino e con il quale si avviava sulle gambe malferme a fare il giro della città magnificando i suoi prodotti.
Le carrozze dell’Alifana non avevano servizi igienici: ma tutto si risolveva con la disponibilità del macchinista che, a richiesta, sostava qualche minuto in più in una stazione per permettere l’uso dei bagni a chi non ne poteva fare a meno.
Più emozionante era la partenza del treno per Capua e Piedimonte: veniva agganciata una seconda locomotiva che aveva il compito di spingere il treno perché riuscisse a superare il ponte di via Battisti che le permetteva di scavalcare la linea ferroviaria dello Stato. Di lì poi iniziava il viaggio cittadino, con fermata a Curti (angolo via Melorio), alla stazione S. Pietro in via Caserta, e un’ultima fermata cittadina alle spalle dell’Anfiteatro.
La tratta più pericolosa era quella che costeggiava la villa comunale perché non infrequentemente frotte di ragazzi attendevano il convoglio dietro la cancellata che sbarrava via Perla per lanciare pietre: stava all’abilità del controllore, pericolosamente esposto sul predellino della motrice, a minacciare ed individuare i delinquenti per impedirne l’insano passatempo.
La mitica Alifana andò in pensione nel 1976 quando la TPN (Tranvie Provinciali Napoletane) la sostituì con un inutile servizio autobus che annullava il pregio dell’Alifana: quello di evitare il traffico ed arrivare nei paesi dell’aversano e a Napoli in tempo accettabili.
Motrici e locomotive finirono demolite. Quella che si era salvata insieme ad una carrozza, destinata al Museo di Pietrarsa, divenne rifugio provvisorio di alcune famiglie rom, per finire bruciata dai vandali.
La nuova Alifana, che viaggia sui binari delle Ferrovie dello Stato, è legata alla mia vita di studente universitario. L’arrivo alla Stazione di S. Maria era festoso, allietato dagli studenti del Conservatorio provenienti da Piedimonte. Non di rado il macchinista attendeva di qualche minuto i ritardatari, tra le ire del capostazione.
Un caffè al buffet di Giovanni, che allora ornava l’atrio della stazione, e via verso Napoli per sbarcare alla stazione di piazza Garibaldi su uno dei due binari più estremi, lontanissimi dalla stazione: l’altro era riservato ad un altro mito ferroviario, il verde convoglio del “Valle Caudina”. Con la consorella ferrovia, l’Alifana si palleggiava il titolo di ferrovia di cartone.
Passati i tempi d’oro, qualcuno si ricordò della vecchia Alifana e del suo mito. Nel 1985, sul Bollettino che magnificava conquiste e sogni dell’Amministrazione Comunale, apparve l’idea di trasformare la Stazione di S. Andrea in un Museo dell’Alifana. Non se ne fece nulla.
A mantenere vivo in Città il ricordo della vecchia Alifana e del suo mito ci ha pensato l’Associazione Agorà di S. Andrea, territorialmente legata alla ferrovia, con due manifestazioni organizzate nel 2009 e nel 2011, nel corso delle quali l’idea di un museo fu ripresa dal sindaco Giudicianni.
Ma gli sforzi per arrivare a questo risultato non diedero alcun esito, anche se si sperò in un ravvedimento delle competenti amministrazione quando una vecchia carrozza, ancora conservata nei depositi sammaritani fu recuperata per il restauro.
Nel 2013, ostacolato dall’ottusità di qualche burocrate e tra lo scetticismo dell’Amministrazione Comunale mi dedicai alla organizzazione delle celebrazioni del centenario della inaugurazione dell’Alifana.
Cercai e ottenni la collaborazione dei sammaritani in qualche modo “imparentati” con la Piedimonte. La mia intenzione era di celebrare non tanto stazioni, motrici, carrozze e materiale ferroviario, esistendone una grande quantità di foto su internet, quanto piuttosto le persone che quella ferrovia avevano reso umana.
Al mio appello risposero in tanti: ebbi l’impressione che non ci fosse famiglia sammaritana che non avesse avuto un parente nell’Alifana.
Tornarono così alla memoria collettiva capistazione, frenatori, bigliettai, controllori: Sapone, Guaglione, Saggese, D’Aiello, Pasquale Conforti, Luigi De Lucia, il capo tecnico Antonio De Felice, Raffaele Prodomo, l’ing. Carmelo Donsì, i capistazione Giovanni Mele, Renato De Cato e Luigi Maisto, i macchinisti Arturo Giordano e Domenico di Lorenzo, Giuseppe Di Lollo, Alberto Caruso, Francesco Angellotti, Salvatore Licciardola, Vincenzino Celio, Ciarmiello, Ettore Frisella, Gennaro Prodomo, Gennaro Salvi, Di Grazia , Viggiano.
Ed ebbi l’aiuto di personale ancora in servizio come Antonio Mastroianni, capostazione di S. Angelo in Formis, figlio di don Mimì figura storica degli autoferrotranvieri sammaritani.
Tutto il prezioso materiale storico e fotografico, momentaneamente sottratto alle gelose cure dei parenti, fu scannerizzato e composto 16 pannelli con la collaborazione grafica di Salvatore del Prete.
Chiesi la cortesia all’amico acquerellista spagnolo Zacarias Cerezo di realizzazione per l’occasione il manifesto e la cartolina ricordo.
La mostra fu allestita il 6 aprile nell’atrio del teatro Garibaldi. Nell’occasione il G.A.F.A. (Gruppo Amici Ferrovia Alifana) allestì nel Salone degli Specchi un plastico che ricreava alcuni angoli caratteristici del percorso della nuova Alifana tra S. Maria e Piedimonte.
Al termine della manifestazione provvidi a trasferire i pannelli e il materiale raccolto presso una sala del Museo Civico, aprendo una nuova pagina della nostra storia cittadina."

dott. Giovanni Laurenza

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Lo scritto, qui riportato del dott. Laurenza, risulta essere molto suggestivo e, come un bel quadro d'autore, trasmette tutta la bellezza del paesaggio, della ferrovia e dell'umanità esistente in un'epoca non tanto lontana dalla nostra.
Speriamo vivamente che possa essere ripreso e realizzato il progetto che prevede la trasformazione a museo ferroviario della stazione terminale di Sant'Andrea de Lagni, dell'antica ferrovia elettrica Napoli Piedimonte d'Alife; come pure speriamo che abbiano la stessa progettualità e finalità le stazioni ferroviarie superstiti di Aversa, Mugnano e Secondigliano.
Segnaliamo, infine, che la stazione terminale di "Piscinola-Scampia" della nuova ferrovia EAV, "Piscinola Aversa" (unica costruita sulla preesistente stazione antica), risulta
tutt'oggi essere priva di testimonianze fotografiche ed artistiche che ricordino la vecchia "Piedimonte"; l'appello  doveroso che formuliamo ai responsabili della ferrovia, è quello di rimediare presto a questa grande lacuna storica...!

Salvatore Fioretto

Per i lettori interessati ad approfondire l'opera svolta dal dott. G. Laurenza, consigliamo la consultazione del suo sito in internet: https://www.giovannilaurenza.com/