venerdì 8 novembre 2013

Don Lurenzo e Giusuppina... tra cantina e taverna!



Don Lurenzo e Giusuppina: erano fratello e sorella in arte cantinieri, vinai, che conducevano la loro cantina vendendo vino sfuso e preparando pranzi e cene a menù fisso.
Dapprincipio sul banco c’erano capienti "pizzipaperi" in terracotta smaltata poi sostituiti con contenitori di zinco da cinque litri con collo a becco, che riempivano direttamente dalle botti nel piano interrato, distinti per qualità: Sansevero rosso di Puglia, Gragnano, Terzigno, Guardiolo di Benevento, Zibibbo e vini di Sicilia che arrivavano in damigiane da 54 litri.
Vino che secondo le richieste, versavano nelle misure in vetro da 1 litro, mezzo litro e un quarto, inoltre vendevano birre in vetro, gazzose, aranciate, Coca-Cola e, poi bottiglie da un litro di "Spuma Rosa", una bevanda che ebbe un notevole quanto effimero successo, come il gelato SOAVE.
Sul bancone c’era una botticella di creta smaltata con piccolo rubinetto "Amaro Alpino" che recava impressa, su un lato, una bella ma curiosa e sconosciuta, a noi meridionali, stella alpina che in seguito seppi era il fiore dell’edelweiss dai petali lanosi, da dove mescevano minuscole prese d’amaro su richiesta dei clienti.
In seguito adottarono un più igienico impianto a fontanelle che succhiava vino direttamente dalle citate botti per riempire le bottiglie, ma la botticella con la stella alpina rimase sempre in bella vista sul bancone mentre i vecchi "pizzipaperi" messi a lucido da Zichi Baki (conosciuto stagnaro abitante in Abbascio Miano), andarono a rimpinguare la batteria di pentole in rame stagnato che campeggiava sulla retrostante cucina piastrellata, caratterizzando e rendendo antico e familiarmente piacevole l’intero ambiente, con i tavoli lunghi a otto posti, le sedie con gli schienali e sedili di paglia intrecciata e le immancabili tovaglie e salviette a quadroni rossi, bianche e blu e alcune mensole dove si esponevano fiaschi impagliati di vino rosso e bianco: i rossi del Chianti, la Valpolicella veneta, il rinomato Montepulciano, il bianco Est Est Est di Montefiascone, il Verdicchio di Jesi, i rossi e bianchi siculi della casa Regaleali, i Corvo di Salaparuta, i Pinot e tante bottiglie di Vermouth bianco e rosso, di Marsala all’uovo, qualche bottiglia di Strega e alcune di rosolio di anice e di liquore alla fragola.
I due germani si alternavano nella vendita, ma più spesso donna Giusuppina era affaccendata ai fornelli per quegli avventori che desideravano pranzare o cenare.


Tratto da "Cantine storiche di Piscinola" – parte I, di Luigi Sica
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Piazza del Municipio a Piscinola e al centro la storica cantina e taverna - cartolina anni '40 circa

giovedì 7 novembre 2013

Angolo poetico del venerdì... ..110: "Piscinola P.zza Tafuri - P.zza Garibaldi"...

Lo spazio di questa settimana è dedicato a un dolce ricordo: a quello che ha rappresentato, per decenni, la più frequentata ribalta..., la scena di tante storie ed episodi, "recitati" da una umanità ricca e variegata, che viaggiava a bordo del nostro mitico autobus di linea  "110"...!
Storie di uomini semplici, storie di normale quotidianetà... 
Quante liti, quante battute e risate collettive, ma anche la rabbia, la gioia, i comizi politici improvvisati e le proteste sociali, quanti incontri amorosi e anche di scontri furiosi, abbiamo assistito un po' tutti a bordo delle sue vetture, spesso sgangherate e rumorose... che procedevano lente, in mezzo a un fiume di lamiere...!
Questo oggetto rappresenta, simbolicamente, la gioventù di almeno tre generazioni..., che, per recarsi a scuola o a lavoro, ha trascorso ore e ore della propria vita seduti in scomodi sedili o stando in piedi, appesi a freddi sostegni di alluminio; spesso anche sospinti dal suo andamento traballante e dalla calca...
L'autobus della linea "110" rappresenta ormai, per tutti, un pezzo della nostra vita...!



lunedì 4 novembre 2013

Una scuola per tutti dall''800... Nel 1929 nasce la nuova scuola "Torquato Tasso"!


Cartolina anni '40 (collezione L. Sica)
L'insegnamento statale pubblico (di primo livello) nei quartieri a nord di Napoli e in particolare nel quartiere di Piscinola, presenta delle radici storiche profonde e prestigiose; leggendo questa ricostruzione si avrà un'idea chiara di quanto sia fondata questa affermazione...
La scuola elementare di Piscinola ha avuto sede, prima del 1929, nel palazzo Grammatico, in via del Salvatore, ed era denominata "Scuola Guglielmo Pepe". Tra i suoi prestigiosi insegnanti, che si sono alternati nell'insegnamento, è annoverato persino un beato...! Parliamo di Arcangelo Palmentieri, meglio conosciuto con il nome di beato Fra Ludovico da Casoria, grande amico di Bartolo Longo, che fu tra quelli che incoraggiarono il famoso avvocato della Valle di Pompei, alla costruzione della basilica del SS. Rosario.
Scolaresca primi del '900, presso via SS. Salvatore (collezione V. Tomo)
Già nella metà del 1800 il Consiglio Provinciale di Napoli aveva sollecitato il Comune di Piscinola ad ampliare le strutture scolastiche presenti sul territorio, per accogliere anche le bambine e separando i maschietti dalle femminucce; mentre nell'Annuario del 1842 si trova scritto: "...i comuni di Massa, San Sebastiano, Piscinola, Soccavo e Poggiomarino, non ne hanno uno di maestri delle scuole e uno solo ne ha Casoria con una popolazione di 7775 abitanti."
Verso la fine degli anni venti del '900, il regime fascista in un'ottica di aumento demografico e di incentivi per la natalità, approvò la costruzione di diversi complessi scolastici, soprattutto nella cerchia della cosiddetta "Grande Napoli", vale a dire nella cintura suburbana della metropoli, che era stata ampliata negli anni 1925-26, annettendo molti comuni autonomi alla città di Napoli.
Cartolina anno 1930, foto del giorno dell'inaugurazione (collezione privata)
Anche Piscinola ebbe il suo maestoso edificio scolastico, che fu intitolato al compositore della Gerusalemme Liberata, vale a dire al poeta Torquato Tasso, che fu sorrentino di nascita.
La nostra scuola si presentò fin dalla inaugurazione, avvenuta ufficialmente nell'anno 1930 (anche se completata già nel 1929) con importanti numeri...: tre piani fuori terra e un ampio seminterrato, una trentina di aule molto capienti, distribuite in due "ali", con altrettante scale indipendenti, un'ala per i maschietti e una per le femminucce, con capienti servizi igienici per ogni lato e per tutti i piani e, poi, una cucina, un refettorio, l'ambulatorio medico, l'ambulatorio dentistico, una sala di musica, una palestra coperta, un ampio cortile esterno scoperto per le attività ludiche e ginniche, la direzione e la segreteria. 
Durante il "ventennio", quando la propaganda fascista promosse la raccolta del ferro in dono alla Patria, fu smantellata la bella recinzione in ferro esistente lungo il confine con la via Plebiscito e al suo posto fu edificata un'orrenda e alta cortina in tufo che, difatti, isolò la bella scuola dal contesto del quartiere, quasi a volerla ghettizzare...!
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, le attività scolastiche furono sospese e la scuola fu militarizzata, divenne infatti sede di una Compagnia del "X Reggimento Autieri" del Regio Esercito Italiano. 
Foto scolaresca, anni '30 (foto collezione Mastroianni)

Con l'avvento dell'Armistizio e l'occupazione Anglo-americana, l'edificio divenne sede del comando Alleato Militare delle truppe occupanti.  Si registrano ottimi rapporti, anche di amicizia, tra i militari e la popolazione locale.
Il maestro don Mastropaolo e la sua scolaresca, fine anni '40 (foto collezione  Rosiello)
Con la partenza delle truppe anglo-americane, avvenuta agli inizi del 1945, l'edificio ritornò ad essere sede della scuola elementare e di un asilo comunale.
Nel dopoguerra fu realizzato un altro piano sopraelevato all'edificio (il quarto), con altrettante aule e servizi, come presenti nei piani inferiori.
Nella nostra scuola hanno esercitato la professione valenti insegnanti, molti dei quali provenienti dal centro cittadino e molti anche dalla provincia di Caserta. Quelli napoletani, utilizzavano (almeno fino agli anni '60) il tram "38", mentre quelli della provincia la mitica ferrovia "Napoli-Piedimonte" (fino al 1976).
Ricordiamo i temuti insegnanti Mastropaolo e Mola, soprattutto per la loro severità.
Scolari vestiti da balilla, inizi anni '40 (foto collezione Palladino)
Riportiamo una bella dedica alla scuola T. Tasso, scritta dalla sua insegnante  Giovanna Altamura: "...Un solo dono fece la città al piccolo paese assorbito. Gli costruì, proprio al centro, un grandioso edificio scolastico, il più moderno e ampio che si possa pensare, così bello da destare la gelosia e l’invidia degli altri rioni cittadini.
Quella scuola e le due chiese sono i fulcri intorno ai quali gravida ancor oggi la vita religiosa e civile del paesino, diventato appena un lembo d’uno dei rioni estremi della città".
Negli anni '90 del secolo scorso la sede della scuola elementare è stata trasferita interamente nel nuovo complesso di Via Vittorio Emanuele. 
Il vecchio edificio è stato completamente ristrutturato riportandolo alle linee architettoniche originarie, inoltre è stata riposta la cancellata perimetrale in ferro, demolendo finalmente il brutto muraglione in tufo. La facciata è stata inoltre dotata di un impianto di illuminazione notturno. 
Cerimonia di fine anno scolastico, in primo piano il corpo insegnanti e il parroco don A. Ferrillo (Collezione Mastroianni, anni '60)

Nella struttura oggi trovano posto gli uffici dell'anagrafe comunale, la sala presidenziale della VIII Municipalità e altri uffici tecnici comunali. Inoltre l'ultimo piano del complesso è stato concesso all'Istituto Professionale per il turismo "V. Veneto", che forma giovane hostess e giovani stuart. 
Salvatore Fioretto
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Scolaresca anno 1958 (foto collezione V. Cozzolino)

Scorcio della piazza B. Tafuri, con la congrega e la ex scuola "T. Tasso" (foto S. Fioretto)
Foto dell'edificio scolastico di notte, illuminato dalle luci artificiali dell'impianto esistente.

Edificio ex scuola T. Tasso, appena restaurato, con inizio di demolizione del muro di cortina (anno 2006)  Foto S.  Fioretto
L'edificio Municipale come si presenta ai nostri giorni (foto anno 2012)



sabato 2 novembre 2013

Miniello... Il ricordo di un eroe silenzioso! di A.M. Montesano



In questi giorni, in cui si parla con giusto orgoglio delle quattro giornate di Napoli, mi balza alla mente il ricordo di una famiglia fieramente antifascista: quella di Carmine Cascella. 
Ho conosciuto questo signore, chiamato Miniello, negli anni ’50, quando ero piccolissima e lui, ormai, alla fine della sua vita. Mi ricordo di un vecchietto piccolo, curvo e fragile; eppure, Miniello era stato uno dei più fulgidi esempi di antifascismo. Proprietario di un accorsato negozio di barbiere, nel corso del ventennio fascista fu continuamente bersagliato dalle rappresaglie delle camicie nere: quando tutti chinavano la testa e, pur di lavorare, si piegavano ad attaccare sulla giacca l’emblema dell’odiato dittatore, quel piccolo uomo resistette all’incendio del negozio, alla miseria che ne seguì e a tutto l’olio di ricino che fu costretto a ingurgitare. 
Discreto ed equo nei suoi giudizi, sopportò in un dignitoso silenzio tutte le angherie ed ebbe parole di sereno conforto anche nei confronti di chi, suo malgrado, era costretto ad accompagnare al confino i dissidenti politici. 
Quando fu possibile, Miniello riprese la sua attività in un nuovo negozio situato in via Vittorio Emanuele, poco dopo il largo don Carlo, dove, ormai provato e stanco, fu affiancato dai figli Antonio(Totonno) e Paolo(Pauluccio). 
Don Carmine trasmise la sua passione politica a tutta la famiglia: oltre che a Paolo e a Totonno, diventato poi uno dei più conosciuti parrucchieri di Piscinola, alla moglie Lucia, una casalinga riservata e sempre intenta al benessere della famiglia, ai figli Maria(Marittina), Flora, Salvatore e Gigi. Fra questa famiglia, che abitava nel mio stesso palazzo in via Vittorio Emanuele, e la mia a volte si accendevano appassionate discussioni ma non nacquero mai screzi; anzi, fra noi, ci furono sempre  un grande affetto, rispetto reciproco e collaborazione. 
Ecco, io credo che anche di questi uomini si debba parlare, oltre che di quelli che hanno combattuto sulle barricate, di questi eroi silenziosi che non hanno rinnegato la propria fede, nonostante le violenze subite, credendo, fino alla morte, in un ideale di pace e di uguaglianza.
AnnaMaria Montesano
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Scorcio dell'antico "Cape 'e Coppa" a Piscinola, anno 1978 (via V. Emanuele)
                                                                    

giovedì 31 ottobre 2013

Angolo poetico del venerdì: Don Carlucciello... mio padre! - scritto da A. Cascella


A proposito dell'angolo poetico del venerdì, con grande piacere, per l'opportunità di avere questo spazio, desidero pubblicare la poesia, da me arrangiata da una nota poesia di Roberto Benigni dedicata a Massimo Troisi, che scrissi per descrivere mio padre Carlo Cascella (detto mastu Carlucciello), duranti i lunghi e sofferti 17 giorni di terapia intesiva, prima della sua dipartita. 
Papà era molto noto a Piscinola e mi ha lasciato grandi insegnamenti, attraverso l'esempio, il suo modo di vivere e la sua condotta.                                                                   
                                                                                     Anna Cascella
 
Don Carlucciello... mio padre!
(A mio padre, Carlo Cascella)

Non sempre sapevo cosa teneva "dint'a capa", 
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un mastu Carlo, non se ne fa un altro.
Morto Carlucciello muore l’armonia
nascosta in qualsiasi dolce canzuncella,
che parla ‘e Napule, ‘o Vesuvio e Pullecenella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di "fuje 'a lloco", "jamme belle", "statte sora",
"’e nuosto", "isd-isd", "vuò balla’ nu tango", "azz’!".
Era come parlare col Vesuvio,
era come ascoltare del buon Jazz.
"...Non facciamolo sedere al primo banco!",
urlavano le dotte camicie nere,
"...Questo Cascella non deve capire,
tanto più che all’ultimo banco non vere quasi niente!".
E, invece, anche se solo qualche anno dopo,
riesce pure 'a studià!
Con lui ho capito tutta la bellezza della vita: 

l’amore per il partner, i figli, la famiglia e Dio,
la passione nel sostenere le proprie idee,
l’importanza di coltivare le proprie passioni,
la dignità del proprio lavoro, l’onestà,
l’amore e il rispetto per la natura,
l’importanza di aiutare chi ha più bisogno di noi,
la cura della propria persona e del vestire,
la pazienza e la capacità di gestire i momenti difficili della vita,
e tante, ma tante altre cose
e non m'ha mai parlato di altrui teorie,
e non m'ha mai raccontato altre storie.

O Papà mio, io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
e ti porterò sempre nel mio cuore
e mai mi stancherò di parlare di te
ai miei figli, ai miei nipoti e
a tutti quelli che vorranno sentir parlare di Te !!!!

Con profondo Amore
Tua figlia Anna (da Te detta Annarella)

giovedì 24 ottobre 2013

... ma il "Mare Verde" di Marotta potrebbe essere piscinolese...!? Di P. Di Fenzo



Lo scrittore e giornalista Giuseppe Marotta
Mare Verde" è una canzone musicata dal Maestro Salvatore Mazzocco, ma non tutti sanno che i versi furono scritti da Giuseppe Marotta, l'autore de "L'oro di Napoli". Don Peppino Marotta scriveva canzoni per diletto, come attività secondaria, ma in realtà teneva moltissimo ai suoi testi musicali, tanto che, come è riportato nella sua biografia a cura di Vittorio Paliotti, Don Peppino fu protagonista di un episodio alquanto insolito per un uomo mite come lui. Si era nel 1961, quando questa canzone, cui teneva particolarmente, interpretata da Mario Trevi e Milva, fu cantata al "Giugno della canzone Napoletana", importante manifestazione canora, che quell'anno sostituì il Festival di Napoli. Ebbene, la canzone si classificò seconda perché un giurato le assegnò un voto bassissimo, mentre, col massimo dei voti, spianò la vittoria a "Credere", una modesta esecuzione dalla stessa Milva e Nunzio Gallo, di cui si sono perse completamente le tracce. Marotta si recò in Galleria, passò, forse apposta, al bar dove era solito intrattenersi quel giurato, il quale vedendolo esclamò: "Don Peppino bello, cosa posso offrire?". "Oggi offro io!" rispose lo scrittore e gli scaricò tanti di quei paccheri, che ...glielo dovettero togliere da sotto...!  Un'altra attività secondaria di Marotta era la critica cinematografica. 
Pubblicò un libro dal titolo "Di riffe o di raffe", tipica e intraducibile espressione napoletana, che raccoglieva le sue recensioni cinematografiche. Articoli riferiti a film, a volte pessimi, ma che costituivano solo lo spunto per permettere a Marotta di raccontare i "fattarielli" della sua Napoli, come ben seppe fare poi in seguito anche Luciano De Crescenzo col suo Prof. Bellavista. Era conosciuto dalle maschere di tutti i migliori cinema di Napoli, quel signore che si sedeva nelle ultime file, e scriveva con una strana penna, formata da due parti, la penna e vera propria e la parte superiore, che montava una piccola torcia a pila, che gli permetteva di prendere appunti nel buio della sala, mentre seguiva il film. 
Io quella penna l'ho vista...!! 
O almeno credo di averla vista. Allora pensai che fosse una sorta di arma impropria, come una canna di pistola sormontata da una specie di mirino, che fuoriusciva dal taschino di una giacca.
Ricordatevi questo particolare...! 
Lo scrittore Giuseppe Marotta
Ci sono documenti dell'epoca, che dimostrano che all'inizio del secolo scorso, il proprietario terriero, l’avvocato Don Mimì Del Forno, chiese alle autorità il marchio di origine per un prodotto autoctono di assoluta unicità. Oggi si direbbe DOC: le Perzeche di "'Ndonio 'o Riccio", come le chiamavano... Pesche enormi, vellutate al tatto. Turgide e generose, invitanti come un seno di nutrice (espressione Marottiana). 
Il fondo di don Mimì Del Forno era coltivato da mio zio, che chiamavo zio Peppe, e spesso da piccoli frequentavamo.
Don Mimì Del Forno, che tutti chiamavamo "'O signore", era solito accompagnarsi nella tenuta di Piscinola con alcuni amici ed amiche, tutte bellissime, che sfoggiavano eleganti vestiti e cappellini fatti con stoffe ricercate che abbagliavano letteralmente le mie cugine. Io e Carminiello eravamo più abbagliati dalle signorine. Gli uomini avevano sempre nomignoli vezzeggiativi, un po’ come il “Barone degli Ulivi” di Totò, in "Signori si nasce", che si faceva chiamare Zazzà.
Un vezzo dell'epoca per i nobili: venivano sempre in calesse. Oltre a Don Mimì, mi ricordo un don Ciccio e un don Alfò. E c'era anche un Don Peppino... Era quello che mi incuriosiva di più, perché portava sempre con sè uno strano oggetto, come una canna di pistola col mirino che fuoriusciva dal taschino della sua giacca. Ve la ricordate quella strana penna che Marotta usava nel buio delle sale cinematografiche…!?
Doveva, o poteva essere, lo stesso oggetto.
Giuseppe Marotta con il cantante Aurelio Fierro
Perché, per me, si trattava di Giuseppe Marotta, che non era nobile, ma amava accompagnarsi coi nobili, i quali erano onorati della sua amicizia. Una frase tratta da una sua opera, potrebbe rivelarsi chiarificatrice: "Mi rendo conto oggi, solo oggi, che il destino, o chi per esso, tollera i ricchi, ma li adopera come ingenui strumenti, li obbliga a non turbare l'ingiustizia e l'inimicizia universali", oppure, forse ricordandosi della fame e la miseria patite da ragazzo, orfano di padre, cresciuto con la sorella Ada e la poverissima mamma, per esorcizzare e allontanare i guai, soleva dire: "Avete malattie, corna, pene di qualsiasi genere? Per carità, tenetevele!".
Giuseppe Marotta, benché nato a Capodimonte, aveva vissuto la sua infanzia in Via Materdei, dove tornava spesso a trovare i sui amici di una volta, tra cui alcuni erano nobili. Coincidenza vuole che il palazzo della famiglia Del Forno, ubicato tuttora tra piazzetta Materdei e Via S. Gennaro a Materdei, era vicinissimo alla povera abitazione di Marotta. Potrebbe trattarsi di un'amicizia d'infanzia, di quelle che durano nel tempo. Vorrà dire qualcosa? Per me si.
Portale di ingresso al tenimento della famiglia Del Forno a Piscinola
Il biografo postumo dello scrittore, il Prof. Vittorio Paliotti sostiene che la canzone "Mare Verde" fosse stata ispirata a Marotta dalla vista del prato dello stadio S. Paolo di Napoli. Benché io consideri quello stadio come il tempio in cui sono state officiate le gesta del più grande giocatore di tutti i tempi…, mi permetto, molto sommessamente, di dissentire. Marotta in tutta la sua vastissima bibliografia non ha mai, dico mai, accennato a un evento sportivo. Forse non era neanche tifoso di calcio. Era nota la sua proverbiale pigrizia. Mi chiedo come può il terreno di uno stadio di calcio ispirare versi come: "Nun è campagna è mare, mare verde, nu golfo d'erba, na scugliera e fronne, ca luntano se perde sott'o cielo d'està"? Chiudete gli occhi... un po' di fantasia... e potreste rivedere la Scampia che fu... 
Chissà se durante quelle passeggiate in calesse con i suoi nobili amici, non avesse conosciuto una giovane e bionda contadina a cui dedicare: "L'ombra te veste, ma te spoglia 'o sole, si' d'oro comm'o grano...". Poi continuava con: "Dorme nu bosco e canta na surgente, sisca nu treno sott'a na muntagna, va sbarianno c'o viento, na palomma cà e la". Se si trovava al S. Paolo, quella farfalla doveva essere scappata da un'altra canzone, magari di Dorelli: "vola la farfalla impazzita oh oh...". Il treno era chiaramente la "Piedimonte", di cui parleremo più in là e le montagne, senza i palazzoni attuali, erano le colline del casertano che si intravedevano all'orizzonte. 
E la sorgente? Non era una licenza poetica: c'era anche quella! I piscinolesi erano ingegnosi. Le strette stradine del paese, lastricate di basoli lavici, erano tutte in pendenza: 'Ncopp 'o monte, era via Madonna delle Grazie, 'O Cap 'e coppa, via Vittorio Emanuele, Abbascio Miano era Via Napoli, i vicoli primo e secondo Plebiscito erano le due "Venelle" di  'O Cap 'a Chianca, Via G. A. Campano era 'Ncopp 'a Vianova 'e Chiaiano. Areta Vigna oggi è storpiata in Via Dietro la Vigna, che anche i documenti ufficiali confondono ancora con una inesistente Via Pier delle Vigne. Le acque piovane raccolte lungo queste strade, tutte in pendenza, confluivano Abbascio all'Acquarone, e da qui immesse in una grandissima vasca detta piscina, da cui Piscinola, ubicata al centro del paese.
Palazzo della famiglia Del Forno, a Materdei

Altra località era detta Piscinella, evidentemente sede di piscine più piccole. Ma tutte queste vasche erano collegate tra loro da canali che gli stessi contadini provvedevano a costruire e deviare alla bisogna. Non avevano niente da invidiare ai famosi Regi Lagni Borbonici, erano solo di dimensioni più ridotte, ma altrettanto utili ed efficaci. Ma, mentre la costruzione dei Regi Lagni era costata ingentissimi capitali ai Borboni, qua le cose si facevano in economia, con l'ausilio di qualche vanga, zappa o marazzola. Senza ingegneri, ma con ingegno, avevano sempre a disposizione l'acqua per rendere ancora più fertile questa già fertilissima terra. I campi si potevano allagare anche quando non pioveva, formando rigagnoli con rane e rospi, che attiravano anche bisce acquatiche. 
Con Carmeniello trovai anche una tartaruga ('a cestunia), che riuscimmo a salvare, dal divenire un ottimo secondo piatto...
Queste erano, o avrebbero potuto essere, le sorgenti descritte nel testo della canzone. 
Troppe cose combaciano, ma non ci sono prove storiche. 
Voi che ne dite? 
La pensate come l'esimio Prof. Vittorio Paliotti, che sostiene che la canzone fu ispirata a Marotta dal prato del S. Paolo? Io, certo, con qualche forzatura, un po’ di fantasia, ma tanto amore verso questo quartiere, sono portato a pensare che i versi di "Mare Verde" siano la perfetta descrizione di quello che furono questi luoghi. 
Fosse anche solo per poterne continuare ad intonare il finale: "...e ce perdimmo pe' stu mare verde...".
Pasquale di Fenzo 
(Tutti i diritti per la pubblicazione dei testi del blog sono riservati all'autore, ai sensi della legislazione vigente)

Portale e strada di accesso al tenimento di proprietà Del Forno a Piscinola