venerdì 16 febbraio 2024

I Carafa di Marianella... diventano Cavalieri del Seggio di Nido

Prendiamo spunto da un episodio che ha riguardato la vita politica della città di Napoli durante la dominazione spagnola, per descrivere un pezzo di storia che ha coinvolto, di riflesso, anche il nostro territorio. La vicenda che stiamo a raccontare riguarda la nobile famiglia dei Carafa della Stadera, Principi di Sepino, Conti di Montecalvo e di Ruvo e quindi Baroni di Marianella: il Casale di Marianella fu acquistato da Giovan Tommaso Carafa, già Conte di Ruvo, il 27 giugno 1561.
Questa famiglia, di antico lignaggio e famosa per le grandi imprese condotte nella storia di Napoli, si era anche impiantata nel Casale di Marianella, come pure in quello di Piscinola. Dagli albi araldici e dalle genealogie consultate, risultano diversi componenti di questa nobile famiglia napoletana che sono nati o morti tra Piscinola e Marianella.
Iniziamo con Donna Beatrice Carafa, che sposò don Marco d’Afflitto, conte di Trivento e “signore” di Piscinola. Isabella Carafa, nacque a Napoli nel 1593 e morì a Piscinola il 13 aprile 1618; sposò nel 1607 Francesco Caputo, marchese di Petrella; mentre Carlo Carafa, nato a Napoli il 5 novembre 1602 e sposo di Ippolita Carmignano, morì a Piscinola l’11 luglio 1667. Giovanna Carafa, infine, nacque a Piscinola nel 1638 e sposò, in diverse nozze, Giuseppe Staibano, Fabrizio Staibano e Ascanio Sensale. Morì a Grumo nel 1737. Don Francesco e Don Ludovico Carafa nacquero a Marianella, rispettivamente nel 1630 e nel 1637.
La famiglia Carafa possedeva anche una masseria, denominata “Masseria del Monte”, la quale, come si evince dalla mappa di G. Porpora, si trovava nella parte meridionale del Casale di Piscinola, ai confini con Marianella e con la località “San Rocco”. Non sappiamo se questi nobili avessero in questa zona delle nobili residenze, oppure delle ville di campagna.
Per comprendere bene la storia che risale alla fine del XVII secolo, spieghiamo brevemente alcuni organismi amministrativi che sono menzionati.
A quei tempi, l'amministrazione della città di Napoli era affidata a sei "Sedili" o "Seggi": cinque dei nobili (Montagna, Nido, Capuana, Porto e Portanova) e uno del "Popolo".
Cappella Succorpo di San Gennaro (Duomo), stemma Carafa
I Sedili nominavano i deputati che componevano il "Tribunale degli Eletti" o "di San Lorenzo", che era un organismo preseduto da un magistrato, chiamato "Grassiero" o "Prefetto dell'Annona" (status paragonabile all'attuale Consiglio comunale e al Sindaco). L'organismo giudiziario era il Consiglio Collaterale, presieduto dal Vicerè, e composto da 5 giudici, che aumentavano in caso di guerra. Il Vicerè era nominato a sua volta dalla casa reale di Madrid.
I contenziosi e le liti amministrative, tra i nobili e non nobili, erano regolati dal Sacro Regio Consiglio, a cui si doveva presentare appello. L'annona e gli aspetti fiscali erano invece regolamentati dall'altro tribunale che era chiamato Regia Camera della Sommaria.
Il Seggio di Nido (o Nilo), nell'anno 1562, aveva ratificato il regolamento che disciplinava le procedure per l'aggregazione di nuove famiglie nobili tra i suoi iscritti, che doveva svolgersi "per scritture pubbliche ed autentiche", presentando come prova di nobiltà posseduta dagli aspiranti: "li quattro quarti, vicelet, lo quarto del padre e de la madre; lo quarto de la madre de lo pretendente, e de la madre di sua madre, che siano nobili anticamente". Detta procedura faceva seguito ai precedenti capitoli approvati dagli stessi negli anni: 1500, 1507 e 1524. Il processo d'esame della famiglia aspirante al Seggio durava all'incirca un anno; tenendo presente che, "dal tempo che furono deputati li seggi che non ave memoria d'uomo in contrario, sono stati e sono, che quando uno vuole entrare e godere gli onori e prerogative d'alcuno seggio,  lo dimanda per grazia a quello Seggio; e quando piace alli gentiluomini di esso seggio accettarlo, esaminando le qualità convenienti spettanti alla nobilità, è stato aggregato; e quando non piace alli gentiluomini del seggio, è stato repulsato: al che mai alcuno se ci è intromesso contro la volontà de' Nobili". Ecco ora la vicenda...
Stemma del Sedile Nido
I Carafa di Marianella furono oggetto di controversia tra i nobili cosiddetti di Piazza (contrari) e il governo madrileno (sia del Collaterale che del Vicerè, che erano favorevoli). Non era ovviamente il primo caso che capitava, perchè già negli anni precedenti si erano verificate situazioni analoghe, con altre famiglie nobili e in altri Seggi. Anche per la famiglia Carafa (in particolare per i due fratelli beneficianti del Maggiorascato), la "Piazza nobiliare di Nido" si opponeva all'integrazione "d'ufficio"; la richiesta di aggregazione, che era già stata presentata anni prima, fu esaminata e accantonata... senza sviluppi; ma sul finire del XVII secolo la situazione precipitò, acuendosi e diventando un caso politico di Stato.
La controversia si accese all'improvviso il 4 giugno 1695
, quando il Consiglio Collaterale aveva votato una deliberazione a favore all’ingresso della famiglia Carafa di Marianella nel sedile di Nido. I nobili del Sedile si opposero, presentando le loro controdeduzioni. Cosicché il 15 novembre ebbe a riunirsi il Sacro Regio Consiglio e per tre giorni si ebbero sedute per discutere sulla delicata materia contesa.
C’è da dire che i Seggi in cui era divisa la città di Napoli, conservavano da secoli una spiccata autonomia rispetto al governo della città, ancor prima del periodo vicereale, sia perchè di origine antichissima e sia perchè avevano un forte deterrente sulla vita amministrativa della Capitale: come già detto nominavano i loro rappresentanti a San Lorenzo; quindi forti di questo potere ed autonomia, oltre a soffrire di ingerenze da parte di organismi esterni, non consentivano l’ingresso di nuove famiglie nobili che non fossero di loro gradimento.
La vertenza i questione, che minava l'autonomia di una Piazza, divenne di interesse generale, tanto che, per tutelarsi da questa ingerenza, il Seggio di Nido ottenne dalle altre Piazze che fosse istituita una Deputazione comune.
La tesi fu dibattuta e difesa dall’avvocato della Piazza di Nido che era don Giacinto Arcadi, che ovviamente difendendo i privilegi dei nobili di Piazza, avanzava la tesi ostruzionistica all'ammissione. Di contro un sostenitore dei Carafa, era il Vicerè del momento, ossia il conte di Santo Stefano, il quale cercò di smussare questi ostacoli e di anticipare gli eventi, ma riuscì solo a fissare una scadenza per la deliberazione finale, di due settimane.
I Cavalieri più moderati del Seggio di Nido, che erano favorevoli all’ingresso dei Carafa, decisero di convocare un incontro informale,
per mettere in campo una strategia comune. Ben 35 nobili del Seggio si presentarono appuntamento in una nota libreria cittadina, esistente all'epoca presso Sant’Angelo a Nilo. La mozione messa ai voti fu quella che prevedeva di indire una riunione "ad hoc" del Seggio e votando a favore l'ammissione dei Carafa; così facendo si cercava di anticipare una possibile decisione forzata del magistrato regio; atto che avrebbe minato e messo in discussione la futura autonomia decisionale dei Sedili. Ma non fu trovato un accordo nemmeno in questa occasione, perché la maggioranza dei presenti votò contro la mozione. Quindi la controversia continuò per altre settimane. Si giunse, quindi, al 22 marzo dello stesso anno, quando l'Avvocato Arcadi, assieme ai Deputati delle Piazze, si recò dal Vicerè denunciando di sospetto quasi l’intero Consiglio Collaterale, dopo aver denunciato di sospetto anche il Petra, del Sacro Regio Consiglio. I fatti precipitarono presto, infatti, il Vicerè, non trovando una via di uscita al pericoloso empasse amministrativo del momento, prendendo spunto da un altro incidente capitato nel 23 marzo, ordinò l'arresto dell’Arcadi, il giorno 24 marzo seguente. Ma, come era prevedibile, la sua carcerazione durò pochissimo, perché forte del suo ruolo di agente presso il Cardinale Carafa, vescovo di Aversa e per l’intervento di costui e del cardinale Aguir, facente funzioni dell’ambasciatore spagnolo a Roma, l'Arcadi fu scarcerato nei primi giorni di maggio.

Intanto con la rinuncia presentata dall'Arcadi, la Piazza di Nido decise di eleggere un nuovo Avvocato della Piazza, nella persona di Pietro di Fusco. Inutile dire che la causa continuò con altre ostruzioni e altri colpi mancini, dall’uno e dall’altro fronte, arrivando alla trasmissione da parte del Vicerè alla casa reale di Madrid di una nuova relazione sulla vicenda. La risposta pervenne nel mese di novembre seguente.
Portone di legno del palazzo di Diomede Carafa
Di Fusco nel frattempo dichiarò che la causa non era proseguibile perchè la relazione era stata trasmessa a Madrid senza avere la regia autorizzazione. Madrid quindi autorizzò la prosecuzione della causa, ammonendo il Vicerè  di premunirsi
in futuro della licenza regia. Ci fu intanto un passaggio di consegne, il vicerè conte di Santo Stefano fu sostituito con il Medinaceli. Nel giugno del 1696 l’avvocato della Piazza dei nobili, Di Fusco, tornò alla carica sulla vicenda, ottenendo dal Collaterale di potere reclamare contro la decisione regia, favorevole all’ingresso dei Carafa nel Sedile.
Ovviamente la conclusione della controversia si vedeva allontanare ulteriormente...
Subentrò intanto un problema economico, in quanto si dovevano trovare le risorse finanziare per pagare i legali attivati per questa annosa controversia. La Deputazione della Piazza chiese quindi agli Eletti del nobili di poter attingere direttamente dai fondi dell’Annona Cittadina, per circa 400 ducati. A tale richiesta insorse ovviamente il rappresentante del Popolo, ovvero l’Eletto del Popolo. In realtà si chiedeva impropriamente di attingere al fondo popolare per saldare una controversia che era invece da ritenere di carattere privatistico, non giustificabile con l'ammanco al patrimonio popolare... La richiesta era stata poi avanzata senza prevedere il consenso dell’Eletto del Popolo! Dopo la scontata protesta dell’Eletto, Mercaldo, intervenne il nuovo Vicerè Medinaceli, bloccando il prelievo e subordinando la spesa all'ottenimento del consenso da parte dell’Eletto. Il Vicerè incaricò, poi,
Jaccaninno, che era il reggente  magistrato Grassiero, di trovare un accordo che accontentasse le parti a contendere. I Carafa protestarono ancora contro la decisione del Collaterale, favorevole all’avvocato di Fusco e portando il Vicerè a concedere un appello anche per loro, fissando una udienza del Consiglio Collaterale, il 14 del giugno, per la "Causa di Reclamazione".
Stemma allegorico del Sedile di Nido

A continuazione della vicenda, il De Fusco fu nominato consigliere e la Deputazione dei Nobili dovette nominare un nuovo Avvocato.
Alla fine dell’anno 1694, i Carafa potettero considerarsi finalmente integrati, grazie al sostegno dei Carafa di Maddaloni. Ma la diatriba ovviamente era ben lungi dall’essere definitivamente risolta, infatti, nel giugno 1695, Malizia Carafa e Giacomo Pignatelli, che erano tra gli ostili all’integrazione, inviarono una nuova contestazione al Vicerè, e questo acconsentì alla riapertura della causa.
Questo appello della causa andò avanti fino agli inizi dell'anno 1698. Fu nuovamente discussa la materia nel Collaterale, con l’intervento sia del Sacro Regio Consiglio che del Vicerè. A febbraio si era ormai sicuri sull'esito favorevole della vicenda, anche se gli eletti del Sedile si ostinavano, imperterriti, a osteggiare ancora l'ammissione, ma alla fine furono costretti a accettare il fatto compiuto, evitando in extremis l’onta della forzatura per regio assenso.
Nella convocazione del 20 aprile 1698, la Piazza del Sedile di Nido riconobbe finalmente ai due fratelli Carafa lo status di "eletti" in seno al Seggio, non mancando tuttavia di elevare la formale e sterile protesta in merito al tentativo d'ingerenza subito nelle loro prerogative, e di sottolineare che l'approvazione (sotto forzatura, sic!) non era da considerare pregiudizievole per la loro futura autonomia.

Salvatore Fioretto

La fonte storica del presente post è stata in gran parte “Napoli spagnola dopo Masaniello - Politica, cultura, società”, di Giuseppe Galasso, Firenze, Sansoni ed. 1982.

Statua del dio Nilo, posta nel largo antistante l'antica sede del Sedile che prendeva il suo nome

giovedì 1 febbraio 2024

Gli antichi metodi per la conservazione delle derrate e degli alimenti...

Il cosiddetto "Boom economico", avvenuto a partire dagli anni '60 del secolo scorso, ha favorito la diffusione a larga scala di apparecchiature definite con il termine "elettrodomestici", che hanno consentito, tra le tante cose, la conservazione di frutta, ortaggi, carni e tanti altri generi alimentari. Il frigorifero e il congelatore, infatti, sono elettrodomestici che oggi sono ormai diffusi in ogni famiglia, la loro introduzione ha permesso la conservazione per lungo tempo dei prodotti della terra e dei cibi, anche per molti mesi, attraverso la tecnica del congelamento. Altro beneficio è stato quello di poter importare i generi alimentari e i prodotti deperibili da regioni lontane da quelle di consumo, trasportarli e depositarli per lunghi periodi di tempo, tenendoli conservati in opportuni automezzi e locali, denominati "celle frigorifere".
Tuttavia è lecito chiedersi come si procedeva nei tempi passati a conservare il raccolto dei campi, nei cosiddetti "periodi di fuori stagione", ma anche le carni e gli altri generi alimentari, in assenza di queste apparecchiature, che hanno avuto larga diffusione soltanto negli ultimi 60- 65 anni?
Ebbene, in passato esistevano diverse tecniche per la conservazione dei prodotti: tecniche e procedure che erano consolidate e si può dire antichissime, perchè  tramandate di generazione in generazione, da tempo immemorabile e probabilmente discendenti dai primitivi popoli che ci hanno preceduti.
Queste tecniche sono essenzialmente legate alla disidratazione dei tessuti, ovvero all'essiccazione per l'esposizione al sole, oppure alla disidratazione per il contatto con dei prodotti naturali adsorbenti, come il sale da cucina; un'altra tecnica era quella di impedire la degradazione dei prodotti, eliminando l'aria dai contenitori di conservazione, attraverso l'utilizzo di liquidi o di soluzioni stabilite, come aceto, olio e alcool. Come si noterà sono tutte tecniche che utilizzavano sostanze naturali, oggi diremo "prodotti biologici", anche se la durata di conservazione dei prodotti non era molto spinta, come invece avviene oggi con l'utilizzo dei congelatori...
Ma procediamo con ordine, nell'esporre tutti i metodi utilizzati nel passato.

Essiccazione al sole:
Questa tecnica
consisteva nell'esporre i prodotti al sole, lasciando integri oppure eliminando i gusci o una loro parte facilmente deteriorabile.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-noci
-nocciole
-fave
-piselli
-origano
-granoturco
-grano e orzo
-fagioli
-uva passa
-pomodori (da ridurre a farina)
-peperoncini piccanti
-semi di zucca
-arachidi
-semenze per la riproduzione agricola (rape, zucchini, pomodori, erbe per il sovescio, ecc.)
-residui vegetali usati per comporre le lettiere degli animali nelle stalle (piante di ortaggi e cereali, erbe selvatiche, ecc.)
-fieno per bestiame (loglio (detta 'ugliata), erba medica, avena selvatica, ecc.)
-sfoglie delle pannocchie di granoturco (dette sbreglie), per essere utilizzate come materassi nei letti delle case.
Oltre al grano, orzo e granoturco, sovente alcuni di questi prodotti sopra elencati erano trasformati,
successivamente all'essiccatura, in farine, per essere meglio conservati in alcuni vasetti di terracotta, per poi utilizzarli mesi dopo per la preparazione di pietanze, come pomodori, piselli, origano e fave.

Sotto olio:

Consisteva nel cuocere i prodotti a bagnomaria e, dopo il raffreddamento e l'asciugatura, si procedeva alla conservazione in barattoli di vetro, ripieni con olio extravergine di oliva.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-melanzane
-peperoni
-carciofi
-pomodori (dopo essiccatura al sole)
-fagiolini (baccelli)
-alici.
Le melanzane, prima della cottura, erano
affettate e temporaneamente disposte a strati, a contatto diretto con il sale da cucina.

Sotto aceto:
La tecnica era simile alla precedente, ma i prodotti si conservavano in barattoli di vetro, ripieni con aceto di vino bianco.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-varietà di peperoni (detti "papaccelle"), necessari per preparare la cosiddetta "insalata di rinforzo" natalizia.

Sotto sale:
La tecnica consisteva nell'ottenere la disidratazione degli alimenti (pesce e carne), mediante il contatto diretto con il sale da cucina (cloruro di sodio).
Con tale tecnica gli alimenti erano sistemati ordinati, in dei vasetti di terracotta smaltati, alternando i vari strati ottenuti, con del sale marino fino. Per i pezzi di carni da conservare, invece, si eseguiva il cospargimento manuale del sale di tipo fino direttamente su tutte le superfici dei pezzi da conservare.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-alici e sarde
-pezzi di carne di maiale (lardo, interiora, ecc.).

Sotto spirito:
Con tale tecnica i prodotti erano immessi in vasetti di vetro, colmandoli al termine con alcol etilico puro al 99%.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-ciliege e amarene
-pesche e percoche
-pere
-uva da tavola (es. uva corna, detta cornicella)
-gelsi e more
-albicocche
-prugne e susine
-fragole e lamponi.

Confetture e marmellate:
Con tale tecnica i prodotti erano portati a cottura insieme a dello zucchero, in determinate proporzioni; dopo il raffreddamento il composto ottenuto era immesso in vasetti di vetro, ripieni fino all'orlo, per eliminare tutta l'aria.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-ciliege e amarene
-prugne e susine
-pesche
-pere e mele
-albicocche
-mele cotogne
-agrumi.
Con le pere, le pesche e le percoche si preparavano anche delle confetture sciroppate, con conservazione in acqua e zucchero oppure succhi di frutta conservati zuccherati in piccole bottiglie, sempre con cottura finale in bagnomaria.

Disidratazione per esposizione al forno:

Con tale tecnica i prodotti (solitamente frutta), erano esposti nei forni a legna, in fase di raffreddamento, dopo aver sfornato il pane. Gli elementi erano disposti all'interno di vassoi metallici (guantiere o ruoti). Dopo cottura, la frutta cotta era conservata, anche se per breve tempo, dentro alle credenze oppure consumata al momento, aggiungendo sulla superfice dello zucchero.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-prugne
-mele cotogne
-mele e pere.

Esposizione in luoghi ventilati e riparati dall'acqua:
Con tale tecnica i prodotti erano esposti appeso alle pareti di balconi, oppure sotto i pergolati, le capriate o i soppalchi (suppigni), per essere consumati durante l'inverno. Per il loro ancoraggio si procedeva a raggruppare gli elementi tra loro formando dei mazzetti ('o mazzo), oppure erano legati a dei fili di spago ('e piennoli).
I prodotti solitamente così conservati erano:
-sorbi
-meloni
-uva
-pomodori
-granoturco
-peperoncini piccanti
-aglio e cipolle
-spezie a rametti (alloro, origano, rosmarino, ecc.)
-caki.

Conserve:
Con tale tecnica i prodotti erano lavorati e immessi in vasetti o bottiglie di vetro di vetro  e ripieni fino all'orlo per eliminare l'aria contenuta. I vasetti erano successivamente bolliti a bagnomaria, in grossi pentoloni di rame o alluminio oppure in bidoni di acciaio. In realtà dentro a questi contenitori con la cottura veniva realizzato anche un vuoto spinto.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-pomodori, a pezzetti  ('e pellecchielle)
-passata di pomodori ('a cunserva)
-pomodori pelati.

Affumicatura:
Consisteva nel conservare i pezzi di carne o delle parti di essi precedentemente lavorate (insaccati), attraverso la disidratazione veloce, che avveniva con la tecnica dell'affumicatura all'aria aperta. Sovente si bruciavano foglie secche, oppure rami verdi di alberi per generare molto fumo.
I prodotti solitamente così conservati erano:
-salsicce
-noglie.

La sugna:
La sugna (chiamata 'nzogna), era utilizzata in cucina assieme al lardo per condire le pietanze e per eseguire le fritture.
Essa costituiva un grasso di origine animale, estratto durante la cottura delle parti più grasse del maiale, opportunamente tagliate a pezzetti. Dopo il raffreddamento, la sugna era conservata dentro vessiche estratte durante la macellazione degli stessi maiali oppure dentro a dei vasetti di terracotta.

Per conservare
durante il periodo estivo il vino, ma anche gli insaccati, il lardo, la sugna (dentro le vessiche), e altri pezzi macellati, si eseguiva l'esposizione nei depositi interrati, che qui da noi erano chiamati cellai o cellari. Il cellaio era un locale rustico caratteristico, realizzato in pietre di tufo, ricavato nelle zone sottostanti agli edifici antichi, sovente nelle antiche masserie, dove la temperatura si manteneva inferiore a questa esterna, anche di diversi gradi e praticamente costante. Unica condizione richiesta era quella che l'ambiente doveva essere ben ventilato, per evitare la formazione di muffe.  Anche le cisterne interrate (dette piscine), contenenti acqua piovana, erano sfruttate nel periodo estivo per tenere fresche bottiglie di vino, meloni e altri prodotti commestibili. Si otteneva lo scopo immergendo questi elementi direttamente nell'acqua, tenendoli appesi a delle cordicelle oppure dentro ai secchi dell'impianto di estrazione dell'acqua. Come è noto in queste vasche l'acqua si manteneva a temperatura costante e sicuramente più bassa di quella ambientale, garantendo quindi un'apprezzabile freschezza dei prodotti.

Ingresso cellaio, dipinto

Un'altra pratica assai curiosa, ma risultante efficace, era quella della conservazione delle patate durante il periodo invernale, fino alla successiva raccolta estiva. Per proteggere le patate dalla disidratazione e dalla luce, si procedeva a collocarle dentro a dei recinti interrati, spesso realizzati all'interno dei pagliai, e opportunamente coperte con gli stessi arbusti essiccati delle piante.
Infine, in passato anche il ghiaccio veniva prodotto in maniera naturale, in alcune località montane, come in Irpinia, dove esistevano le cosiddette neviere, che erano delle cavità scavate nella roccia o nel tufo. Nelle neviere si raccoglieva la neve fresca che cadeva nel corso dell'inverno nel territorio circostante e all'interno delle quali la neve veniva compressa in strati,
con i piedi, per farla diventare ghiaccio; il ghiaccio così formato si conservava fino all'inizio dell'estate. Secondo la richiesta, da queste masse ghiacciate si estraevano con frequenza dei piccoli blocchi di ghiaccio, che erano poi commercializzati nelle varie località, quindi a Napoli. Con l'iniziale diffusione dell'energia elettrica si realizzarono i primi opifici dediti alla produzione del ghiaccio, che veniva venduto a blocchi di dimensioni prestabilite. Il ghiaccio industriale era disponibile tutto l'anno, ma utilizzato prevalentemente nel periodo estivo, per la vendita delle bevande fresche in bottiglie (collocate in tinozze) e per la produzione dei gelati (grattate).

Ecco, abbiamo visto, in questo excursus storico-antropologico, come gli antichi si erano industriati a vincere il logorio del tempo e a tenere i prodotti ben conservati; con metodi semplici e tutti naturali. E chissà quanti saranno i lettori che, dopo aver letto questo post, scopriranno che alcune di queste tecniche vengono quasi istintivamente utilizzate ancora nelle loro case, senza farci tanto caso e solo per averle apprese dai loro genitori e nonni!

Salvatore Fioretto

Ringraziamo l'amico Pasquale di Fenzo, per averci ispirato su questo argomento, conducendoci alla composizione di questo post.

Per l'eventuale ripetizione di questi metodi di conservazione, rimandiamo il caro lettore alla consultazione dei saggi dedicati, perchè lo scopo del presente post è stato solo quello di farne menzione storica, senza esplicitarli.

sabato 27 gennaio 2024

Della serie i racconti della Piedimonte.. ." Un’avventura curiosa, quasi drammatica"...!

Ecco un altro bel racconto con episodi realmente accaduti al cospetto della ferrovia Piedimonte, tratto dal libro “Fogli nel cassetto”, di Francesco Tamma. Ed. Aletti Editore, 1955.


"Tanti e tanti anni addietro, precisamente dopo la liberazione d’Italia, nel dopo la seconda guerra mondiale, io, in uno sgangherato scompartimento di una vettura mezza sgangherata, tirata da una locomotiva sbuffante, m'allontanavo dalla mia città per portarmi nella Capitale. Il treno sferragliava lentamente. Dopo avere attraversato la verde campagna ricca d’alberi della mia terra, il nudo tavoliere della Puglia, la montuosa campagna Campana e la campagna Laziale, ammirando il paesaggio vario, a tratti pianeggiante, a gobbe e ricco di alberi; giunsi nella citta degli antichi Cesari, con la visione ancora davanti agli occhi delle ferite provocate dalla guerra alle città che il convoglio lasciò indietro, anche se la bellezza di nostra madre natura cercò di fugare le cattive visioni.
L’avventura che sto per descrivere non avvenne in Roma, che fu da me visitata con entusiasmo, di quell’entusiasmo dei giovani che è di loro la caratteristica, specialmente se è la prima volta che si visita una grande città come Roma; al ritorno, per affari, dovevo recarmi, con due colleghi compagni di viaggio, a Caserta.
Dopo tre giorni di permanenza nella Capitale, al mattino del quarto giorno, nelle prime ore del dì, andai a prendere il posto che doveva essere mio durante il viaggio, in uno dei vagoni merci che allora funzionavano da vetture per passeggeri. Naturalmente con ritardo quel benedetto treno partì, destinazione Napoli, ma, con i due colleghi, dovevo prendere la coincidenza per Caserta da Aversa.
Il viaggio fu caratterizzato da una lunga serie di fermate forzate per guasti ai fili elettrici in varie località per cui si accumulò ritardo su ritardo fino a farci arrivare nel tardo pomeriggio ad Aversa con la perdita della coincidenza per cui non ci rimase che prendere una soluzione, quella di prendere il trenino della linea secondaria, la Piedimonte che ci portò alla stazione di Santa Maria Capua Vetere distante diversi chilometri da Caserta.
Sulla piattaforma di una delle tre vetture del trenino affollato pensai alla comodità di casa mia con nostalgia. Ero stanco e preso dalla tristezza che, ben presto, svanì in quanto, mentre si attraversava la ricca campagna, in cui predominava la vite, mi veniva in mente le visioni delle scene pittoresche avvenute durante il primo tragitto: ragazzi e ragazze si affaccendavano a vendere ai passeggeri, durante le fermate, aranci e mele, non erano pagati da alcuni scalmanati che si dilettavano a comprare quando il treno si metteva in movimento, con la pronta reazione dei venditori da strapazzo i quali con grida e invettive, lanciavano sassi verso le vetture che si allontanavano.
Finalmente arrivammo a S. Maria di Capua Vetere quando il sole era già tramontato ed alcune nuvole avevano coperto il cielo. Dopo aver fatto un contratto con un vetturino, ci accomodammo sulla carrozza aperta, tipica napoletana a due posti, per cui per mancanza di spazio mi accomodai a fianco del vetturino che incitava il cavallo a trainare, ma il cavallo tutto voleva fare tranne che camminare. Intanto il crepuscolo ad ampie volute scendeva sulla natura che si accingeva a ricevere la notte che porta riposo a villani e lavoratori stanchi. Per ammazzare il tempo guardavo a dritta e a manca ammirando ciò che mi circondava. Il vetturino frustava il pigro cavallo che a un certo momento, preso dalla furia di un demone burlone, si mise a correre da sembrare di voler vincere una gara ippica.
Il vetturino si mise a inveire contro il cavallo con grida e suoni gutturali per farlo fermare ma quello correva all'impazzata, mentre i robusti e alti platani che affiancavano la strada ci passavano dai lati velocemente e i fossati ai limiti della strada ci corteggiavano per farci cadere in uno di loro. Io, con i miei colleghi ammutoliti e impauriti, tacito, vissi quell'avventura che aveva in sé molte incognite circa la fine a cui andavo incontro. Ad un certo punto io non pensai che a salvare la pelle ch'era scampata alle bombe della guerra, con un salto acrobatico, non che io sia un acrobata, direi il contrario, fui a terra dove perdendo l'equilibrio caddi, per fortuna, tranne alcune escoriazioni alle mani, non mi feci male. In quell’istante, il quadrupede, spezzando i legami che lo legavano alla vettura, continuò da solo la sua corsa sfrenata nel mentre la carrozza continuava a correre per forza d'inerzia senza guida da sembrare che da un momento all'altro andasse a finire in un fossato, ma la resistenza vinse la forza d’inerzia, quel mezzo di trasporto si fermò.
Il vetturino piagnucolava guardando il suo cavallo che si allontanava, ma la bestia nel suo percorso trovò altri cocchieri, che avendo assistito da lontano la scena, con colpi di frusta alle zampe lo fecero fermare con una scivolata per slittata dei ferri degli zoccoli. Il vetturino quando gli fu portato il cavallo, piagnucolando, si fece pagare tutto il tragitto da noi che, per aver felicemente scampato al peggio, continuammo a piedi commentando l’incidente ed infine scoppiammo a ridere, per le maschere di paura impresse sui nostri volti nel momento dell’incidente, non più pensando a nulla e neanche al peso dei nostri bagagli che ci faceva sudare.
Nel frattempo le nuvole s’erano abbassate e, come se tutto ciò non bastasse, per una decina di minuti, ci inviarono le loro goccioline che fecero il loro dovere di bagnarci, mentre il crepuscolo tutto avvolse nel suo manto scuro, quando, infine, arrivammo a destinazione.
Questa avventura curiosa, drammatica per lo scampato pericolo, giace archiviata nel mio subcosciente per essere rispolverata quando la devo raccontare o descriverla, come ho fatto ora."

 

A margine di questo bel racconto sulla Piedimonte, invitiamo, come facciamo sempre, il caro lettore interessato a leggere il romanzo menzionato, scritto da Francesco Tamma. 

Salvatore Fioretto

 



sabato 20 gennaio 2024

Quel medico lungimirante, che per primo in Italia realizzò case di cura private per i malati di mente! Giuseppe Santoro.

Riprendiamo un argomento trattato nel nostro blog nell'anno 2015 in due puntate, con a centro della storia la fondazione a Miano della casa di cura per malati di mente, conosciuta come "Villa Russo".
Descrivemmo, nella prima parte, che nell'anno 1825 un medico dell’ospedale di Aversa, di nome  Giuseppe Santoro, dopo aver ottenuto l'autorizzazione dal Ministero degli Interni, ebbe la brillante idea di prendere in fitto un appartamento della famiglia Quattromani, sito ai margini dell'antico borgo di Miano e, complice il paesaggio goduto nel luogo e la vicinanza con la Capitale, impiantò il primo stabilimento di cura privato per matti, vale a dire il primo manicomio privato del Regno di Napoli e, salvo smentite, forse il primo in Italia…!
La struttura si sosteneva con le rette mensili pagate dai familiari dei pazienti. Questo medico, infatti, ebbe la lungimiranza della reale remuneratività dell’investimento e della potenzialità di guadagno derivanti dall’esercitare pratiche di cure offerte in forma privata. Conoscendo bene i problemi di affollamento e di promiscuità dei pazienti ospitati nell’ospedale di Aversa, sapeva quanto fosse sentita la necessità di riservatezza da parte delle classi agiate e dell’aristocrazia di quel tempo, che cercavano un trattamento di riguardo e soprattutto la riservatezza per i loro familiari malati, quindi erano disposti a pagare delle rette mensili non trascurabili...
I risultati dell'investimento si dimostrarono subito brillanti, tanto che nell'anno 1839 il dottor Santoro riuscì a acquistare l'immobile di Miano, dal proprietario Cav. G. Quattromani, per la somma di 1300 ducati, con l'aggiunta di altri 121 ducati e 32 grani di interessi, da pagarsi in quattro rate, entro l'anno 1839. Lo stabilimento aveva una ricettività di circa 12 stanze, procurando al Santoro un reddito annuo di circa 1200 ducati.
Nel 1833 il dottor Santoro fu sicuramente l'artefice della fondazione di un’altra casa di cura privata, sorta poco distante dalla prima, in località Ponti Rossi. Questa struttura era inizialmente un casino di villeggiatura che fu rilevata dal profumiere Giuseppe Bayl che, dopo un infruttuoso tentativo d'investimento, cedette la proprietà a un certo Pietro Fleurent; anche se, a detta degli studiosi, fu un'operazione condotta per conto dello stesso Santoro...
Ma chi era questo dott. Santoro, dimostrato un eccellente imprenditore nella Sanità d'altri tempi?!
Il dottor Giuseppe Santoro si laureò in medicina nella antichissima Università di Salerno, il 25 Luglio 1808. Si specializzò subito per curare le malattie cosiddette mentali. Fu assunto medico assistente al Reale Manicomio di Aversa, già a partire dalla fondazione avvenuta nel 1813.
Nel 1825 abbandonò, come già detto in premessa, l'ospedale per fondare il Manicomio di Miano, che istituito con approvazione reale, nell’Aprile di quell’anno.
Santoro si dedicò anche alla ricerca scientifica. Infatti nel 1827 pubblicò un libro sulle malattie mentali, che ebbe per titolo "Trattato sull’alienazione della mente umana", dedicato a Sua Real Maestà Francesco I Re delle due Sicilie, il libro fu pubblicato attraverso la tipografia Chianese di Napoli. In questo interessante trattato, Santoro, effettuava una accurata diagnosi dello "spirito", che era messo in rapporto con l’organismo metabolico dell’uomo. Ebbe modo di dimostrare l'errore spesso commesso da quelli che programmano di trattare la pazzia con i metodi brutali e al di fuori dalla logica umana.
Il trattato ebbe come seguito il libro "Appendice e Regolamento generale", nel quale si descriveva la gestione e la direzione di un manicomio; in questo lavoro è spiegato molto accuratamente l'opera svolta dagli assistenti e dai "camerieri", il particolar modo il modo di procedere alla disinfestazione delle stanze, i turni ai bagni, la distribuzione delle medicine, il tempo e i percorsi da dedicare alle passeggiate e alle attività ludiche e di distrazione. Altri insegnamenti contenuti erano la scelta dei cibi e delle bevande da somministrare ai pazienti, per ciascun giorno della settimana e nelle diverse stagioni dell’anno; Santoro era dell'opinione che tutti questi parametri e aspetti della vita dei pazienti in un ospedale psichico avrebbero avuto una grande influenza sullo spirito e sulla natura umana del malato. Ad ogni modo, considerato il periodo della pubblicazione di questa Appendice, possiamo concludere che il Santoro ebbe modo di dimostrare con le sue ricerche le profonde e sagge cognizioni, igienico-tecniche, che egli aveva maturato nella disciplina medica assistenziale dei malati di mente.
Monumento dedicato al secondo proprietario
della casa di cura di Miano, da cui prese il nome
Il Santoro fu soprattutto un appassionato cultore della sua scienza; di fronte ai discordi pareri ed ai controversi sistemi scientifici sul trattamento dei pazzi, egli, con assillante angoscia si diede all’investigazione, all'osservazione ed all'analisi di nuovi mezzi per la cura degli alienati.
Condannò i crudeli sistemi del ferro rovente applicato sulla nuca del collo, del letto di forza a reprimere il furore, e del bagno freddo di sorpresa sbadatamente somministrato nei casi di follia, per i quali l’infelice il più delle volte soccombeva tra strazi impressionanti, per orientarsi verso nuovi criteri più umani e scientifici.
Fu così che con la nuova scuola i malati di mente furono trattati come uomini normali, attentamente vigilati ed osservati; si diede loro la possibilità di discutere col direttore, con i medici e gli  assistenti, onde ricondurli il più che possibile al ragionamento, di consumare i pasti l’uno vicino all’altro, e di avere alcune necessarie libertà nell’ambito del sanatorio.
Santoro morì a Miano, nel mese di giugno del 1866, lasciando il suo nome illustre legato alla antica casa di salute, da lui fondata, che volle con la forza di volontà farla diventare e considerare in quei tempi una delle prime d’Italia.
Per onorare la sua memoria, il Villaggio di Miano dedicò al suo nome una delle vie principali del borgo.
Giuseppe Santoro ebbe due fratelli: Tommaso, che fu canonico nella Collegiata di Marcianise, uomo dotato di eletto ingegno e di squisito senso di amore del prossimo; l'altro fu Domenico, che coprì la carica di segretario capo al Comune di Marcianise.
 
Nota che si legge nel Bollettino delle Scienze Mediche, ed. a Bologna, Volume 7 - Anno 1833

La narrazione della storia del dottor Giuseppe Santoro è un'altra dimostrazione di quanto sia importante questo territorio, che seppur periferico e posto al margine nord della grande città, ha una storia di degno rispetto, non seconda a nessun quartiere di Napoli, per opere, eventi, personaggi e cultura in generale...! 
 
Salvatore Fioretto