sabato 5 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! Il ciclo biologico già ecosostenibile (prima parte)

Scaglie di Ossido di Rame (verderame)

Quando si ricordano le tradizioni contadine del nostro territorio non si può non soffermarsi sulle primizie e sui prodotti agricoli che la campagna donava  nel corso delle stagioni, soprattutto per i loro buoni sapori e i gradevoli profumi, che oggi risultano indescrivibili. A tal proposito, in passato, per  descrivere la nostra campagna, era correntemente utilizzato un aggettivo (oggi definiremo arcaico), che era "ferace", esso racchiudeva, in modo sintetico e univoco, il significato di terra estremamente fertile e generosa, ovvero di alta produttività, per la quantità e soprattutto per la qualità dei suoi prodotti. Basti pensare che la campagna del nostro territorio, che è parte della piana napoletana settentrionale, con Miano, Piscinola, Scampia, Mugnano, Calvizzano e altre località, pur essendo priva di sistemi di irrigazioni artificiali, con assenza di pozzi artesiani, canali e di altri corsi d'acqua, riusciva a garantire abbondanti raccolti, e spesse volte consentiva di fare anche due raccolti di ortaggi e di cereali nel corso dell'anno. Innanzitutto era il microclima del territorio che risultava essere così stabile e costante da garantire delle precipitazioni piovose distribuite nel corso dell'anno, sia quelle abbondati nel periodo primaverile e autunnale e sia quelle sporadiche, ma con intervalli costanti, nel periodo estivo, quando si avevano delle brevi ma intense precipitazioni a carattere temporalesco (senza vento e grandine), che venivano abilmente sfruttate, dall'esperienza e dall'intelligenza dei contadini, per dare un apporto costante di umidità alle colture, anche nel periodo caldo, tanto da poter eseguire una seconda semina. Inoltre, gli ingegnosi contadini del passato avevano sperimentato e applicavano abitualmente anche dei sistemi di coltivazione delle colture che consentivano di trattenere per lungo tempo l'umidità nel suolo, dopo le ultime precipitazioni. Per esempio, era eseguita la tecnica del "rincalzo" (detta in gergo locale: 'ncauzà), alla base delle colture degli ortaggi, in modo che il terreno umido risultasse ricoperto da uno strato superiore di altro terreno (abilmente apportato con zappe) e, quindi, riparato dai raggi del sole e dalla conseguente evaporazione. 

Scaglie di Ossido di Calcio (calce viva)
Nei tempi passati il territorio in esame era incontaminato (e salubre) sia nel suolo che nell'aria, con la sua biodiversità e, come in ogni ecosistema antico e incontaminato, permetteva di autoregolarsi in termini di difesa dalle patologie botaniche e dai parassiti; infatti, proprio perchè era un ecosistema rimasto intatto da secoli, comprendeva tutta una vasta gamma di insetti, uccelli e altre specie di animali, che con la loro presenza (e la loro dieta) risultavano antagonisti ai parassiti che attaccavano le colture. Coccinelle, maggiolini, cicale, formiche, vespe e tanti altri insetti che, cibandosi di afidi, acari e insetti dannosi (come le cocciniglie o le lumache), costituivano una barriera efficace e proattiva alla difesa del raccolto nei campi.
Poltiglia Bordolese a secco
Il trattamento delle colture era ancora basato su delle pratiche antiche e pressoché naturali, addirittura alcune tramandate dagli antichi romani, come la famosa "Poltiglia Bordolese",  costituita da un composto di ossido di Calce (Calce viva) e solfato di Rame (Verderame) con cui venivano trattavate le piante da frutto, le viti e anche alcuni ortaggi.
Il "Verderame" consentiva (ma viene utilizzato ancora oggi) di prevenire e di combattere la Peronospora, una malattia parassitaria che attacca le foglie delle piante, delle viti e degli ortaggi, come i pomodori. Il primo trattamento si eseguiva a fine inverno, ovvero "a marza secca", cioè prima della uscita delle gemme sugli alberi. Quelli successivi si eseguivano prima e dopo la loro fioritura.
Foglia di vite attaccata dalla Peronospora

Altra antica pratica utilizzata, e anch'essa tramandata dai romani, era il trattamento dell'uva contro l' "Oidio" (malattia funghigena che attacca i grappoli), utilizzando lo zolfo in polvere. Lo zolfo, che era estratto dalle miniere del meridione d'Italia, veniva diffuso a secco sui tralci e sui grappoli d'uva in formazione, con l'aiuto di un mantice a mano. Il trattamento di solito si eseguiva due volte all'anno, tra giugno e luglio; lo zolfo veniva distribuito sulle viti al mattino presto (intorno alle ore 5:00), con assenza di vento e con la presenza di rugiada sulle foglie (per favorire l'attaccamento dello zolfo).

Grappolo attaccato da Oidio

Il trattamento delle piante e degli ortaggi era anche eseguito utilizzando alcune piante selvatiche, preventivamente fatte macerare in acqua, il cui odore ripugnante faceva allontanare i patogeni dalle colture; come l'Euphorbia: un arbusto selvatico che cresceva sui bordi delle strade e della ferrovia Piedimonte d'Alife, che qui chiamavamo 'e fetienti, (il termine è un riscontro oggettivo riguardo all'odore ripugnante emanato dalla pianta). L'acqua che aveva macerato queste essenze era utilizzata con successo per trattare le piante attaccate dagli afidi, come i moscerini (detti pidocchi).
A conferma di quanto gli antichi contadini avessero anticipato i tempi e di quanto naturali e biologici fossero i prodotti da essi utilizzati nei trattamenti delle colture, s
appiamo tutti che oggi nelle coltivazioni biologiche è ammesso l'uso del Verderame, della Poltiglia Bordolese, dello zolfo e anche degli altri sistemi che abbiamo qui descritto.
Anche l'acqua risultante dalla cottura della pasta era riutilizzata in agricoltura, sia come concime e soprattutto per stimolare, secondo la credenza popolare, la produzione di funghi dei Pioppi, sulle ceppaie secche... Forse c'è un fondamento biologico in questa pratica antica ...!
Il concime utilizzato nei tempi passati per concimare le campagne era prevalentemente di origine naturale e biologico. Si utilizzava lo "stallatico" raccolto nelle stalle frequentate da equini e bovini, poi la "pollina" raccolto dai pollai delle masserie, altro concime fertilissimo erano gli escrementi dei conigli.
Lo sterco dei maiali era raccolto insieme all'acqua utilizzata per lavare le superfici pavimentate dei porcili. Anche l'urina raccolta  nelle stalle era utilizzata per concimare i campi e, grazie al suo apporto azotato, veniva stimolato e favorito lo sviluppo della vegetazione delle piante. Le urine erano raccolte in un pozzetto chiuso presente in ogni stalla, chiamato "pisciniello" (piccola piscina); queste venivano poi travasate in contenitori di legno, chiamati "varricchi", che erano a loro volta anche utilizzati per il trasporto nei campi, mediante una portantina manuale, con un asse di legno sorretto a spalle.
Un'altra tipologia di concime utilizzata nei campi (sempre biologica) era quella di origine vegetale, infatti oltre a utilizzare tutti gli scarti di cucina, come quelli derivanti dalla pulizia degli ortaggi, si utilizzavano anche delle erbe appositamente coltivate nei campi in alcuni periodi dell'anno. Questa pratica è ancora oggi utilizzata in altri posti ed è chiamata in gergo agricolo: "sovescio". Le erbe o le piante selvatiche utilizzate erano: le Fave piccole (favielli), le Cicorie selvatiche, le Rape, i "Rapestoni" (Ramolaccio), l'Erba Medica, il Trifoglio, i Lupini selvatici, e altre erbe ricche di sali minerali di Potassio, Fosforo e Azoto, come le erbe chiamate Centocchio e Portulaca, che nascevano spontaneamente.  Al momento che si eseguiva la zappatura o l'aratura dei campi, si procedeva a estirpare queste essenze e a distribuirle nei solchi ('e taglie) e, quindi, a interrarle. Queste piante marcivano prima della semina e trasmettevano le sostanze nutritive al terreno, in modo da alimentare le nuove colture, fin dai loro germogli.

Cenere
Anche la cenere raccolta dai camini e dai forni era utilizzata per concimare i terreni. Si sa che la cenere era anche utilizzata per lavare i panni e preparare la "culata".
I residui della lavorazione dei legumi e dei cereali (piselli, fagioli, fave, grano, orzo, granoturco, ecc.), erano utilizzati, oltre come nutrimento degli animali nelle stalle, anche come loro giacigli (lettiere) e quindi anch'essi contribuivano a rendere lo "stallatico" facilmente lavorabile per la raccolta e distribuzione nei campi e ricco di altre sostanze organiche.
C'è da aggiungere che in passato, nei centri abitati dei paesi, ma anche nelle grande città, si eseguiva la raccolta degli escrementi degli animali, sia dalle stalle che dalle strade; l'addetto a questo servizio, che oggi chiameremo operatore ecologico, era chiamato "Lutammaro", termine che deriva da "Lutamma", che nel napoletano antico si riferisce ai "residui organici".
Tutto questo per dire che la "raccolta differenziata", di cui in tanti oggi si riempiono la bocca, era una consuetudine normalmente eseguita nei tempi trascorsi, anche in questo territorio, avendo un triplo vantaggio: sia in termini di raccolta assicurata dei rifiuti, perché eseguita "porta a porta", sia di riutilizzo dei materiali di rifiuto organici, attraverso un ciclo biologico naturale e sia perché consentiva di assicurare un reddito certo per alcuni lavoratori.
Era così salubre l'ambiente e il ciclo di produzione delle derrate agricole, che sovente, quando si ricevevano visite nei campi di amici o di acquirenti, i contadini raccoglievano la frutta e la porgevano contestualmente ai visitatori, per farla a loro gustare e apprezzare, ma senza lavarla e nessuno ha mai lamentato problemi di salute!
Altri tempi diremmo oggi!! (segue seconda parte)

Salvatore Fioretto 

 

Trifoglio


Erba medica

Centocchio

martedì 1 novembre 2022

Ricordi dell'Alifana, la realizzazione di una sezione nel museo civico di S. Maria Capua Vetere, di G. Laurenza

Cartolina celebrativa , con il dipinto del maestro Cerezo Zacarias

Quello che riportiamo nel seguito è una parte dell'articolo scritto e pubblicato dal direttore del Museo di Santa Maria Capua Vetere, dott. Giovanni Laurenza (http://www.giovannilaurenza.com), nel quale si riportano i suoi bellissimi ricordi sulla ferrovia "Napoli Piedimonte d'Alife", sia del tronco antico, elettrico e sia di quello moderno, diesel. Completa lo scritto la descrizione della manifestazione svoltasi per festeggiare il centenario dell'inaugurazione della ferrovia, celebrato nell'anno 2013 nel teatro Garibaldi, e l'allestimento museale nel museo civico di Santa Maria Capua Vetere. 

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[...] "Nei miei ricordi d’infanzia c’è una Alifana mitica, quella con le carrozze bianco-rosse. Dalla Stazione della Ferrovia dello Stato, attraversando i binari, si arrivava ad un cancelletto in ferro e ad una piccola rampa di scale dalla quale si accedeva alla distesa di papaveri su cui sorgeva il deposito dei treni e la cabina elettrica dalla stazione di S. Andrea. Era il percorso seguito anche dai viaggiatori per evitare il giro più lungo di via Napoli.
I convogli partivano sferraglianti al suono della trombetta del capostazione De Felice per avviarsi, costeggiando l’Appia, verso il passaggio a livello allo Spartimento. Non era infrequente che una caduta di corrente facesse fermare il treno giusto al centro della strada, dando l’inizio ad un colorito battibecco tra il macchinista, e i carrettieri e gli automobilisti in attesa.
Momento emozionante era il passaggio alle spalle della trattoria Casina Rossa, mitica sosta dei camionisti, che aveva resistito alle offerte della Compagnia Ferroviaria per il suo abbattimento, costringendo i binari ad una curva sulla quale la motrice si manteneva in un pericoloso equilibrio, dato lo scartamento ridotto. I passeggeri che avevano abbassato i finestrini con vetri a ghigliottina per gustare i profumi delle anguille fritte provenienti dalla cantina, venivano invitati dal controllore a sedersi nel lato opposto del vagone per non aumentare il pericolo di ribaltamento.
Uno dei passeggeri più affezionati era Mariuccia, che ogni mattina prendeva il treno a Frignano con le sue ceste di anguille di fosso e rane, e scendeva alla stazione di S. Andrea dove nel piazzale antistante sostava il suo carrettino e con il quale si avviava sulle gambe malferme a fare il giro della città magnificando i suoi prodotti.
Le carrozze dell’Alifana non avevano servizi igienici: ma tutto si risolveva con la disponibilità del macchinista che, a richiesta, sostava qualche minuto in più in una stazione per permettere l’uso dei bagni a chi non ne poteva fare a meno.
Più emozionante era la partenza del treno per Capua e Piedimonte: veniva agganciata una seconda locomotiva che aveva il compito di spingere il treno perché riuscisse a superare il ponte di via Battisti che le permetteva di scavalcare la linea ferroviaria dello Stato. Di lì poi iniziava il viaggio cittadino, con fermata a Curti (angolo via Melorio), alla stazione S. Pietro in via Caserta, e un’ultima fermata cittadina alle spalle dell’Anfiteatro.
La tratta più pericolosa era quella che costeggiava la villa comunale perché non infrequentemente frotte di ragazzi attendevano il convoglio dietro la cancellata che sbarrava via Perla per lanciare pietre: stava all’abilità del controllore, pericolosamente esposto sul predellino della motrice, a minacciare ed individuare i delinquenti per impedirne l’insano passatempo.
La mitica Alifana andò in pensione nel 1976 quando la TPN (Tranvie Provinciali Napoletane) la sostituì con un inutile servizio autobus che annullava il pregio dell’Alifana: quello di evitare il traffico ed arrivare nei paesi dell’aversano e a Napoli in tempo accettabili.
Motrici e locomotive finirono demolite. Quella che si era salvata insieme ad una carrozza, destinata al Museo di Pietrarsa, divenne rifugio provvisorio di alcune famiglie rom, per finire bruciata dai vandali.
La nuova Alifana, che viaggia sui binari delle Ferrovie dello Stato, è legata alla mia vita di studente universitario. L’arrivo alla Stazione di S. Maria era festoso, allietato dagli studenti del Conservatorio provenienti da Piedimonte. Non di rado il macchinista attendeva di qualche minuto i ritardatari, tra le ire del capostazione.
Un caffè al buffet di Giovanni, che allora ornava l’atrio della stazione, e via verso Napoli per sbarcare alla stazione di piazza Garibaldi su uno dei due binari più estremi, lontanissimi dalla stazione: l’altro era riservato ad un altro mito ferroviario, il verde convoglio del “Valle Caudina”. Con la consorella ferrovia, l’Alifana si palleggiava il titolo di ferrovia di cartone.
Passati i tempi d’oro, qualcuno si ricordò della vecchia Alifana e del suo mito. Nel 1985, sul Bollettino che magnificava conquiste e sogni dell’Amministrazione Comunale, apparve l’idea di trasformare la Stazione di S. Andrea in un Museo dell’Alifana. Non se ne fece nulla.
A mantenere vivo in Città il ricordo della vecchia Alifana e del suo mito ci ha pensato l’Associazione Agorà di S. Andrea, territorialmente legata alla ferrovia, con due manifestazioni organizzate nel 2009 e nel 2011, nel corso delle quali l’idea di un museo fu ripresa dal sindaco Giudicianni.
Ma gli sforzi per arrivare a questo risultato non diedero alcun esito, anche se si sperò in un ravvedimento delle competenti amministrazione quando una vecchia carrozza, ancora conservata nei depositi sammaritani fu recuperata per il restauro.
Nel 2013, ostacolato dall’ottusità di qualche burocrate e tra lo scetticismo dell’Amministrazione Comunale mi dedicai alla organizzazione delle celebrazioni del centenario della inaugurazione dell’Alifana.
Cercai e ottenni la collaborazione dei sammaritani in qualche modo “imparentati” con la Piedimonte. La mia intenzione era di celebrare non tanto stazioni, motrici, carrozze e materiale ferroviario, esistendone una grande quantità di foto su internet, quanto piuttosto le persone che quella ferrovia avevano reso umana.
Al mio appello risposero in tanti: ebbi l’impressione che non ci fosse famiglia sammaritana che non avesse avuto un parente nell’Alifana.
Tornarono così alla memoria collettiva capistazione, frenatori, bigliettai, controllori: Sapone, Guaglione, Saggese, D’Aiello, Pasquale Conforti, Luigi De Lucia, il capo tecnico Antonio De Felice, Raffaele Prodomo, l’ing. Carmelo Donsì, i capistazione Giovanni Mele, Renato De Cato e Luigi Maisto, i macchinisti Arturo Giordano e Domenico di Lorenzo, Giuseppe Di Lollo, Alberto Caruso, Francesco Angellotti, Salvatore Licciardola, Vincenzino Celio, Ciarmiello, Ettore Frisella, Gennaro Prodomo, Gennaro Salvi, Di Grazia , Viggiano.
Ed ebbi l’aiuto di personale ancora in servizio come Antonio Mastroianni, capostazione di S. Angelo in Formis, figlio di don Mimì figura storica degli autoferrotranvieri sammaritani.
Tutto il prezioso materiale storico e fotografico, momentaneamente sottratto alle gelose cure dei parenti, fu scannerizzato e composto 16 pannelli con la collaborazione grafica di Salvatore del Prete.
Chiesi la cortesia all’amico acquerellista spagnolo Zacarias Cerezo di realizzazione per l’occasione il manifesto e la cartolina ricordo.
La mostra fu allestita il 6 aprile nell’atrio del teatro Garibaldi. Nell’occasione il G.A.F.A. (Gruppo Amici Ferrovia Alifana) allestì nel Salone degli Specchi un plastico che ricreava alcuni angoli caratteristici del percorso della nuova Alifana tra S. Maria e Piedimonte.
Al termine della manifestazione provvidi a trasferire i pannelli e il materiale raccolto presso una sala del Museo Civico, aprendo una nuova pagina della nostra storia cittadina."

dott. Giovanni Laurenza

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Lo scritto, qui riportato del dott. Laurenza, risulta essere molto suggestivo e, come un bel quadro d'autore, trasmette tutta la bellezza del paesaggio, della ferrovia e dell'umanità esistente in un'epoca non tanto lontana dalla nostra.
Speriamo vivamente che possa essere ripreso e realizzato il progetto che prevede la trasformazione a museo ferroviario della stazione terminale di Sant'Andrea de Lagni, dell'antica ferrovia elettrica Napoli Piedimonte d'Alife; come pure speriamo che abbiano la stessa progettualità e finalità le stazioni ferroviarie superstiti di Aversa, Mugnano e Secondigliano.
Segnaliamo, infine, che la stazione terminale di "Piscinola-Scampia" della nuova ferrovia EAV, "Piscinola Aversa" (unica costruita sulla preesistente stazione antica), risulta
tutt'oggi essere priva di testimonianze fotografiche ed artistiche che ricordino la vecchia "Piedimonte"; l'appello  doveroso che formuliamo ai responsabili della ferrovia, è quello di rimediare presto a questa grande lacuna storica...!

Salvatore Fioretto

Per i lettori interessati ad approfondire l'opera svolta dal dott. G. Laurenza, consigliamo la consultazione del suo sito in internet: https://www.giovannilaurenza.com/

sabato 29 ottobre 2022

Quella gente di promontorio, un po' montanari e un po' marinai, ma sicuramente legati alla terra! "Il mago nel pozzo", tra cunti e tramando delle radici...

Proprio in questi giorni, svolgendo una visita guidata a delle scolaresche di bambini di Piscinola, ho pensato di narrare a loro la storia di Piscinola dando particolare risalto alle fiabe e alle leggende legate al nostro quartiere. Quindi, per prepararmi all'evento, ho ripreso a leggere la fiaba pubblicata 18 anni fa, dal titolo "Il Mago nel Pozzo (una fiaba su Piscinola), tratta dall'opera teatrale: "L'Albero dei Cento Piani", scritta da Salvatore Nappa e da Luigi Sica. Come è noto, mi piace raccontare questa fiaba al momento di illustrare il palazzo "Don Carlos" di Piscinola, che si trova in via Vittorio Emanuele, meglio noto come 'o Cape 'e Coppo. Raccontare la presenza di misteriosi cunicoli, un tempo dimostratisi presenti ed esplorati dai piscinolesi, suscita sempre un alone di mistero, che è rimasto nel leggendario collettivo magico-popolare, quindi risulta efficace ed anche affascinante associare questa fiaba al luogo che ha uno stretto rapporto con l'acqua e con le radici comunitarie del quartiere. Ebbene, leggendo l'opera, mi ha colpito ancora di più la prefazione, che è una esortazione sulla memoria e sulle radici comunitarie.
Lo scritto rappresenta anche le speranze della gioventù di un tempo, che conservava ancora un legame forte con la campagna, con le tradizioni contadine e con gli anziani. Quello che si trova scritto in merito allo stretto legame generazionale, affinchè si tramandino le tradizioni tra padre e figlio, ovvero tra l'oratore (il vecchio) e l'uditore (i figli, bambini/ragazzi), lo constato e lo provo sempre anche nelle mie iniziative di rievocazioni storiche comunitarie, così come l'ho provato anche ieri mattina, durante l'ultima visita guidata ai bambini della scuola.
Mi piace questa settimana riproporre questo brano, per mostrare tutta la sua bellezza, ricco di passione ed amore per le radici del luogo natio, e invitare i lettori a leggere l'opera il "Mago nel Pozzo":

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"Qualche tempo fa, quando arrivavamo a Piscinola, provenienti da Miano, Chiaiano o Scampia e cioè dal Cap''a Chianca e da Abbascie Miano, sempre ci sorprendevano le lapidi toponomastiche in marmo, zancate ai muri dei primi palazzi, parevano bastioni o roccheforti e ti saresti aspettato che qualcuno calasse un porte levatoio.
Queste due lapidi, recanti la seguente scritta, scavata nel marmo e riempita con piombi nero, in bellissimo carattere italico romano:


VILLAGGIO DI
PISCINOLA
SEZIONE
SAN CARLO ALL'ARENA

Di fronte a queste due lapidi non abbiamo mai pensato di essere nativi e/o residenti del quartiere o della Sezione San Carlo all'Arena, quella precisazione, già marginale sul marmo, diventava inesistente nella mente leggendo "Villaggio di Piscinola" che già ci permeava d'orgoglio ed onore per il fatto d'essere indigeni.
Piscinola si situa a 127 metri sul livello del mare, su un digrado del picco tufaceo dei Camaldoli che su adagia nella pianura della Campania felix del casertano o dei mazzoni a nord e con i meravigliosi Campi Flegrei ad ovest.
Noialtri piscinolesi siamo quindi gente di promontorio, un po' alpini, un po' marinari, mezzi montanari e mezzi pescatori, o forse né l'uno e né l'altro. Nel nostro dna c'è però la campagna, ecco siamo gente di pianura, di campagna, gente di terra ovvero di valori veri.
Comunque l'essere piscinolese non si può spiegare in tre parole.
E' una cosa complessa poichè impone un raffronto difficile, con il nostro passato (i vecchi), il nostro futuro (i figli), mettendo soprattutto la faccia nel nostro quotidiano presente.
Ora se vogliano restare in tema e tornare un po' indietro nel tempo, in cui non c'era la televisione, ecco che anche lo spessore della fiaba, favola, leggenda o cunto, differisce quasi totalmente da quello delle vicine contrade litoranee ed orientali. La nostra tipologia di cunto, favola o leggenda, è singolarmente autoctona, diremmo speciale, provenendo da una stirpe contadina, che diversamente narra e s'anima di elfi, gnomi, streghe, draghi, demoni.
Infatti il nostro vecchio mentre racconta al bambino si premura di sottolineare che nemmeno lui "s'arricorde bbuono". Perchè il racconto è testimonianza di cosa appresa "de relato", per la quale un popolo tramandando  a memoria la sua genesi, costruisce una identità di popolo, di nazione, di stato ed anche di intelligenza. Uno stato che si regge su delle favole, potenza delle fiabe, dei cunti.
Nessuno di noi ricorderà mai bene se non ha mai saputo ascoltare, né sarà ricordato se non avrà saputo farsi ascoltare.
Nel nostro caso il vecchio ha bisogno d'essere ascoltato per specchiarsi negli occhi del bambino per tornare a sua volta bambino, per sentire la sua musica di fondo che gli canterà la nenia, una specie di ruga d'amore che canterà: io ero come tu sei, mentre il bambino ascoltando il vecchio penserà, io vorrò essere come tu eri. E ciascuno dei due canta un'elegia alla morte perchè sa di far parte di un ciclo vitale che comprende l'inizio e la fine.
Ma se il vecchio od il bambino che sarà vecchio non lascia una storia, una traccia della sua vita, una memoria ai posteri, sarà vissuto inutilmente. Gli stessi nostri cari morti ci ammoniscono: la vita dei morti sta nel ricordo dei vivi.
Alcuni di questi predecessori hanno lasciato loro memoria nei nostri ricordi.
Noi vogliamo propalarli affinchè rivivano e richiamati dall'esoterismo delle favole, ci accompagnino e correggano i nostri errori.
Le vecchie favole che ci raccontavano avevano sempre un incipit, misterioso, affascinante, coinvolgente che recitava più o meno così:

Na vecchia e 'nu viecchio
arete a 'nu specchio
arete a 'nu mare,
arete a 'nu mont'
aspiette lloco
ca mò to ccont'.

Gli autori"

(Salvatore Nappa e Luigi Sica)

 

Ringrazio, come sempre faccio, gli autori del testo, Salvatore Nappa e Luigi Sica, miei amici, che sono stati anche miei compagni in diverse iniziative e progetti culturali e spero che in futuro possano essere svolte insieme tante altre belle cose, sempre di questo spessore ed argomento.

Salvatore Fioretto

venerdì 21 ottobre 2022

I "Calori", una terra di antiche origini, divenuta "Calori di Sopra" e "Calori di Sotto"...

Sempre analizzando gli aspetti storici del territorio che si trova a Nord di Napoli, troviamo un'altra antica realtà che ancora oggi prende il toponimo di "Calori", risultante compresa nel vasto territorio del quartiere di Chiaiano. Per comprendere la genesi etimologica del toponimo e i caratteri antropici dell'antico territorio in parola, ricorriamo, come già fatto in passato per altre realtà vicine, al contenuto del compendio storico intitolato: "Santa Croce ai Camaldoli - Napoli, Ieri, Oggi, Domani", a cura di P. Camillo Degetto. Ecco quanto si legge sui "Calori", alle pagg. 36 e 37:

"Nel 1271 tra i "Revocati" riportati nei registri della cancelleria angioina, si leggono i nomi di Pietro, Ligorio, Angelo, Giovanni, Marino, Cesare e Simone Colauri, residenti nel casale di Polvica. E' de desumere, pertanto, che il nome della contrada dei Calori è un nome prediale, derivante da quello dei proprietari terrieri della Contrada: i Colauri, e che nel 1271 i Calori facevano parte del Casale di Polvica quando, nel 1631, il casale di Polvica fu concesso in feudo dal Viceré Conte di Monterrey, quale procuratore del Re di Spagna, a Giovan Battista Salernitano, la contrada Calori fu compresa nel territorio giurisdizionale del Feudo. Ancora oggi nel gergo dialettale, la contrada viene chiamata "Caluri", che sarebbe il nome giusto.
Quella dei Colauri o Caluri era un'antica famiglia di Napoli trasferitasi a Polvica per sottrarsi ai tributi e tasse della città. Ecco perché si trova segnata nell'elenco Angioino dei "Revocati".
La famiglia visse  a Polvica e a Santa Croce fino a tutto il 1800, assieme alla famiglia dei De Liguori ed altre.
Nella famiglia dei Colauri vi fu, per tradizione, sempre un giudice dei contratti. All'epoca, infatti, il notaio si limitava a scrivere il contratto, mentre era il giudice dei contratti, destinato dalla Regia Corte in quella determinata zona o territorio, a presidiare e vigilare perché il contratto fosse conforme alla legge.
Il 21 settembre 1709 Giovanni Calore era Sindaco di Polvica e fu presidente, con il Governatore, gli eletti e numerosi cittadini (tra cui Calore Paolo e Calore Sebastiano) all'immissione di Don Geronimo de Aloisio in possesso del feudo vendutogli dal barone don Nicola Salinas.
Il Chiarito, autorevole studioso dei casali di Napoli, per le notizie sul casale di Polvica si riporta proprio alla raccolta degli atti del Colauri, che rogava anche nel territorio di Marianella.
Altra conferma della professione del Colauri ci viene da Nunziante Pagano, poeta dilettante con il nome di "Abuzio Arsura" nell'accademia del  Portico della Stadera, che nel 1700 si ritirò in solitudine arcadica nella casa di campagna dei Calori: nel poemetto "Mortella d'Orzolona", cioè "di Orsolone", si riferisce proprio al giudice "Caluri" chiamato assieme al notaio nella casa dell'Orsolone per il contratto di costituzione di dote per il matrimonio di detta Mortella.
Nel 1600 i Colauri si trovavano tra gli eletti del casale di Polvica e lo furono anche nel 1700. Furono, del resto, sempre tra i seniori del casale.
Circa la popolazione dei Calori, troviamo che nello "stato delle anime"  redatto dal parroco di Santa Croce del 1714, gli abitanti di età superiore agli otto, cioè idonei alla Comunione, erano 86, compresi in 24 nuclei familiari, tra cui quello di Antonio Cappuccio, Antonio Sollo, Pietro Sollo, Beatrice Varriale vedova Totaro, Franscesco Totaro, Giuseppe Ruoppolo, Domenico di Ruggiero, Giuseppe Mastropietro, Anna Sollo vedova Totaro, Agostino di Biase, Luca di Domenico, Gerrano Priore e Tommaso Calore.
Nella vendita del feudo di Polvica, fatta nel 1780 da donna Costanza Santomango, Duchessa di Minervino, e dal marito don Giuseppe Venturi, al marchese Giuseppe Mauri, troviamo che i "fuochi" (unità di valutazione per gruppi di 5 persone) di tutto il feudo erano 203, per complessivi 1015 abitanti. Di essi 765 erano in Polvica e Arco di Polvica (fuochi 153x5) e 250 ai Calori (fuochi 50x5). La giurisdizione feudale sugli abitanti dei Calori costò all'acquirente 74 ducati a testa, per un totale di 18.500 ducati (Il calcolo ci porta però a 91 duc. a fuoco, forse furono considerati anche l'incidenza di cespiti immobiliari - ndr).
Nel 1700, ai Calori vi era la Cappella di S. Maria di Costantinopoli, nel palazzo Ametrano che si apparteneva alla parrocchia di Polvica, a differenza di  quella con lo stesso nome che troveremo, poi, a Cappella dei Cangiani, succursale di S. Croce. Nel 1714 anche tale Cappella passerà con S. Croce.
Nel 1876, ai Calori di Basso vi era, e vi è ancora, la Cappella del SS. Rosario, appartenente al presidente Angelillo, Cappella che divenne di proprietà, poi, dei Sigg. Arcopinto e Giordano.
Nei giorni festivi vi celebrava la Messa, munito di "Pastor bonus" (cioè autorizzazione a celebrare  fuori diocesi) don Aniello Morlando, che era di Giugliano, diocesi di Aversa.
Dopo la costruzione del Cimitero in Chiaiano, avvenuta intorno all'anno 1820, fu aperta l'attuale strada che porta ai Calori e a S. Croce."
Con l'avvento dei francesi e del decennio francese, (1806 - 1815, prima con Giuseppe Bonaparte e poi con Gioacchino Murat), i Calori furono inclusi nel Comune di Chiaiano. E' da accertare la fonte che considera, tra il 1848 e il 1863, l'appartenenza dei "Comuni Uniti" al territorio amministrato dal Comune di Marano, come risulterebbe in un documento conservato nell'Archivio Storico, Fondo Marzolla - Carta dei Contorni di Napoli, 1848.
Dopo l'Unità d'Italia, a partire dall'anno 1863, Chiaiano, Polvica, S. Croce e tutti gli altri Sobborghi e Rioni di Chiaiano e Polvica, furono accorpati sotto un'unica amministrazione comunale, che prese il nome di "Comune di Chiaiano e Uniti". Il Comune di Chiaiano e Uniti rimase attivo fino all'anno 1926, quando fu inglobato, seppur inizialmente in maniera eterogenea, nella vasta area del Comune di Napoli, come "Villaggio" e poi come "Frazione". Altra particolarità del toponimo è quello dell'uso di distinguere le due zone del sobborgo, poste ad altitudine differenti, differenziandole a loro volta in: "Calori di Sopra" e "Calori di Sotto".

Troviamo l'articolo trascritto molto interessante, sia per la genesi etimologica del toponimo "Calori", ma soprattutto perché consente di conoscere la regola utilizzata nell'anno 1780 per calcolare il valore di un feudo posto in vendita  e, quindi nel nostro caso, il valore complessivamente pattuito per la vendita del Casale di Polvica.

Salvatore Fioretto

Alcune foto sono state tratte dal blog di "Sasàilprofessore" e dall'archivio di Ferdinando Kaiser, che ringraziamo.


venerdì 14 ottobre 2022

Quel legame di affetto e di fede per il "Cuore di Gesù" di Mugnano. Una tradizione secolare...!

Un tempo non lontano, l'approssimarsi della festa del Cuore di Gesù di Mugnano rappresentava l'evento dell'anno molto sentito nel nostro territorio; simbolicamente essa era come uno spartiacque tra il periodo estivo, con la libertà e le belle giornate spensierate di vacanze e l'approssimarsi dell'inverno, con gli impegni scolastici e quelli lavorativi... C'è poi da considerare anche che dopo "l'evento mugnanese" mancavano poche settimane alle "feste cloud dell'anno", che erano quelle del Natale, del Capodanno e della Befana... La festa di Mugnano era come una preparazione per tutti, una grande prova generale...!
Un tempo erano tantissimi, soprattutto le donne anziane residenti a Mugnano, a Piscinola, a Marianella e in altri posti vicini, fino nella provincia di Caserta e anche oltre, che avevano una devozione particolarmente sentita per il Cuore di Gesù.
Quando era la domenica della festa, che cade la terza domenica del mese di ottobre, già la mattina presto si udivano, distintamente in tutto il circondario, i fuochi della “Diana”: era quello l'annuncio che la processione era iniziata e avrebbe percorso per l'intera giornata, fino a tarda sera, l'esteso territorio di Mugnano, raggiungendo ogni suo vicoletto, cupa e masseria.
Anche io ho avuto un rapporto molto familiare e ravvicinato con questa festa, essendo stata mia madre originaria di Mugnano: lei mi parlava spesso dei festeggiamenti e della processione del Cuore di Gesù, di cui era molto devota. Ricordo che appena un paio di anni dopo la sua prematura scomparsa, quando avevo pressappoco dodici anni, decisi di andare a vedere la processione del Cuore di Gesù da solo…, tuttavia non sapevo quale strada prendere, perché non c'ero mai stato da solo...! Allora ricordai le tante volte che eravamo andati a Mugnano dai nonni, prendendo la Piedimonte...

Non ebbi paura e così, senza dire niente a nessuno, per la prima volta mi incamminai seguendo i binari della Piedimonte, pensando: "Sicuramente mi porterà lì....a Mugnano"...!
La Piedimonte, per mia fortuna e per la mia incolumità, già non funzionava da qualche anno..., così riuscii ad arrivarci in sicurezza... Ricordo che fu quello un percorso a piedi lunghissimo e anche estenuante..., fu come un'avventura per me! Una bella avventura!!
Attraversai una sterminata campagna (a quell'epoca), senza mai incontrare una casa o un viandante... gli unici incontri furono con qualche timida biscia, con le tante colorate farfalle e con dei passerotti. Diversi furono i ponti, gli strapiombi e i terrazzamenti attraversati, che oggi non saprei neppure indicare dove si trovassero...! Incontrai purtroppo anche diversi cumuli di detriti riposti ai margini dei binari e dei tubi per l'irrigazione che attraversavano a raso la linea ferrata... La ferrovia purtroppo già si avviava al suo inesorabile destino di abbandono e di saccheggio...!
Ricordo la processione di quell'anno, la banda con le majorette, le tante suore che seguivano l'Immagine del Gesù, tutte italiane..., i numerosi orfanelli che all’epoca erano ancora accuditi nell'Orfanatrofio di Mugnano.
La cosa che mi sorprese e anche affascinò, fu quello di vedere che alcuni anziani, tutti ben vestiti con giacca e cravatta, attendevano la processione, ognuno in dei punti stabiliti del paese, assieme ad altre persone (credo loro amici e conoscenti). Ognuno di essi, poi, chiedendo di fermare la processione, si posizionavano sopra una sedia, in piedi, di fronte alla statua del Cuore di Gesù e leggevano ad alta voce un discorso scritto, che finiva sempre con una dedica e l'invocazione di protezione per Mugnano! Pensai che dovevano essere delle persone notabili di Mugnano, come  dei professionisti o degli ex combattenti...
Negli anni seguenti, altre volte ho ripetuto questo viaggio a piedi, tutto personale e avventuroso, sempre seguendo la linea della Piedimonte, alcune volte anche assieme ad alcuni amici d’infanzia, ma la linea ferroviaria (che fu) diventava anno dopo anno sempre più impraticabile, per la presenza dei rovi infestanti, che finirono per ricoprirla tutta, definitivamente!
Ricordo la pausa che la processione faceva a metà giornata, quando alcune ditte di Mugnano ospitavano nei loro capannoni o nei locali tutti i suoi partecipanti, offrendo un pranzo o un abbondante rinfresco. E ricordo pure che gli orfanelli facevano a gara per accaparrarsi tutti i dolci disponibili...
Altra usanza che mi colpì particolarmente fu l'uso di una grande cassa, che era portata a mano avanti alla processione, lasciando intravedere dall'esterno, attraverso i vetri, le tantissime banconote (di grosso taglio!) che erano contenute, tutte donate in segno di devozione dagli abitanti di Mugnano al momento del passaggio della processione del Cuore di Gesù. Tutti sapevano che quei soldi erano destinati al sostentamento degli orfanelli.

Notavo i tanti anziani ed i malati che si affacciavano dalle finestre delle loro abitazioni, spesso con fatica, sorretti da parenti, per salutare l'immagine del Cuore Gesù. Tanti piangevano per la commozione e tanti pregavano, facendosi il segno della croce...
  E, ancora, le tante belle coperte ricamate esposte ai balconi e i tanti fiori e coriandoli che venivano fatti cadere sulla Statua, come una pioggia colorata... Tutti partecipavano e avevano una gioia incontenibile che traspariva dai loro volti...!
Tanti poi erano i mortaretti che venivano fatti esplodere dagli abitanti in segno di giubilo e di accoglienza all'immagine del Cuore di Gesù, quando sopraggiungeva davanti alle loro abitazione.
Solo gli spari di questi mortaretti coprivano, incessantemente con il loro rumore, l'interminabile giornata della processione, senza un attimo di tregua…, facendo eccezione solo il periodo della pausa meridiana! Durante la giornata, poi, erano anche fatti esplodere saltuariamente i fuochi pirotecnici, quelli professionali, con bombe di tiro (senza colore); questi però erano offerti dalle associazioni cattoliche o da qualche imprenditore locale... Altro fragore che si sommava ai primi fuochi descritti e fino a sera inoltrata...!
I fuochi che si ammiravano invece nel corso della gara pirotecnica, che si teneva il lunedì successivo alla processione, erano veramente qualcosa di sorprendente e di straordinario...!
Un rumore e un frastuono intenso di bombe e di mortai, di giorno e di notte... Quelli notturni, colorati, duravano almeno quattro ore, fino e oltre mezzanotte. Tanto erano possenti, che vibravano i solai e le mura delle case, lontane anche diversi chilometri da Mugnano e sembrava di stare in mezzo a una guerra...! E poi una girandola di tanti colori fatti brillare nell'oscurità del cielo, così come in un grande caledoscopio...!
I mugnanesi, soprattutto gli anziani, erano visibilmente contenti e fieri di questo evento, e giudicavano quel fragore con compiacimento, perché per loro era la dimostrazione di quanto i concittadini ci tenessero ancora per il Cuore di Gesù, nel ringraziarlo per la Sua benevola protezione.
Mugnano, come si sa, è stata la patria dei "fuochisti", che erano dei veri e propri artisti specializzati nella preparazione dei fuochi e nelle esibizioni in gare pirotecniche (alcuni continuano l'attività anche oggi) ed erano famosi e conosciuti in tutto il meridione d'Italia e anche all’estero. Come è logico pensare, esibirsi nella loro terra natia era per essi motivo di vanto e ci tenevano con orgoglio anche a gareggiare tra loro; per questo motivo i fuochi a quell'epoca diventavano interminabili...!
Mia mamma raccontava che un tempo a Mugnano veniva eseguita anche la funzione del “Volo dell'angelo”, sia all'inizio che al termine della processione.
Anche mio padre aveva dei ricordi nitidi della festa di Mugnano. Raccontava che quando si faceva la questua per la festa del SS. Salvatore a Piscinola, spesso il comitato dei festeggiamenti, che andava questuando per raccogliere doni e offerte per la festa, accompagnato dalla Banda di Piscinola, si inoltrava per le tante masserie distanti da Piscinola e spesso  oltrepassava il confine con Mugnano, andando a raccogliere offerte nelle masserie mugnanesi. Gli abitanti offrivano piccoli doni, in natura o in denaro, anche se si trattava della festa di Piscinola.
La cosa bella è quella che lo stesso capitava anche per la festa del Cuore di Gesù di Mugnano: anche in tale circostanza il comitato, accompagnato dalla banda musicale, oltrepassava il confine e si spingeva fino alle masserie di Piscinola.
Anche per loro c’erano piccoli doni e offerte in denaro. Era quello una sorta di gemellaggio, che oggi possiamo considerare come un bell'esempio di solidarietà e di vicinanza tra comunità antiche contigue...!
Probabilmente la banda di Piscinola non fu mai chiamata a suonare a Mugnano, perché mio padre, che suonava nella banda, non l'ha mai ricordato.
Papà raccontava ancora che quando nella loro stalla, che stava a Piscinola, una mucca partoriva un vitellino, la nonna per devozione e anche per ringraziamento, donava il primo latte raccolto agli orfanelli del convento del Sacro Cuore di Gesù a Mugnano. Spesso era il nonno Salvatore, accompagnato da mio padre o da altri figli, a portarlo al convento.

Fino a pochi anni fa, erano in tanti a Piscinola, specie le donne anziane, ad avere la devozione e l’abitudine di recarsi ogni anno a Mugnano, nella domenica mattina della festa, per assistere all'uscita della Statua del Gesù dal Santuario e alla celebrazione della prima messa, che iniziava rigorosamente alle 5:30 del mattino. Una "levataccia" che però era considerata da essi salutare per lo spirito e anche beneaugurante per affrontare con serenità i tanti sacrifici che si presentavano nel corso della loro vita. Era anche un'occasione per ritrovarsi con i tanti devoti del Cuore di Gesù, diventati ormai tutti come una grande famiglia.
Purtroppo con il trascorrere dei decenni molte di queste tradizioni che ho raccontato sono terminate, oppure affievolite; la nostra società, cosiddetta moderna, con le sue corse frenetiche e prototipi, cancella molti ricordi, tuttavia permane ancora oggi e in tante persone la grande devozione per il Cuore di Gesù di Mugnano, per il caro "Scauzone" della venerabile Suor Maria Pia Brando. 
Questo post è dedicato a tutti i cittadini di Mugnano che si apprestano a festeggiare di nuovo il Cuore di Gesù, dopo la sospensione di due anni imposta dalla "Pandemia", è dedicato ancora a tutti i devoti e a tutti quelli che amano ricordare queste belle tradizioni di una volta.
Buona Festa a tutti!

Salvatore Fioretto 

Ringraziamo lo scrittore e ricercatore storico di Mugnano, dott. Carmine Cecere, per averci autorizzato alla pubblicazione delle foto tratte dal sito/blog: "MugnanoStoria". 

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Il discorso di dedica al cuore di Gesù durante la processione in via Fiori, fine anni '70 
(foto tratta dal gruppo FB "Festa del Sacro Cuore", che ringraziaamo)