venerdì 30 aprile 2021

1527. Patto di sangue tra i napoletani e il loro Protettore, San Gennaro...

Stampa ottocentesca di San Gennaro
Domani, sabato che antecede la prima domenica di maggio, la Chiesa Napoletana commemora, come dall'antico calendario liturgico locale, in un'unica ricorrenza, il ricordo delle tante traslazioni che hanno interessato i resti del Vescovo e Martire Gennaro; festa già istituita nel VIII secolo, ricordando la prima traslazione avvenuta nel V secolo, dal luogo di sepoltura di Gennaro e compagni, dopo il martirio, chiamato Marcianum, fino alle Catacombe situate ai piedi dei "Colli Ameni", nella ridente Capodimonte. In verità la festa inizialmente fu fissata il 13 aprile. Purtroppo la continua sua sovrapposizione ai riti della ricorrenza pasquale, spesso capitava durante la settimana in Albis, hanno consigliato nei secoli recenti di spostarla al "primo" sabato di maggio, come detto sopra. Non tutti lo sanno, però, che a volte, quando il primo maggio capita di domenica, la festa della Traslazione si celebra il 30 aprile...,  perchè il riferimento a cui bisogna osservare è la prima domenica di maggio e non il sabato in cui si festeggia.
Le reliquie di Gennaro furono conservate a Capodimonte, fino al IX secolo, ma non comprendevano i resti della capo del Martire e nemmeno il Suo sangue, perchè, come risulta dalle fonti antiche, essi furono sempre custoditi in un ambiente del vecchio duomo medioevale napoletano, è precisamente in quello che veniva chiamato "Stefania", perché edificato dal vescovo di Napoli chiamato Stefano I, in contrapposizione con l'altra cattedrale, anch'essa molto antica (intorno al VI sec.), che era chiamata "Ecclesia Sancti Salvatoris", ovvero la "Basilica di Santa Restituta Africana"; secondo una leggenda essa fu edificata dall'imperatore Costantino.
Nell'anno 831, come scritto in altro post dedicato alla figura di Gennaro, le sue reliquie, poste nelle catacombe di Capodimonte, furono rubate dai Longobardi, condotti dal principe beneventano Sicone e trasportate nella città Sannita.
Quando nel XIII secolo i regnanti angioini, precisamente re Carlo II d'Angiò, soprannominato "lo zoppo", decisero di edificare l'odierna Cattedrale, fu demolita interamente la struttura della "Stefania" e inglobato nel nuovo tempio quel che restava della basilica di Santa Restituta, rimaneggiata per l'adattamento: ovvero, monca del quadriportico e di un tratto di lunghezza delle cinque navate, nel lato d'ingresso. Quando il duomo angioino fu completato, le reliquie del capo del Martire e del suo sangue furono sistemate in un ambiente appositamente ricavato, posto a un livello superiore della navata laterale di sinistra (guardando l'altare maggiore), a cui si accedeva attraverso una scala a chiocciola molto tortuosa e stretta. In questo locale, che fu chiamato "Tesoro Vecchio", c'era un altare con due nicchie ai lati, dove si conservavano le due reliquie (L'ambiente risulta oggi ancora conservato, anche se rimaneggiato nel periodo barocco).
Incominciava in quel tempo a formarsi anche quello che fu poi chiamato "Tesoro di San Gennaro", con i busti dei primi sei santi compatroni della città (Agrippino, Efebo (o Eufebio), Aspreno, Agnello Abate, Atanasio, Severo), aventi il "mezzo busto" realizzato in legno, mentre il capo e le mani erano eseguiti in argento, fuso e cesellato. Poi c'erano anche dei gioielli e degli oggetti, in metallo e pietre preziose, donati da più parti. A custodia di questo ambiente e di quanto ivi contenuto, fu istituita la figura del "Cimiliarca", ovvero il custode del "Tesoro Vecchio".
Quando, durante i casi di calamità pubblica (eruzioni, terremoti, epidemie, carestie, alluvioni e guerre...), il popolo reclamava la benedizione della città con le reliquie di San Gennaro, un sacerdote si affacciava da questo ambiente, che dava sulla navata  della cattedrale e attraverso un finestrone, ancora oggi esistente, mostrava le reliquie del sangue e impartiva a tutti la benedizione richiesta.
Questa sistemazione logistica si protrasse fino al XVI secolo, con qualche nota di cronaca particolare (riferite dai cosiddetti "diari" dell'epoca), come ad esempio l'episodio che capitò proprio durante una festa della Traslazione, quando il prelato, che aveva il compito di prelevare la teca con le ampolline del Sangue del Martire dal "Tesoro Vecchio" e condurla in processione, sotto al pallio, per le strade della Città, non afferrò bene la teca d'argento (realizzata da re Roberto d'Angiò) e la fece rovinare a terra! La procedura prevedeva che la teca dovesse essere portata strettamente in petto, raccolta dentro una scola in tessuto ricamato, ma quella volta non furono ben adottate queste precauzioni... Insomma si temette il peggio, perchè la detta reliquia, non solo cadde a terra, ma addirittura rotolò per tutti i gradini della scala a chiocciola! Fu una vera fortuna che le ampolle non accusarono alcun danno alla loro integrità, né si ebbero ripercussioni nel ripetersi del celebre "prodigio". Qualcuno pensò a un miracolo del Santo.
Nella seconda decade del XVI secolo, precisamente il 13 gennaio del 1527, la città di Napoli era stremata da una epidemia di peste e da una carestia, mai viste fino a quel momento; la sanguinosa guerra tra Spagna e Francia, che vedeva convolta anche Napoli, diffondeva i suoi nefasti danni e sciagure, quindi i napoletani esasperati dagli eventi, decisero di chiedere l'aiuto divino e di stipulare, a garanzia del sicuro intervento, una specie di "patto": un patto alquanto insolito, perchè la "controparte" non era vivente fisicamente, ma era un Santo..., ovvero, con San Gennaro in persona...! I napoletani erano convinti che, laddove non si potesse arrivare a risolvere i problemi con le forze umane e terrene, solo l'aiuto divino poteva dare sollievo ai casi più disperati...! Parliamo ovviamente dei problemi civici e politici dell'epoca. Quindi essi non si scoraggiarono e organizzarono un "comitato" di alto profilo civico e rappresentativo, formato da dodici "deputati", scelti tra le famiglie più nobili dell'aristocrazia cittadina del tempo, chiamati "Eletti", tra quelle ascritte ai sei Sedili che governavano la Città e anche dei rappresentanti del popolo. Furono quindi nominati due componenti per ognuno dei cinque Sedili nobili: Capuana, Nilo, Porto, Portanova e Montagna, e due del Sedile del Popolo. Nacque così quella che sarà chiamata "Real Deputazione del Tesoro di San Gennaro". Questi rappresentanti si riunirono alla presenza del notaio, che si chiamava  Vincenzo de Bossis, davanti alle reliquie di San Gennaro, che furono esposte sull'altare maggiore della Cattedrale, stilarono e sottoscrissero un vero e proprio contratto ufficiale (Pubblico Istrumento).
Si impegnarono, affinché fosse debellata l'epidemia e la carestia, a realizzare un nuovo tabernacolo in argento dorato, del valore di 1000 scudi, per contenere la teca della reliquia del Sangue, e di depositare la somma iniziale di 10.000 scudi, destinati alla realizzazione di una nuova e sontuosa Cappella, con ingresso a lato della Cattedrale, per accogliere degnamente le reliquie del loro Santo Patrono e delle statue dei Santi Compatroni della città, che intanto andavano aumentando di numero. In realtà a conclusione dei lavori della Cappella, furono spesi ben oltre 480.000 scudi...! A rappresentare San Gennaro, durante la stipula dell'atto, fu sufficiente esporre le reliquie della testa e quella del Sangue, tanto si riteneva che il sangue liquefatto era segno di una conferma della volontà del Santo... Dopo poco tempo, quando l'epidemia e le altre calamità cessarono, i napoletani onorarono la promessa fatta a San Gennaro, edificando quello che verrà poi detto "Tesoro Nuovo", ovvero la "Real Cappella del Tesoro di San Gennaro". La cappella, con pianta "a croce greca", è di proprietà della Municipalità di Napoli, ovvero di tutti i napoletani, mentre l'organismo che l'amministra, resta ininterrottamente in auge da ben cinque secoli, ed è la "Deputazione del Tesoro di San Gennaro": Deputazione risultante tra le più longeve del mondo, che è presieduta dal Sindaco di Napoli in carica. Questa ultima disposizione fu però introdotta solo durante il Decennio Francese, perchè prima di quel periodo, il presidente della Deputazione era il Sovrano in persona.
Stampa con le due cattedrali della Stefania e della Ecc. S. Salvatoris

L'opera per la costruzione della Cappella di San Gennaro tardò ad essere iniziata e dovettero passare ben 81 anni, dalla firma del "patto", per vedere posata la prima pietra e iniziati i lavori (8 giugno 1608). La progettazione e la direzione dei lavori fu affidata all'architetto teatino Francesco Grimaldi; ma tra lentezze burocratiche, gli espropri, i problemi tecnici, le crisi politiche e anche gli attentati terroristici... (compiuti da alcuni artisti napoletani esclusi dalla committenza), orrorsero ben 38 anni per vederla completata (benedetta nel 16 dicembre 1646), con tutti gli abbellimenti che la compongono. Oggi, infatti, ammiriamo un degno capolavoro cittadino dell'arte barocca, composto da: stucchi, marmi pregiati, bronzi, argenti, e poi: il cancello in ottone (di C. Fanzago), il paliotto d'altare maggiore in argento (vero capolavoro di Giandomenico Vinaccia), le statue d'argento dei 53 Santi Compatroni (ognuna un capolavoro di argenteria napoletana), i dipinti su rame del Domenichino, l'affresco del "paradiso" nella cupola (pregevole opera dell'emiliano Giovanni Lanfranco, completato nel 1643). E, poi, la serie di statue dei santi in bronzo, le statue in marmo (Finelli & C.), i due organi del sei-settecento, gli oggetti ex voto e i gioielli ornati con pietre preziose di valore inestimabile, sono un tutt'uno di questo "capolavoro" d'arte, che dimostra la grande venerazione che il popolo napoletano, insieme ai regnanti e all'aristocrazia napoletana di ogni tempo, hanno sempre avuto verso il grande Santo e Protettore, San Gennaro. La frase scolpita sulla sommità dell'ingresso della Cappella è una sintesi di questo riconoscimento popolare e recita così:

"Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis. Civi, Patroni, Vindici", che tradotta vuol significare: "San Gennaro, dalla fame della carestia, dalla peste, dal fuoco del Vesuvio, per opera del tuo Sangue miracoloso, Napoli riconoscente eresse. Al Cittadino, al Patrono, al Difensore della Patria."
Abbiamo cercato di narrare con parole semplici e senza tanti appesantimenti, un passaggio importante della storia di Napoli, speriamo vivamente di aver raggiunto il nostro obiettivo. L'abbiamo voluto dedicare alla città di Napoli, a tutti i napoletani e a tutti i devoti di San Gennaro sparsi per il mondo, in occasione dell'antica ricorrenza napoletana.
Intanto diciamo, grazie San Gennaro!
Salvatore Fioretto

sabato 24 aprile 2021

Quel "Capo" popolare di Piscinola... 'o Capo 'a Chianca...!

Una delle zone più popolari di quello che fu il “Villaggio di Piscinola” è stata sicuramente quella che ancora oggi si usa indicare, con il toponimo tutto piscinolese, di “o Capo 'a Chianca”. La zona comprendeva, prima della "ricostruzione del dopo terremoto degli anni ’80", oltre alla strada principale, chiamata Via del Plebiscito a Piscinola, anche una serie di stradine laterali, un tempo densamente abitate; tra cui: vico I e vico II Plebiscito, via Dietro la Vigna, via Cupa Acquarola e alcune traverse interpoderali che un tempo permettevano il collegamento del quartiere di Piscinola alla Scampia agricola, come quella della proprietà della famiglia Del Forno e, poi, la strada di campagna di collegamento con i comuni di Mugnano e di Melito, detta Cupa Perillo.
L'origine del toponimo non è certa, anche se il riferimento è riconducibile quasi sicuramente al termine di "Chianca", che in antichità indicava la bottega del macellaio, ovvero "la panca": un bancone di legno sul quale si esponevano i tagli di carne alla clientela, parola che
poi il dialetto napoletano ha tramutato in "Chianca" (per l'abitudine di coniugare il suffisso "pia" in "chia"; es. piano diventa chiano). Forse l'origine puo' attribuirsi anche alla realizzazione di un macello comunale nella zona, come auspicato dalle autorità comunali di inzio secolo '900, ma non sappiamo se poi esso sia stato realmente realizzato.
Sulla strada del Capo ‘a Chianca, fino alla fine degli anni ’70, c’erano tanti negozi e negozietti: la lavanderia di “Pasqualino”, una sartoria, un fioraio (Sica), un emporio, una salumeria (condotta dalla famiglia Biancardi), una macelleria e ben due negozi di barbiere (uno sulla strada e uno all'interno del palazzo Staviano). Poi c'era il negozio di fruttivendolo, "casa e puteca", di donna "Sisina 'a parulana", che è rimasto fino a pochi anni fa, di fronte al locale dell'Associazione del SS. Crocifisso e di San Vincenzo. Molto frequentata era la cantina, un tempo condotta dalla famiglia Di Guida (in particolare il fondatore, che fu Peppe, soprannominato 'o Canteniere). Questa cantina offriva vini locali e una cucina casareccia di degno rispetto. Aveva uno spazio all’aperto, interno, situato nella parte retrostante al palazzo. Durante i festeggiamenti patronali di Piscinola, sul marciapiede della strada, nel tratto prospiciente a questa trattoria, si allestivano tavolini e sedie, per consentire la degustazione di superbe “zuppe di cozze” e “zuppe di marruzze”, preparate dal "maestro cozzecaro", detto Peppe 'o Russo…! Costui era, diciamo, in rivalità con l'altro allestimento che si preparava davanti al largo della farmacia "Chiarolanza", condotto dal "maestro cozzecaro", soprannominato "Buccetiello".
Nel vico I Plebiscito c'era il palazzo detto “della Calavresella, un altro palazzo, quindi uno slargo e, poi, seguivano il palazzo della famiglia “dei Manduline”, il palazzo di “Teresa ‘a Cacaglia” e il palazzo della famiglia “Spicularaglio”, infine l'unico palazzo senza arco, proprio di fronte a quello della Calavresella. Questi nomi atipici dei palazzi erano tutti riferiti alle famiglie originarie di Piscinola che vi abitavano. Di quest’ultimo palazzo, della "Calavresella", si può desumere che l’attribuzione derivi da qualche famiglia o donna, che l’abbia abitato o avuto in proprietà, e che era originaria della Calabria. Sull'inizio di via Dietro la Vigna, c'era il complesso di due palazzi della famiglia Lanzuise, che restano ancor oggi in gran parte conservati, uno dei quali mostrando sulla sua facciata, da chi viene dalla Piazza Tafuri, una minuscola ma notabile cappellina, con una bella statuetta del SS. Salvatore.
Nella strada c'erano due bassi, dove abitavano due vecchiette, che vendevano caramelle per sbarcare il lunario, e si facevano  concorrenza spietata tra loro... Una stava in un minuscolo locale accanto alla lavanderia di Pasqualino, e si chiamava "Michela 'a caprarella", mentre l'altra vecchietta, che i ragazzi dell'epoca chiamavamo "Luciella d''e caramelle", era proprio di fronte alla cantina dei Di Guida.
In un cortile del vico I Plebiscito, in fondo a sinistra, dove c’era un cortile aperto, con caseggiato attorno, vi abitava la famiglia di  "Vicienzo ‘o Popolo”, di professione ciabattino ambulante. Di questo personaggio abbiamo già dedicato in passato un post in questo blog. In quel cortile, purtroppo, all’inizio del 1944, morirono, come ci è stato riferito da più parti, per lo scoppio di un ordigno bellico, oltre dieci di bambini, tra cui proprio il figlio del “’o Popolo”, di nome Costantino, l'unico suo figlio maschio, mentre ebbe ben nove figlie.
Nel vico I Plebiscito abitava anche don Cosimo, detto 'o tarallaro, e dove aveva la sua bottega. La "voce" di richiamo, che declamava per reclamizzare i suoi prodotti, era: "Cambiare dollaro, moneta italiana...". La moglie donna Cuncettina è ricordata per la sua generosità verso i fanciulli, perchè era solita donare dei tarallucci dolci ai ragazzi del caseggiato.
Il palazzo del “Padreterno”, ancora esistente, anche se ristrutturato, stava sul largo dove oggi c’è un albero centrale; il caro Pasqualino d’’a Lavanderia, ci tiene a precisare, ogni volta che capita di incontrarlo, che in quel cortile, molto popolare di Piscinola, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1940), abitavano ben “101 bambini" e ognuno aveva un proprio nomignolo…!
Nella strada di via del Plebiscito esisteva anche la sede dell’Associazione Cattolica e Operaia del SS. Crocifisso e di San Vincenzo, che ogni anno organizzava la festa rionale, dedicata al Crocefisso. L’Associazione possedeva anche una bella statua di San Vincenzo, che negli ultimi anni fu deposta in una nicchia della cappella di Santa Maria della Pietà, del palazzo Fioretto e della quale poi se ne sono perse ogni traccia. C’è da dire che forse la devozione per San Vincenzo a Piscinola non è del tutto casuale, perché secondo alcune fonti, tra le associazioni di lavoratori che avevano eletto come loro protettore il “Monacone” della Sanità, ovvero San Vincenzo Ferrer (italianizzato Vincenzo Ferreri), c’erano proprio i “montesi”, ovvero i cavatori di pietre di tufo dalle cave presenti a Chiaiano e a Capodimonte (da noi chiamati “monti”); ovviamente il genere d’attività era molto florido e sviluppato negli anni ’50, periodo della ricostruzione postbellica e offriva molte occasioni d'impiego ai giovani del circondario, e tanti erano anche i “montesi”, devoti, che abitavano a Piscinola in quel periodo.
I componenti di questa Associazione organizzava, nella propria "contrada", i festeggiamenti patronali annuali in onore del SS. Crocefisso, che capitava nel mese di maggio. Per la festa si allestivano luminarie a partire dall'incrocio con via Cupa Acquarola, fino al termine della strada di Via del Plebiscito a Piscinola.
Nella parte antistante la piazza B. Tafuri, si realizzava una imponente "porta" di luminarie, tra la scuola T. Tasso e i palazzi di fronte, avente altezza fino ai tetti degli edifici. Per la festa si eseguiva la “Funzione del Crocifisso”. Si iniziava dal lato terminale della strada, (lato verso cupa Perillo), recitando la Passione di Gesù e seguendo il racconto del Vangelo, poi, lungo la strada si snodava la Via Crucis, con Gesù che portava la croce, fino all’inizio del muro della scuola Tasso, sul quale si rappresentava la scena della Crocifissione. Il personaggio di Gesù era interpretato sovente dal fioraio Mario Sica, il quale all'epoca aveva capelli lunghi e la barba rossa e, quindi, molto somigliante all’iconografia di Gesù.
Durante la scena della crocifissione, come dai Vangeli, un centurione porgeva a Gesù morente una spugna intrisa di aceto, all’estremità di una canna e diceva la frase (aggiunta nel copione): “Bevi, bevi carognone…!” Curioso il fatto che, proprio per questa frase, questo attore improvvisato, che si chiamava Pasquale, fu da allora soprannominato da tutti, come “Pasquale ‘o Carugnone…”!
Di questa genuina festa del Crocifisso abbiamo raccolto un aneddoto singolare e simpatico, veramente accaduto intorno agli anni ’50 del secolo scorso. Durante una di queste funzioni del Crocifisso (Chiamata: 'a funzione d''a Passione e Morte), il fioraio Mario Sica, che recitava stabilmente, come detto sopra, la parte di Gesù, forse quella volta non fu legato bene al simulacro di legno e iniziò a lamentare dei dolori alle braccia. Il "centurione", che secondo la parte, doveva simultare con la lancia la foratura del costato di Gesù, tardava a recitare e a completare il "quadro" e lui, Sica, attanagliato dal dolore, cercava in tutti i modi di far capire all'altro attore di accelerare la conclusione della scena, facendogli gesti e parole sussurrate, senza farsi accorgere dal pubblico, che intanto seguiva con animo sospeso lo svolgersi della scena… L'attore effettivamente non ne poteva più di stare in quella posizione…!! Ad un certo punto, avendo perso la pazienza e un po’ indispettito, iniziò a imprecare alcuni epiteti contro il "centurione", parole ovviamente non contenute nel copione e poco consoni al ruolo sacro che stava rappresentando in quel momento...! Malauguratamente tutti gli interventi degli attori erano diffusi nella zona, tramite un impianto di amplificazione allestito per la festa e tutti ascoltarono le frasi insolite, “recitate” fuori dal copione…! Il pubblico rimase inizialmente sbigottito e impietrito, mentre i due conclusero l’incidente, con una sonora e plateale risata…! E alla fine, quando capirono, risero divertiti un po' tutti... Quell’episodio è rimasto, a distanza di tanti anni, nell'inventario collettivo di Piscinola, come un simpatico aneddoto degli anni spensierati del dopoguerra e tutt’oggi è ricordato nostalgicamente, soprattutto dagli anziani del quartiere.
Il fioraio Mario Sica, oltre ad essere stato un valente professionista nell'arte floreale, è stato uno dei più celebri e ricordati organizzatori e anche presidente del “Comitato dei festeggiamenti del SS. Salvatore”, e ogni anno soleva anche allestire, a sua cura e spese, l’addobbo floreale per il “carro” sul quale si sistemava l’immagine del SS. Salvatore, durante la processione esterna.
L’Associazione del SS. Crocefisso e S. Vincenzo si componeva di molti adepti, e erano distinguibili durante le annuali processioni  del SS. Salvatore o del Corpus Domini, per l’ordine e l’eleganza con i quali partecipavano alla "sfilata", sia per l'uniformità dei vestiti, tutti rigorosamente in smoking nero, farfallina nera su camicia bianca, guanti bianchi e laccio con Crocefisso portato a collo, e sia per un insolito distintivo con lampadina luminosa, di colore rosso, portato da ciascuno fieramente al taschino della giacca (come si può osservare nella foto qui a lato).
Un personaggio di Piscinola che recitava il ruolo di comico e d’intrattenitore, anche durante questi festeggiamenti, era il comico piscinolese che si faceva chiamare “Sabbatino”. Non sappiamo se il suo era un nome d’arte oppure quello di anagrafe.
Ritornando alla via del Plebiscito, a metà strada si erge quello che viene indicato il “palazzo d’’a Scola”, ovvero il vecchio edificio scolastico comunale. Di questo edificio che conserva ancora le forme di un edificio pubblico, come
l'ampio portale, con le colonnine sull'ingresso,  il terrazzo con balaustra e la suddivisione ordinata delle finestre e dei balconi, sappiamo che ospitò per diversi anni la scuola elementare per le bambine, da quando il Comune di Piscinola decise di realizzare anche un luogo riservato alla loro educazione, mentre, fino a metà dell’800, a Piscinola c’erano solo i locali didattici riservati ai bambini, situati all’interno del Palazzo di Villa Vittoria (detto Grammatico). Dal 1930, con la costruzione dell’imponente edificio scolastico Torquato Tasso, l'insegnamento è stato aperto a tutti, anche se in classi separate e divisi (maschi e femmine) tra le due "scale", mentre i due mentovati edifici hanno perso le loro antiche funzioni e sono diventati abitazioni private.
Proseguendo, lungo la strada, troviamo anche l’antico e nobile “Palazzo Fioretto”, chiamato anche "Palazzo d''a Marescialla". Il complesso di edificio storico è appartenuto nei secoli ad alcune famiglie della nobiltà napoletana: dapprima alla famiglia De Luna d’Aragona e poi ai Duchi Giordano di Falangola, ai quali abbiamo già dedicato in passato appositi post.
Altro edificio degno di nota, ancora ben conservato, soprattutto dopo il restauro eseguito a metà degli anni '80 del secolo scorso, è il palazzo chiamato "Staviano". Questo edificio, posto verso piazza B. Tafuri, presenta una conformazione tipica diffusa nei casali di un tempo, chiamata "a Corte", con due corpi di fabbrica adiacenti, disposti a forma di "L", composti da una successione di locali al piano terra, con avamposti di archi e volte e, una serie di locali al secondo piano, comunicanti tra loro con pergolato, coperto con travi in legno e tegole. Al secondo piano si accede attraverso rampe di scale esterne.
Già in un altro post abbiamo ricordato la singolare iniziativa imprenditoriale condotta negli anni '50 dalla famiglia Ronga (Totonno (Antonio) detto 'o cassusaro), che riuscì ad allestire in un minuscolo locale, prospiciente alla via Cupa Acquarola, una mini impresa per la produzione artigianale di gassosa.
Discorso a parte merita la trattazione storica di via cupa Acquarola, per la sua valenza geomorfologica. Di essa tratteremo un dedicato post nel prossimo futuro, insieme alle altre emergenze idrogeologiche storiche del territorio.

Salvatore Fioretto

Per la realizzazione di questo post si ringrazia in particolare Pasquale di Fenzo. Ringraziamo ancora: Natale Mele e Pasquale di Vaio

domenica 18 aprile 2021

Echi di Cronaca...., gli avvenimenti dimenticati (seconda parte)

Continuando l'argomento, pubblicato in "Piscinolablog" nell'anno 2016 (prima parte), dedicato alle notizie di episodi accaduti nel Casale o Comune di Piscinola, tratte dalle cronache dei quotidiani dell'epoca, ecco due episodi capitati nel 1827 e 1865: il primo è un furto, mentre il secondo, è un incendio con un ferito grave. La terza notizia è tratta dall'autobiografia di un medico e scienziato, il dott. Nicola Pilla, che da studente in medicina e scienze all'Università di Napoli, fu mandato nell'anno 1791, a Piscinola, per studiare i casi di infezione di Colera, durante la stagione autunnale, scaturiti dal contatto di malcapitati lavoratori, con le acque infette del lago di Agnano, luogo allora utilizzato per macerare la canapa. La località di studio a Piscinola gli fu indicata da un suo docente, il grande Domenico Cirillo, che oltre a essere grande scienziato del Secolo dei Lumi, fu uno dei promotori della Repubblica Napoletana del 1799, poi giustiziato durante la Restaurazione borbonica. Nicola Pilla, degno seguace del Cirillo, fu anch'egli autorevole scienziato, ricercatore di medicina, geologia e vulcanologia, scrittore di numerosi saggi di ricerca, soprattutto nel campo epidemiologico, per i quali trasse fonti dalle sue ricerca a Piscinola, e anche autore di diverse teorie medico-scientifiche. Fu medico all'ospedale di Venafro e uno dei fondatori del manicomio di Aversa.

Ecco le cronache:

Notizia tratta dal "Giornale del Regno delle Due Sicilie"
(Ed. di Lunedì, 26 novembre 1827)

"La sera de' 3 del corrente  mese la  Casa di campagna di un tal Angelo Russo nel Circondario di Mugnano, e propriamente nel prossimo tenimento di Piscinola, era stata assalita da una mano di dieci persone armate, le quali rubarono aI Russo molte biancherie e altri oggetti di valore.
Niun de' ladri era stato riconosciuto, niuna traccia del commesso misfatto era rimasta. La Polizia intanto, ponendo in disamine la diffamazione e l'oziosità di taluni individui del villaggio succennato di Piscinola, fissò le sue particolari vedute su uno di essi; e di fatti arrestatolo, venne a conoscere in lui uno degli autori del furto; e dietro un tal passo scoprì pure tutti gli altri di lui correi, presso un de' quali si rinvennero degli anelli d'oro pertinenti al derubato Angelo Russo.
La massima prestezza dell'operato in questo affare fu quella che ne assicurò la riuscita. Taluni de' ladri non abitano ne' comuni ove i primi stati erano arrestati, e perciò prima di poterne avere essi la notizia si ebbe cura nella notte stessa d'investigare il ricettacolo e di sorprenderli. In una parola tutti gli autori d'un misfatto consumato nella notte de' 3 di questo mese, tranne un solo, per tutto il dì 9 dello stesso erano già in potere della pubblica Forza.
Per siffatta guisa tre perniciose masnade di ladri nello spazio di pochi giorni essendo state scoperte e catturate, è venuta la Prefettura di Polizia ed ottenere il più completo risultamento di quella instancabilità e speditezza che formano i suoi elementi principali."

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Notizia tratta dal giornale "Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbeto"
(Anno VI, Edizione di giovedì, 31 agosto 1865)

"A Piscinola è succieso no gruosso ncendio che ha fatto circa 30 mila lire de danno - Se so abbrusciate otto case coloneche chiene de lino e cannavo (canapa), comme pure cierte animale - Lo Delegato de Prubbreca Sicurezza de Capodemonte, ordinaje subeto a pparicchie guardie de Sicurezza e carrubbeniere (Carabinieri), pigliate purzì a Miano, de correre là pe llà a dà l'ajute opportune.
Correttero purzì li pompiere da Napule, e accussì lo danno non fuje tanto gruosso - No cierto Giovannantonio Ippolito, patrone de le massarie addò succedette lo ncendio, sta mpericolo de vita, pecchè per sarvà cierto denaro, se lanzaje mmiezo a le ffiamme, da dò fuje tirato miezo muorto."

............................ O .......................

 

Vita del Dott. Nicola Pilla, Scritta da lui medesimo. Nell’anno 1837. Sessangesimosesto della sua età.
(Empoli. Tipografia di Giuseppe Capaccio. 1850).

"Nacqui in Venafro nella Campania, il 1 maggio 1772. I primi anni della mia vita non meritano considerazione. Mi dedicai agli studi in età inoltrata. Le mie facoltà intellettuali furono tenaci nel loro sviluppo, forse perché dominato in quell’epoca da sonno profondissimo che non permetteva alzarmi di buon mattino. Superai finalmente tale difficoltà nel seguente modo. Nell’andare a letto la sera legava alternativamente il dito massimo de’ miei piedi con una cordella alla colonna del letto; ciò produsse il suo effetto, cioè di essere costretto destarmi dopo poche ore di sonno.
Un tal metodo praticato costantemente per due anni consecutivi fece si che dai miei 20 anni in poi acquistai l’abitudine di alzarmi alle 7 ore d’Italia di tutti i tempi.

Domenico Cirillo
Sul declinare de’ miei 17 mi recai in Napoli per applicarmi alla medicina. Passai sotto l’insegnamento del Professore Saverio Macrì i dei primi anni nella Capitale in quelle incertezze proprie di uno studioso senza conoscenze e senza appoggio. Nel terzo anno della mia dimora in Napoli (1790 al 1791) val a dire negli anni 20 incipienti di mia età, ebbi la fortuna di avvicinare i prof. Domenico Cirillo, Giuseppe Vario, Angiolo Fasani, e Filippo Cavolini. Trattando con questi celebri Naturalisti di que’ tempi contrassi l’inclinazione di associare alla Medicina, la Chimica e la Fisica, oltre altri rami della Storia Naturale come la Botanica, la Mineralogia e la Zoologia; al quale oggetto nella primavera dell’anno 1791 intrapresi una escursione ne’ Campi Flegrei sotto la direzione de’ prelodati professori che per me non restò infruttuosa.
Infine impiegai l’autunno dello stesso anno in Piscinola, antico casale di Napoli, ivi mandato dal Sig. Cirillo, per studiare alcuni morbi autunnali (Cholera Europeo), che sogliono annualmente contrarre quegli abitanti reduci in quella stagione dal lago di Agnano in occasione del macero della Canapa e del Lino.
Mentre io era così avviato dovei rimpatriare. In quest’epoca mi ammogliai e dopo poco tempo questa moglie si morì senza lasciare prole.
Non troppo tardi pensai a darmi a nuovo matrimonio e menai a seconde nozze con una giovinetta che poi disgraziatamente perdei dalla quale ebbi undici figli.
Tristissime vicende economiche e familiari nel migliore della mia vita! [...]"

Salvatore Fioretto

Lago di Agnano, particolare Casino di Caccia

domenica 11 aprile 2021

Intervista ad una anziana di Piscinola, il 1 maggio 2013...

Piazza B. Tafuri, Congrega e edificio T. Tasso. Creazione grafica di S. Fioretto
In quel primo maggio
2013, giorno di festa civile, al tramonto, passeggiando nel centro storico di Piscinola, in compagnia di una cara amica, incontrammo questa signora anziana, che stava fuori alla sua casa, che era un'antica abitazione con cortile e stanze, al piano basso e al piano superiore; ella ci ospitò con molto entusiasmo, facendoci accomodare nel suo bel cortile, su delle sedie di paglia, e li' ci regalò questa bella e particolare testimonianza della sua adolescenza e quindi della vita a Piscinola negli anni '40 e '50 dello scorso secolo. Ecco il racconto. Tra le parentesi sono riportati dei commenti e delle precisazioni per la pubblicazione.

"Nel 1943 morirono a Piscinola 12 bambini per un bombardamento in vico Primo Plebiscito, mentre due bambini morirono in via Vecchia Miano, a causa dello scoppio di mine che i bambini avevano accidentalmente trovato e fatti esplodere durante i loro giochi. Nell'incidente di via Vecchia Miano un terzo bambino fu ferito, perdendo un occhio.
Palladino Domenico abitava in via Vecchia Miano nel palazzo detto della “Meza capa” (palazzo Di Febbraro), assieme ad altri partigiani, inseguirono un tedesco, il quale salì nell’appartamento, e si nascose sotto il letto, ma nello scontro si spararono a vicenda e morirono insieme (secondo le cronache, in uno stabile in via Vittorio Veneto). Un altro piscinolese, soprannominato "‘o zuoppo", rimase ferito, perché si trovò in mezzo a una sparatoria tra tedeschi e partigiani.
La Piedimonte fu bombardata nella stazione di Secondigliano e ci furono i morti.
Durante la Guerra, con la mia famiglia, assieme a tanti altri, ci recavamo in un rifugio ricavato "dint’o Monte", detto così perchè questo rifugio era stato ricavanto in una cava abbandonata, situata in località Boscariello: stava appena dopo l’incrocio, scendendo, sulla destra della strada, da lì si accedeva al rifugio antiaereo.

La signora maestra Altamura era di Calvizzano e veniva alla scuola Tasso con il treno della Piedimonte. Anche le altre maestre venivano con la Piedimonte, molte da Aversa. Le mie due maestre si chiamavano Vastarella e…(non ricordava il nome). Molte insegnanti dormivano nella casa costruita nell’ex giardino della Piedimonte e lì facevano anche doposcuola.

Palazzo Villa Vittoria, detto "Grammatico" (Foto di repertorio)

Padre Juvè era un monaco (era un gesuita) che organizzava le Missioni, ogni volta metteva le croci in ricordo di quei raduni, come sotto al campanile della chiesa di Piscinola e su via Napoli a Marianella. Convertiva le persone e andava a convincere le persone che si riunivano nei luoghi di gioco ad abbandonare il vizio e a partecipare alle funzioni liturgiche in Chiesa.
Ricordo il vecchio parroco Carandente, originario di Calvizzano, aveva una grande ferita alla testa come il segno di una croce… Poi vennero i due Ferrillo. Angelo, divenuto parroco, e il fratello (era invece il cugino, anche lui di nome Angelo) …., detto “’o piccerillo”, che poi andò a fare il parroco nella parrocchia di Chiaiano.
Con il treno della ferrovia Piedimonte si andava fino a Piedimonte, sotto alla montagna del Matese, dove c’era un tram (?) che portava sul lago del Matese. Spesso ci recavamo anche a Caiazzo. "Come era bello e comodo quel treno, che peccato che lo tolsero da mezzo!".

Stazione di Giugliano, foto di H. Roherer, 1972

Durante la festa del Salvatore la giuria dei fuochi si metteva sul terrazzo della scuola elementare Torquato Tasso. I fuochisti erano 6, allora erano molti e di più dell’odierna festa del Cuore di Gesù di Mugnano: loro hanno copiato da noi…! A Piscinola venivano per vederli molte persone, anche da fuori Napoli. Erano belli i fuochi, la gente di Piscinola concorrevano tutti alle spese, perche ci tenevano al SS. Salvatore e al loro paese. Non spendevano i soldi per cose inutili e i soldi ci stavano…!
Il lunedì facevano la vendita all’asta e i fuochi. Il martedì c’era il concertino. Prima al concertino partecipavano solo i cantanti maschi, poi, man mano, si aprirono anche alla partecipazione di cantanti donne, vennero: Gloria Cristian, Angela Luce, Maria Paris;  tra i cantanti uomini vennero a cantare: Aurelio Fierro…..
A Pasquetta andavamo alla festa dell’"Archetiello" a Miano, dove si compravano giocattoli semplici e poco costosi. Spesso si ci allungavamo anche alla chiesa che stava giù al Cavone.
Festeggiamenti della Madonna di Loreto in vico Operai, anni '50

Ogni zona di Piscinola aveva una sua festa: ‘o Capo 'a Chianca: il Crocifisso e facevano anche la funzione del Crocifisso; 'a Madonna delle Grazie: la festa della Madonna e facevano ’a funzione di Campoleone; ‘o vvico ‘a Pagliaro: la Madonna de Loreto; ‘o Capo ‘e Coppa: il SS. Sacramento e ‘Mmieza ‘a Piazza: l’Addolorata. Abbascio Miano si festeggiava la Madonna del Carmine e S. Anna. Durante ogni festa si faceva una grande processione, dove i soci delle varie associazioni si vestivano tutti uguali, in abito nero e portavano i fiocchi dello stendardo. Quello del Crocifisso indossavano, come distintivo, oltre a un crocifisso al collo, anche una lampadina rossa all’occhiello.
Con la mia famiglia coltivavamo ben 33 moggi di terreno a Scampia (equivalente della superficie di 10 ettari) e vi accedevamo attraversando via Cupa Acquarola. Il proprietario era un certo sig. Frignano, presidente della Cassa del Mezzogiorno e della Banca dei Paesi Vesuviani. Era chiamato "‘o Signore d’’a terra".  La mia famiglia aveva anche diversi appezzamenti di terreno di proprietà, che dicevamo "‘a terra franca". Il terreno della fondazione Ruggero non fu donato, ma venduto alla fondazione da Ruggero(?), perché i proprietari delle campagne erano tutti “tirati”, e non donavano niente a nessuno!
Spesso portavo liberamente il maiale per le strade, attraversando via Cupa Acquarola e, giunti in campagna, gli davo da mangiare "'e papagne" (dei papaveri) ed altre erbe. Si diceva anche il detto: ‘a ll’Annunziata leva ‘o puorco ‘a dint’’o pprato!
La mucca, quando la portavamo a montarla, si diceva: "porta'’a ‘ntaurà” 'a vacca" (il termine deriverebbe da "tauros"= toro). La gestazione della mucca durava nove mesi e dopo il parto avveniva l'allattamento del vitello; la mucca si faceva accoppiare di nuovo, dopo un anno. Durante la gestazione, la mucca produceva il latte, anche se in quantità ridotta. 
Il latte si beveva appena munto ed era ancora caldo. Mio fratello si fece fare un secchiello dallo stagnaro, detto "Zichibbacco", ricavandolo da una lattina, detta "buatta" e mettendoci anche un manico. Oggi ognuno beve in un bicchiere diverso, e guai se si sospetta che qualcuno l’ha utilizzato, se ne prende un altro pulito…! Prima si beveva tutti in un unico contenitore, conoscenti e estranei, e nessuno mai si è infettato o ha preso malattie...!
Raccolto della Canapa, foto nelle campagne del Casertano

In campagna, seminavamo il granoturco, dopo l'avvenuta raccolta del grano. Si chiamavano i portatori di buoi, con il "prussiano", (aratro) per fare "porche" (solchi). Noi, che seguivamo i buoi, seminavamo i chicchi di granoturco. I buoi venivano da un paese di Caserta.
La Canapa si seminava sul terreno, dopo averlo zappato e "schianiato" (terreno livellato e appianato dalle zolle), a tale scopo tiravamo a mano il "mangano" (una specie di erpice) e nei solchi che si facevano, seminavamo i semi della Canapa. Io ero bravissima a seminare i chicchi, non ne sprecavo nemmeno uno, tutti sistemati nei piccoli solchi formati. Poi i semi si coprivano di terreno, facendo uso dei nostri piedi. Infine, passavamo sulla superficie di terreno un fascio di rametti di erba selvatica, chiamata "‘e fetiente", che uniformava il tutto e rendeva fine la superficie, perché così era richiesto per la coltivazione della Canapa, questo per poter fare germogliare facilmente i semi.
Messa a macero della canapa ai Lagni:i massi appesantivano i fusti in acqua

Quando si raccoglieva la Canapa, la portavamo a macerare ai Lagni (Regi Lagni) e, poi, una volta mecerata e seccata, era riportata nell'aia della nostra masseria, dove si estraevano le fibre dal tessuto degli steli; mentre con “i capizzi”, ossia i fusti della Canapa, si formava il “letto”, sul quale erano messe le mele annurche a maturare e, poi, dopo l'utilizzo, si bruciavano nel camino.
Io spesso estraevo dalle matasse un po’ di Canapa e la portavo a farla tessere nel palazzo Chiarolanza, dove c’erano "‘e vicchiarelle", che avevano un telaio e tessevano dei teli. Non ricordo della produzione del lino a Piscinola.
Nella nostra campagna seminavamo anche i ceci che non venivano alti, ma erano come i piselli nani, però si metteva lo stesso dei supporti in legno per reggerli; i ceci si ricavavano dai baccelli, come avviene per i piselli.
Prima non c’era il frigorifero e per la conservazione durante l'inverno si seccava al sole tutto il raccolto durante l'estate. Con le fave piccole, dette "‘e favielli", oltre a essere utilizzati per concimare la terra, si seccavano e si cuocevano in inverno. I zucchini si facevano a fette e pure erano esposti al sole per essere seccati, erano chiamati "‘e felle".
Anche i pomodori e i peperoni si seccavano e si conservavano per l’inverno, ridotti in polvere. I pomodori si conservavano soprattutto attraverso la produzione di conserve, riempiendo delle bottiglie.
L’urina raccolta nelle stalle, dentro un pozzetto interrato chiamato "pisciniello", era trasportata nei campi, a spalla, dentro un contenitore di legno (detto ‘o varricchione), sostenuto con un asse di legno da due portatori e serviva come concime delle colture
(elemento ricco di azoto e potassio).
Durante i lavori nei campi, agli operai si cucinava "pasta e patate" o "pasta e fagioli" e quindi si portava il pasto in un'unica "zuppiera", racchiusa in un telo. Dalla "zuppiera" mangiavano tutti insieme, ognuno con una propria posata. Si beveva in una grande otre ("mummara") di terracotta, detta "aulara"
(altri chiamavano "‘o Zerretiello"), che era anche molto pesante da portare. L’acqua si manteneva fresca, anche con il caldo estivo.
Chi restava a casa, durante la settimana, mangiava "pasta e patate", "pasta e fagioli", a volte "pasta e ceci", broccoli lessi, rape lesse, e altri piatti semplici. Spesso nel forno a legna si cuoceva un "ruoto di patate" (patate al forno), con l'aggiunta di sugna: non si crederà, ma l’odore genuino e accattivante si diffondeva per tutta Piscinola…!!
Si cucinava condendo le pietanze sempre con sugna e lardo, pochissime volte si utilizzava l’olio d'oliva. Nessuno aveva il colesterolo alto e altre patologie…!
La carne si mangiava solo la domenica e sembrava veramente una festa: Allora si vedeva che era domenica…!.
La pasta si faceva in casa con farina e uova, e si formavano "le pettule"
(specie di sfoglie di pasta per fare delle fettuccine).
Stazione di Santa Maria C. Vetere, S. Andrea de Lagni
Poi si tagliavano e si mettevano a seccare su un asse di legno, appoggiato tra due sedie. Si preparava il ragù mettendo dentro due salsicce di maiale. L’olio  era utilizzato qualche volta e si andava a prenderlo a Caiazzo.
Nel forno a legna, dopo aver sfornato il pane, si mettevano a cuocere anche le cotogne e le mele.
La "quagliata" era un formaggio molto liquido, realizzato con il latte avanzato; questo formaggio si rapprendeva mettendo dentro il "caglio". Il "caglio" ci veniva dato dai caprari, e in cambio noi li facevamo accedere
nelle nostre terre, per far pascolare le loro pecore e capre. Il "caglio" era usato un poco alla volta, ogni volta che si faceva il formaggio della "quagliata". Sovente la "quagliata" si portava anche nei campi e si mangiava in mezzo a due fette di pane.
Spesso, quando si era nei campi, anche i pomodori si mangiavano schiacciati in mezzo al pane. Non si lavava niente!
I ravanelli si raccoglievano dal terreno, si pulivano, strofinandoli sui vestiti e si mangiavano così… Oggi invece utilizzano l’Amuchina per disinfettare…, hii!
Non esistevano i frigo, la roba si metteva al fresco, nel pozzo. Oggi vanno a vedere le scadenze delle uova, allora si raccoglievano nei pagliai a decine e decine e mica si sapeva di preciso da quando stavano in quel luogo…?
Le nostre mele, dette "Austegne", erano molto saporite, e maturavano a fine di agosto: erano piccoline, bianche, con macchioline rosse. Non si sono viste più da anni...!
Seminavamo una qualità di patate che erano dette "Ghianculelle", avevano la pasta bianchissima, che non si sono viste più da allora! C’erano anche la qualità dette "‘e Riccioni".
Le patate per la semina non si compravano, ma ogni anno si conservava una certa quantità, di ogni qualità, per utilizzarle nella semina dell’anno seguente.
Con uva "Tindarella" usavamo colorare e dosare il vino. Il vino era buono e durava tutto l’anno.
Da ragazza eseguivo anch'io i lavori nei campi particolarmente faticosi, come l’irrorazione delle viti, con pompa a mano, utilizzando calce e "Verderame". Il "Verderame" e la calce si facevano sciogliere nell’acqua, dal giorno prima.
In via Cupa Acquarola molti andavano a fare i bisogni all'aperto, perché non c’erano i bagni pubblici.
Quando pioveva molti realizzavano delle specie di canalizzazioni, con piccoli argini di terreno, per incanalare quell’acqua concimata nei loro campi…
Prima il netturbino comunale
(forse anche di ditta appaltante) andava per tutte le case, con il sacco a tracolla, scendendo e salendo scale dei palazzi; i rifiuti si mettevano dentro a un carro detto "carrone", che aveva le sponde alte e si portavano via. Per avere quel rifiuto, che serviva a concimare i campi, si doveva pagare!
I rifiuti si deponevano prima in cumuli, in un posto specifico, per farli fermentare, e si diceva "'a 'ntufà"; quando erano "maturi", si distribuivano per i campi, prima di zappare (in pratica, da noi si eseguiva la raccolta differenziata e si realizzava quello che oggi chiamano "Compost", già prima della seconda Guerra Mondiale..!).
La "Maternità" in via Vittorio Veneto occupava tutto il primo piano del palazzo, lì si curavano e si visitavano le madri incinte o allattanti e i bambini piccoli. La chiusero negli anni cinquanta, perché la struttura fu spostata nel vecchio Municipio in piazza Tafuri: la nuova sede si trovava dietro la scala al piano terra del cortile"

Purtroppo, da qualche anno, la cara anziana piscinolese ci ha lasciati, resteranno di lei questi belli e nitidi ricordi, scritti e conservati nelle pagine di questo blog, per tutti coloro che vorranno leggerli in futuro.
Ciao, cara G. L.

Salvatore Fioretto