giovedì 4 gennaio 2024

Acqua, vento, neve, gelo, freddo e caldo... Condizioni meteo descritte nei termini e nelle espressioni dialettali!

Nevicata alla masseria "Renza Vascio", primavera 1984, foto di Ferdinando Kaiser

Considerando il rapporto così antico e profondo avuto dagli abitanti di questo quartiere con l'acqua, tanto da attribuirvi il toponimo del luogo, di "Piscinola" (sicuramente per la presenza di numerose vasche e cisterne interrate e a cielo aperto), abbiamo pensato di raccogliere in un post tutti i termini, le invocazioni, i "paraustielli" e tant'altro ancora, per dimostrare come l'importanza dell'acqua e più in generale delle condizioni meteoreologiche, abbiano influito in maniera sensibile anche sull'idioma napoletano  con l'uso di termini all'uopo coniati nel linguaggio corrente; nel mentre riscontriamo, poi, che alcuni di essi erano usati esclusivamente solo qui da noi...!
Sicuramente, leggendo questo post, molti lettori ricorderanno, forse anche con un po' di nostalgia, i loro nonni e i loro genitori, quanto erano in vita e citavano questi termini e detti nei loro discorsi...
Buona lettura. 

"Passeggiata sotto la pioggia", dipinto di Cristiano Banti, Pinacoteca Metropolitana "C. Giaquinto" Bari
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Quando nel territorio si verificava un temporale, si usava dire agli assenti, che non avevano assistito all'evento meteo: "è succìeso 'o pata pata 'e ll'acqua!": il termine "Pata pata" è un termine cosiddetto onomatopeico, ovvero ritmato e calzante, ma senza significato, usato solo per sottolineare, forse imitando il rumore dell'effetto, l'avvenimento di qualcosa di stupefacente e di temibile, in questo caso per indicare l'intensità e il fragore della precipitazione...!
In caso di una perturbazione particolarmente copiosa d'acqua, che si manifestava in una durata di tempo breve (oggi diremmo "bomba d'acqua"...), allora si diceva:
"...ha vuttato ll'acqua 'nterra 'a cantero!" oppure "...ha saputo chiovere!" oppure, ancora: "'o Pataterno s'è scurdate 'e ll'acqua!".
Già il presagire dell'imperversare di un temporale era indicato con: "s'è fatt''o cielo niro niro comm''a mezanotte", oppure: "...niro niro comm''a pece" oppure "'sta pe' venì 'na scatastata d''acqua!". Il verificarsi di qualcosa di più violento, soprattutto per il vento forte (evento non raro anche nei tempi antichi, con abbattimento di alberi, che oggi gli esperti metereologi definiscono "tornado"), si descriveva utilizzando il termine di "'o ciclone" oppure "comm''a 'nu ciclone", mentre se l'intensità del maltempo era di intensità minore rispetto ai primi (ai cicloni), si preferiva usare il detto più mite: "'na tempesta d'acqua", eventualmente accompagnato al commento di "se arrevutato 'o tiempo..." oppure "è venuto 'o diluvio 'e ll'acqua!" e anche con: "nu maletiempo ca faceva appaura...!". Quando, poi, queste intense e copiose precipitazioni generavano corsi d'acqua che defluiva nel territorio, lungo le strade in pendenza (le cupe), ecco che si aveva: "a lava 'e ll'acqua" oppure "'nu sciummo d'acqua"; mentre se poi si formavano lungo ai tragitti ampie e stagnanti pozzangare, si diceva che c'era: "o llavarone"... Di contro, quando le precipitazioni erano modeste oppure scarse, i termini usati erano: "'sta schizzecheanno", per indicare poche gocce (schizzi) d'acqua oppure di avere "quatte gocce d'acqua" oppure "chiove fino, fino...", mentre un evento meteo moderatamente intenso, ma di brevissima durata e con bassa quantità di pioggia, era indicato con: "na frusciata d'acqua". Quando, poi, le precipitazioni erano insistenti nella durata, si diceva: "chiove e nun lèva l'acqua a terra".
C'erano, poi, le precipitazioni costanti durante
l'anno, che si verificavano nel corso di alcune fasi del raccolto nei campi, come a maggio, in coincidenza della maturazione delle ciliege; queste ultime e immancabili precipitazioni, che duravano per diversi giorni consecutivi, erano indicate con la frase: "'a trumbea d''e cerase". Mentre, più in generale, i termini utilizzati per indicare l'avvenuta pioggia e la sua conseguente conclusione, erano: "chiùoppete" e "schiùoppete".
Contrariamente alla stagione delle piogge, i periodi di siccità, anche questi non rari in passato, si apostrofavano con: "s'è fatto 'o llastreco 'ncielo!".

Gli antichi e saggi contadini del passato, per loro opportunità, erano abili anche a fare delle previsioni meteo, spesso osservando la direzione del vento, oppure il colore e la forma assunti dalle nuvole, infatti quando il cielo nuvoloso assumeva l'aspetto luminoso di bianco intenso, si interpretava, senza ombra di dubbio, che era giunto il momento di porsi a riparo per l'arrivo di un violento temporale, dicendo: "a sole ghianco fuje da 'o campo!", mentre per le inoffensive nuvole
sparse nel cielo, si pronosticava con: "è sola 'na nuvola 'e passaggio...!"; un'altra previsione utile era quella di valutare l'intensità del vento, pertanto se esso era forte, si diceva: "è viente 'e tempesta!" e, più in generale, si utilizzavano gli scontati epiteti, del tipo: "fa cchiù rammaggio ll'acqua ca 'o ffuoco! oppure "quanno 'o cielo se chiude, 'o Pataterne se scorde 'e ll'acqua...!" oppure "o sole s'è annascuso mmiez''e nnuvole...".
La brina mattutina, riscontrata nel periodo estivo, era chiamata "ll'àcquazza", mentre la gelata che si constatava al mattino nel periodo invernale era detta: "'o masco" oppure "'a maschiata". Un'intensa gelata, distruttrice di raccolti, era apostrofata a malincuore con: "ha fatto 'o ggelo stanotte...! oppure: "'o ggelo ha fatto rammaggio (dal francese antico "damage" o "dammage", che qui sta a significare: ha fatto danni)".
La grandine era la precipitazione più temuta dai contadini, e che chiamavano "'e rànnule". L'approssimarsi di una grandinata, durante un temporale, era esclamanta con la rassegnata e ironica profezia: "'e vviglioche 'e cunfietti...!". Non era insolito che i chicchi di grandine avessero dimensioni ragguardevoli (si verificavano anche nei tempi antichi, quando delle "mutazioni climatiche" nemmeno di parlava...!) e in tal caso si usava dire: "so' rànnule gruosse comm''e nnoci".
I fulmini e i conseguenti tuoni si indicavano con: "'e lampi" oppure "'e saette 'ncielo" e "sta 'ntrunanno".
La giaculatoria invocata dagli anziani durante i temporali particolarmente intensi, con i temuti fulmini, era questa: "tuono e lampe fatte a rasse cheste è a casa e santu Jasse (Biagio). Santu Jasse e San Simone (o San Salvatore) chiesta è a casa e nostro Signore".
L'evento di una precipitazione nevosa, rara per la verità nel nostro territorio (le ultime significative sono state quelle degli anni 1956, 1972, 1984 e 2018), erano apostrofate con: "sciocca" oppure "sta sciùccanno". Mentre per indicare la presenza della nebbia si diceva  "'a neglia" e per marcare la sua intensità, si aggiungeva anche "...è comm''a 'na fùmeta".
Per le folate di vento, era coniato il termine di "vìntiata". Caratteristico e più temuto dai contadini durante i lavori invernali era il vento freddo di "Tramontana", qui chiamato curiosamente come: "'o vìente 'e terra". Mentre l'impercettibile brezza marina, che specie in estate arrivava a lambire anche il nostro territorio, era detta: "aria 'e mmare". Inoltre, il fastidioso Scirocco, quando spirava, era accolto con l'epiteto: "mèna 'o viente 'e scirocche ca 'nfiacchisce 'e coscie...!" Curioso il fatto che, durante la calura estiva, si invocava il refrigerio di un venticello rinfrescante e si diceva: "nun mèna (nun scìoscia) 'nu filo 'e vìento!" oppure "facesse 'na frùsciata 'e vìento!". Quando il vento diventava sostenuto, allora si diceva: "mèna 'nu viente accussì forte ca te taglia 'a faccia!" oppure "'mèna 'nu vìente ca pare che te porta...".
La calura estiva opprimente era chiamata "afa"; nelle giornate estive, quando si prevedevano picchi di temperature alte, si diceva: "'o ssole s'è 'a poco aizato e abbrucia già...!", mentre, durante le lavorazioni nei campi, spesso era necessario porsi a riparo e si diceva: "miettete contra viento" oppure "miettete 'nu poco a 'o frisco 'e ll'ombra".
Gli effetti dell'acqua per le strade e per i camminamenti sterrati era la formazione del fango, che veniva indicato con il termine di: "'a lota", termine poi divenuto anche un aggettivo dispregiativo, proprio per sottolineare, in analogia, qualcosa che appariva fastidioso per lo sporco correlato...
Quando il freddo invernale era valutato grave, si diceva: "fa 'nu friddo oggie che te trase dint''a ll'ossa...!".
Anche per descrivere gli effetti dell'acqua sulle persone erano state coniate espressioni molto
caratteristiche e comuni, come, ad esempio: "te si 'nzuppato d'acqua" oppure "te si 'nfuso comm'a 'nu pullicino" oppure "tengo l'acqua fino a dint''e cazettine" oppure "me pare 'na paparella" oppure "lèvate 'e panne 'nfuse 'a 'ncuollo" e le più antiche: "arreparate, miettete 'nu sacco 'ncuollo" oppure "asciuttete vicino a 'o fuculare", oppure "arreparammece sott''a 'o pagliaro" e, più in generale: "nun te fa chiovere 'ncuollo (o 'ncapa)". Mentre gli effetti sui luoghi erano sottolineati con: "tanto che ha chiuvuto ca se so' appilate tutt''e saittelle!"
Il sopraggiungere dell'invocata acqua, soprattutto dopo la siccità del periodo estivo, era salutato con: "finalmente chiove, accussì s'ammassa 'nu poco
'e povere" oppure "chiove, 'nce vuleva, pecchè 'a terra è arse d'acqua!" e ancora "mo sì che arrìciatammo 'nu poco...".

 via Cupa Grande-ponte Ferrovia Piedimonte d'Alife, anni '70, foto giornale L'Unità

Mentre al sopraggiungere del bel tempo, dopo un temporale, si diceva: "s'è schiarato 'o cielo!" oppure "s'è araputo 'o cielo...!".
Concludendo, per sottolineare che forse la mutevolezza del clima non è poi un fenomeno solo dei nostri tempi, gli antichi usavano già dire in passato: "se so' cagnate 'e staggione!" e, ancora: "nun è cchiù 'o tiempo 'e 'na vota!"...

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Auguriamo ancora ai cari lettori un buon anno 2024, aggiungendo l'augurio, stando in tema di questo post: "...che schiarasse 'na bella ghiurnata!"

Salvatore Fioretto

Ringraziamo per la cortese collaborazione, l'amico Pasquale di Fenzo. Ringraziamo Ferdinando Kaiser per averci fornito la foto della masseria Renza Vascio.


Via Cupa Grande (Miano) e relativo ponte della Piedimonte, durante un allagamento, anni '70


Alveo dei Camaldoli con pineta, presso Mugnano-Calvizzano, anni '70 ca.

Il rispetto degli animali e della natura.... di Salvatore Scarpato

Publichiamo con molto piacere questo bel racconto scritto da Salvatore Scarpato; è una storia realmente accaduta a Piscinola, nell'estate del 1963 ed è narrata dal protagonista con un lessicale fluido, semplice e appassionato, come un dipinto di letteratura...

"Il 5 agosto del 1963, a Piscinola, quartiere ancora abbastanza rurale di Napoli, si organizzò, come dalla notte dei tempi, una fiera degli animali, chiaramente un orrore per me che sono un animalista, ma forse anche da questo episodio nasce la prima pietra dell’edificio della mia vita. Andai a questa baraonda di confusione con il mio amico di sempre Luigi Gala ("di sempre" non è un solo modo di dire e vi assicuro che senza di lui non sarei potuto andare da nessuna parte).

Una fiera di animali d'epoca, da una foto di repertorio

Chi mi conosce sa il perché, chi non mi conosce guardi il film “Il mio piede sinistro" oppure legga il libro omonimo. Un giorno vi racconterò anche di Luigi detto Ciccio, non vi sono film su di lui, ma è un eroe, almeno lo era da bambino. Gigi, scherzo: chi nasce eroe rimane tale.
Ci faceva impressione, ci faceva orrore tutto ciò ma non riuscivamo a mettere a fuoco il perché... Intanto bisogna dire che noi con pochi altri bambini evitavamo di ammazzare come purtroppo facevano altri, qualsiasi cosa si muovesse (spero si siano ravveduti). Una lucertola o una farfalla per Giggi e me erano solo fonte di curiosità, tutta infantile e mai crudeltà. E come non ricordare l'ambito: il Re Babbacano? Un lucertolone da torturare senza pietà. Pochi di noi preferivano ben altro che fargli del male, il babbacano era un lucertolone autoctono(?) di Piscinola. Forse.

Durante il cammino nel deserto d’amore per gli animali venimmo attratti da una fetenzia di vocione trombante che pubblicizzava come una novità assoluta e divertente i pulcini colorati, a 20 lire l’uno. Così, per istinto, abbiamo pensato che quelli finalmente erano tutt’altro che cose brutte, erano colorati e questo ci rendeva felici, tanto che bisognava che questa nostra felicità venisse condivisa da chi ci voleva bene, per affermare, a modo nostro, che il bene che avevano riposto in noi non era un vuoto a perdere, ma un bene a rendere...
Mettemmo insieme i nostri averi, svuotando le tasche dei nostri corti pantaloni dal contenuto in soldi; ne volevamo sei, ma ahimè i soldi a mala appena bastavano per cinque, allora bastò niente per decidere per quattro pulcini, avremmo fatto due a testa: due alla sua mamma, due alla mia nonna.
Io vivevo gran parte della mia vita ancora da nonna, in un casolare in aperta campagna. Mia nonna lavorava come mezzadra, i miei la sera erano sempre presenti, ma il resto della giornata lavoravano nel commercio del baccalà.
Appena giunti da nonna, con fare deciso e felice gli mostrammo i quattro pulcini colorati, invitandola a scegliere quelli che più la facessero contenta. La nonna cambiò espressione, da contenta di vederci a un fare serio, ma di una serietà severa. Con il suo indice mi puntò il nasino, e in maniera che non ammetteva replica alcuna, disse… "NUJE 'E PULLE OGNI TANTO 'NCE MANGIAMMO MA MAJE 'E SFUTTIMME"...! (Traduco: noi i polli in caso di estrema fame possiamo anche mangiarli, ma lungi da noi togliergli la dignità nel prenderli in giro). Sì, li avevano pitturati con della vernice che certamente gli dava sofferenze atroci e ciò da un un punto di vista ci fece star male, ma dall'altra parte ci fece capire che nessun essere vivente può essere trattato senza dignità.
Ci mettemmo a piangere e chiedemmo un aiuto. Nonna ci aiutò, infatti li sequestrò tutti e quattro, invitandoci a vedere il giorno dopo se era stata capace di curarli e magari guarirli. Con pazienza ci raccontò che aveva usato dell’olio di lino per ripulirli e poi li lasciò liberi di crescere nell'aia. Ancora la ringrazio per questo insegnamento che cerco di trasmettere in modo particolare ai bambini che frequento."

Salvatore Scarpato 

Ringraziamo l'amico Salvatore per questo suo bel racconto e per averci autorizzato alla sua pubblicazione su Piscinolablog.

S.F.

giovedì 21 dicembre 2023

Il Santo, cantore del Natale... che ha contribuito per primo alla diffusione della lingua Italiana...

E' ormai tradizione di questo blog, in occasione del Santo Natale, di dedicare un pensiero al Santo che tanto amò Gesù Bambino, e il Presepe, dedicando a essi opere, scritti e canzoni. Ci piace quest'anno ricordare un aspetto che forse è stato messo poco in risalto, anche nei tanti scritti biografici a Lui dedicati, ovvero lo sforzo compiuto da Sant'Alfonso per diffondere i suoi pensieri, le preghiere e gli scritti di ascetica, a tutti, fino agli ultimi del popolo...
In questi giorni ci è capitato di leggere un bel trattato riguardante la vita del Santo, dove si evidenzia questo aspetto di Alfonso, in particolare di come Egli abbia contribuito alla diffusione della lingua Italiana verso tutti i cittadini e i fedeli, non solo tra i nobili, i facoltosi e i letterati, ma e soprattutto, anche a quelli non eruditi... agli ultimi! Questo sforzo compiuto da Alfonso si manifestò almeno un secolo prima che il grande Alessandro Manzoni abbia pubblicato il suo capolavoro letterario dei Promessi Sposi, ritenuto il capolavoro di diffusione della lingua italiana moderna.  Ci piace farlo ancor di più oggi, perchè si ricorda l'anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Sant'Alfonso, infatti fu ordinato nel Duomo di Napoli, il 21 dicembre del 1726...!
Ecco una parte del testo considerato, che è molto interessante e s'intitola "Sant'Alfonso cantore dell'umanità di Cristo - Un ricordo in occasione del terzo centenario della nascita", l'autore è Alessandro Andreini (pubblicaz. del 1996).

[...] All’interno della Congregazione delle Apostoliche Missioni egli (S. Alfonso) conduce anche un’intensa, feconda riflessione circa il modo più efficace per parlare al popolo ignorante e analfabeta.
Noi non possiamo oggi renderci esattamente conto di cosa significasse, per quei tempi, la frantumazione della lingua in innumerevoli dialetti. La lingua italiana come noi la parliamo, allora, non esisteva affatto. Si trattava soltanto di una lingua colta, letteraria, conosciuta solo dalle classi elevate, carica di toscanismi e, di fatto, inutilizzabile. Se c’era un’emarginazione davvero drammatica per quel tempo, essa era l'emarginazione dell'ignoranza, del non possedere una lingua comune, con la quale poter comunicare e, dove necessario, far valere i propri diritti.
Alfonso de Liguori sarà di fatto colui che forgerà l’italiano che noi usiamo correntemente. Se si aprono le sue pagine di meditazione, le sue indicazioni ai confessori, le sue preghiere, si è stupiti di incontrare un italiano vicinissimo al nostro, semplice, elegante nello stile, e tuttavia, già allora, perfettamente comprensi
bile. La lingua di Alfonso supera per molti aspetti tanta prosa letteraria anche di decenni più tarda, ed è, a pieno titolo, la nostra lingua.
Non si tratta, tuttavia, di un risultato magico o improvvisato: Alfonso studiò a lungo e lavorò per anni alla definizione della lingua, sempre guidato dall’intenzione di poter comunicare ciò che gli urgeva dentro. Più di un secolo prima della fatica di Alessandro Manzoni, che nelle nostre storie letterarie è indicata come la prima consapevole elaborazione di un italiano parlato, l’urgenza apostolica aveva già dato vita alla nostra lingua moderna. Ed è ad Alfonso de Liguori che la dobbiamo, nonostante si continui ad ignorarlo, più o meno consapevolmente. Sarà la straordinaria e immediata diffusione dei suoi testi a trasmettere al popolo della penisola quell’unità della lingua che tanti sforzi letterari non erano ancora riusciti a creare. [...]

Aggiungiamo ancora, le Sue opere, che sono state in tutto 111, risultano aver ricevuto numerosissime edizioni e ristampe e sono state tradotte in moltissime lingue, tanto che si dice che le opere scritte da Sant'Alfonso sono, per edizioni e traduzioni ricevute, seconde solo a quelle della Sacra Bibbia, e parliamo a livello planetario... e tale secondo primato risulta essere da tempo irraggiungibile e insuperabile...!
Il nostro Concittadino è stato veramente un personaggio ammirabile, oltre che per la sua Santità, ma soprattutto per la lungimiranza, l'intelligenza, lo spirito di sacrificio e l'abnegazione, possedute nel cercare, nella Sua lunghissima vita, di raccogliere sempre i risultati dell'eccellenza e sempre con molta umiltà...!

Buon Natale a Tutti e sereno Nuovo Anno!

Salvatore Fioretto





venerdì 8 dicembre 2023

A Napoli, il presepe è ambientato tra le strade e i vicoli della città... Il presepe tradizionale napoletano!

Come è noto, il presepe fu allestito per la prima volta in Italia da San Francesco d'Assisi, nella cittadina di Greccio. Il Santo lo allestì nella notte di Natale del 1223, in un eremo presente nel piccolo borgo, con personaggi del popolo, come era stato stabilito dal pontefice. In realtà il Santo trovò ispirazione dalla sacra rappresentazione che vide visitando la Terra Santa. 

A Napoli il grande sostenitore e divulgatore del presepe fu un altro santo, non napoletano di nascita, perché era veneto, ma possiamo dire di adozione, perchè vissuto e morto a Napoli: fu San Gaetano da Thiene (*1480 +1547) a diffondere il presepe e il suo culto tra i ceti popolari.

Ma si dovette attendere due secoli circa per raggiungere le massime rappresentazioni, quando il presepe fu preso a cuore dai regnanti borbonici, che curarono personalmente la creazione dei pastori e fecero allestire pregevoli rappresentazioni nelle loro sontuose dimore nobili reali. La massima opera del presepe napoletano la possiamo ammirare ancora oggi nella rappresentazione settecentesca conservata nella certosa di San Martino, costituita da quell'opera d'arte creata con i pastori donati dal collezionista e architetto Michele Cuciniello e inaugurata nel museo nell'anno 1879.
Pescatore

Con questo post intendiamo descrivere brevemente la struttura tipica del presepe napoletano e soprattutto il significato di alcuni personaggi caratteristici introdotti nella scena della natività.

Scena e ambientazione: Nel presepe tradizionale napoletano la Natività è rappresentata, non in una grotta o in una capanna, ma tra le rovine di un tempio romano (pagano), con frammenti di colonne e capitelli, architravi e fregi, con brevi tratti di mura di opus reticolatum, mattoni rossi e altri ruderi; l'utilizzo di questa tipologia di rappresentazione ha un significato ben preciso, essa infatti intende evidenziare come la venuta del Redentore abbia sostituito e sovrastato tutte quelle che furono le credenze e le divinità pagane fino a quel momento adorate. La scena è poi completata dal “volo” di sontuosi e colorati angeli che scendono a frotte dal cielo terso e turchino e dalla immancabile stella cometa. Gli angeli sono appesi a fini e collocati, verso l'alto, scegliendo figure di dimensioni via via decrescenti, in modo da rispettare la lontananza della scena.

Pastori e gregge

Le dimensioni dei presepi variano a seconda della grandezza degli spazi e dei volumi impegnati, ma l’elemento fondamentale che li accomuna è quello che tutte le case, le strade e i pastori sono ambientati in scene, con strade e vicoli, che simulano spazi e scorci riconducibili alla Napoli antica, con riproduzione di personaggi e di botteghe tipiche. Quindi nel presepe tradizionale napoletano il Bambinello Gesù è fatto nascere nel cuore della Napoli popolare… in mezzo ad affollate strade e nei vicoli della città vecchia. Sullo sfondo, poi, il paesaggio viene riprodotto con le immancabili scene di caseggiati, stradine impervie e sinuose, fiumiciattoli, cascate d’acqua, con ponti, mulini, alberi, fino alle montagne, il tutto abilmente rappresentato e armonizzato, rispettando sempre la prospettiva.

Sacra famiglia: figura centrale di tutta la scena del presepe è sempre la Natività. San Giuseppe è rappresentato secondo i dettami dell’iconografia classica: come uomo di avanzata età, con barba e baffi, veste il mantello e una tunica di due colori, giallo/oro e viola. Solitamente ha un bastone in mano e posa in piedi, un poco distaccato dalla Madonna, forse per indicare la sua paternità putativa su Gesù. Maria è una giovanissima e bellissima fanciulla, indossa un abito rosa e il velo azzurro, solitamente ha i capelli biondi e mostra il bambinello benedicente tra le braccia. La mangiatoia è di legno, con abbondante paglia.
Bue e Asinello: secondo la tradizione il bue e l’asinello riscaldarono con il loro fiato la mangiatoia in cui venne riposto Gesù. Simbolicamente rappresenterebbero il Bene (bue) e il Male (asino). Sono due forze in apparente contrasto tra loro, ma in effetti risultano in equilibrio perfetto e danno ordine al mondo intero...

Re magi: Nel presepe napoletano i Re Magi sono i personaggi più importanti, dopo la Sacra Famiglia. I tre personaggi vengono collocati inizialmente a margine del Presepe, ben lontani dalla scena della Natività e, poi, vengono fatti avvicinare ad essa, gradualmente, col passare delle settimane, per indicare che il loro lungo cammino si concluderà alla fine della permanenza del presepe, ovvero intorno al 6 gennaio (Anche se il presepe a Napoli è tradizionalmente riposto il 17 gennaio, coincidente con la festa di Sant’Antonio Abate che, secondo la tradizione, rappresenta anche l'inizio del Carnevale). 
I Magi solitamente sono rappresentati in groppa a dei cammelli o a piedi, ma la tradizione del presepe napoletano li vuole in groppa a tre cavalli, rispettivamente di colore bianco, fulvo e nero. I magi appaiono vestiti con abiti lussuosi e ricolmi di gioielli, con mantelli, turbanti o corone e portano, come è noto, i doni al Bambinello Gesù: Oro, Incenso e Mirra; ovvero: l'Oro, sta a simboleggiare la regalità del Cristo, l'Incenso, rappresenta la Sua Divinità, mentre la Mirra era un’essenza molto diffusa in estremo oriente nel periodo antico; da essa si ricavava una resina di sapore amarognolo, che si dice fu mescolata al vino offerto a Cristo morente in croce; quindi la sua donazione intenderebbe predigere la passione e la morte di Gesù. Nei quattro Vangeli ufficiali, solo quello di Matteo menziona i Magi venuti dall'Oriente, ma non è dato di sapere il loro nome.

E’ però la tradizione cristiana, che risalirebbe al IX secolo (tratta da un Vangelo cosiddetto apocrifo, chiamato “Vangelo Armeno dell’Infanzia”), a dare loro i nomi di: Melkon (persiano, con cavallo fulvo), Gaspar (giovane, con cavallo bianco) e Balthasar (vecchio, con cavallo nero), poi italianizzati in Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Essi solitamente sono considerati dei sovrani, oppure maghi, saggi, astrologi o scienziati, ma probabilmente furono dei sacerdoti babilonesi, eruditi conoscitori delle antiche scritture, oltre a essere abili astrologhi, scrutatori delle stelle e dei pianeti;

purtuttavia la parola “magi” viene riferita dall'etimologia biblica alla loro capacità di predire il futuro, attraverso l’osservazione degli astri, infatti seguendo la cometa raggiungono il luogo cercato. I Magi simbolicamente rappresentano i continenti conosciuti all'epoca, ossia: Africa, Asia ed Europa.

Botteghe tipiche: Le botteghe tipiche che troviamo in primo piano nel presepe sono: il macellaio con tutti i tagli di carne appesi fuori alla bottega, il fruttivendolo, con gli ortaggi e la frutta abilmente realizzata con cera, l’osteria, con l’immancabile forno acceso e l’oste che serve gli avventori a tavola, il pescivendolo che espone il pescato sui banchi, in cesti di legno ("spaselle"), il vinaio con botti, damigiane e frasche di uva… ecc.

Il pastore della meraviglia

Casa vecchia a due piani: Altro elemento immancabile che si ammira è l’abitazione a due livelli, allestita in primissimo piano, con una anziana che si mostra affacciata al balcone, con collane e orecchini di perle che le ornano il collo e le orecchie. Gli interni dell'abitazione sono accuratamente riprodotti in miniatura: solitamente una cucina ben arredata, con focolare in muratura, piattaie e tegami di rame esposti, una tavola imbandita di piatti, bicchieri e pietanze, alcune sedie di paglia… 

Nel presepe napoletano troviamo poi la presenza di alcuni personaggi che hanno un significato ben preciso nella tradizione popolare e sono:

Benino
"Benino": il  giovane pastore posizionato in prossimità della scena della Natività, che dorme disteso sotto a un capanno di canne, mostrandosi assopito in un bellissimo sogno... Secondo alcuni significherebbe l’umanità che attendeva il Messia, ancora ritenuto un incantevole sogno...
"Pastore della meraviglia":  posizionato vicino alla Natività, ha le braccia e la bocca spalancate, perché assiste con stupore alla nascita di Gesù. In lui c’è tutta la meraviglia della scoperta del divino, l’incontenibile sorpresa dell’uomo che viene in contatto con qualcosa di immenso. Per alcuni sarebbe lo stesso Benino ‘risvegliato’.
Lavandaia

Lavandaia o lavandaie: rappresentano le "levatrici" che hanno assistito alla nascita di Gesù e hanno prestato aiuto alla Madonna. I teli che hanno usato per pulire il Bambinello sono puliti e immacolati, per indicare l’origine miracolosa della Natività.
Pescatore e Cacciatore: sono due figure legate al fiume. Il pescatore è posto nella parte bassa del corso d’acqua con la canna da pesca in mano: rappresenta la vita. Il cacciatore, invece, è posto nella parte alta del corso d’acqua, mentre imbraccia un fucile: rappresenta la morte. Insieme simboleggiano il ciclo vita: sono collegati alla dualità del mondo celeste e di quello degli inferi e simboleggiano gli eterni contrasti: vita e morte, giorno e notte, estate e inverno, fuoco e acqua...

Zingara
Pastori con pecore: rappresentano il “gregge” dei fedeli che incontrano Dio, grazie alla guida avveduta del pastore. Il pastore impersonifica Cristo adulto che guida, pascola e protegge i suoi credenti.

Zingara: è una donna anziana, solitamente con un bimbo in braccio, rappresenterebbe una delle sibille (sibilla eritrea o cumana) che, secondo alcuni scritti, predissero la venuta di Cristo. Anche Michelangelo le ha raffigurate negli affreschi della celebre Cappella Sistina a Roma. La sua presenza nel presepe vuole rappresentare anche l’universalità del messaggio cristiano, rivolto a ogni popolo o etnia della terra.
Mendicanti, Zoppi e Ciechi: non mancano mai nel presepe. Essi rappresentano le anime del Purgatorio che chiedono preghiere ai vivi. A Napoli, nelle festività, specialmente a Natale, ciascuno dovrebbero recitare una preghiera per le “anime pezzentelle”.

Ciccibacco

"Ciccibacco" (detto in dialetto: “Cicci Bacco ngopp’’a votta”: Questo curioso personaggio dal nome buffo occupa uno degli spazi o locali posti ai lati della Natività. Guida un carretto trainato da due buoi e carico di botti di vino oppure è un vecchio che siede goffo sopra una botte con un fiasco di vino in mano. Ciccibacco è infatti la personificazione del dio pagano Bacco, quindi simboleggia gli eccessi e le smoderatezze nel mondo antico, soppiantate dall'avvento del cristianesimo. La scelta della collocazione di questo personaggio nel Presepe non è casuale, ma sta proprio ad indicare la vicinanza tra il sacro e il profano, l’eterna lotta tra il bene ed il male, e sempre quella sottile linea che li separa...!

Gobbo

Gobbo e Pulcinella: Altri due personaggi particolari che si incontrano in alcuni presepi storici napoletani sono: l’uomo gobbo, detto "Scartellato" e la maschera di Pulcinella. Il "gobbo" rappresenta l’umanità sofferente, imperfetta, che comunque combatte, non si rassegna e spera sempre nel cambiamento.
"Pulcinella" viene rappresentato con l'immancabile maschera nera, la camicia rossa e la casacca bianca; posa con il classico suo atteggiamento delle braccia e delle mani, per ammonire i visitatori (proprio a quelli che non manifestano alcun stupore alla vista di tanta bellezza), intendendo manifestare che in realtà non hanno capito proprio niente…!!
Dice: “Nun avite capito niente…!!”

Pulcinella

Zampognari: anche i zampognari, simbolo del Natale napoletano, non mancano tra i pastori più vicini alla Natività; sono vestiti con abiti tradizionali abruzzesi: con giubbotti di pelle di pecora, pantaloni a ginocchio di fustagno, calze bianche lunghe, con fettucce di cuoio nero incrociate e calzari tipici aperti, sempre in cuoio. Hanno poi i tipici copricapo dei pastori.

Altri pastori tipici sono i classici venditori ambulanti che un tempo circolavano per i vicoli di Napoli: l'uomo con "scardalana" (attrezzo per lavorare la lana), il venditore di caldarroste, l'arrotino, il suonatore di pianino, il ciabattino, la vecchia con arcolaio, la venditrice di uova, l'aggiustatore di piatti, l'oliandolo, il pizzaiuolo, l'ostricaio, ecc.

Cacciatore

I pastori simboli dei mesi e delle stagioni: Interessante è anche la correlazione che la tradizione mostra, rapportando i pastori alle stagioni e ai mesi dell’anno, infatti:
1. Gennaio: macellaio o salumiere;
2. Febbraio: venditore di ricotta e di formaggio;
3. Marzo: pollivendolo e venditore di altri uccelli;

Venditrice di uova

4. Aprile: venditore di uova;
5. Maggio: sposi con cesto di ciliegie o frutta;
6. Giugno: panettiere;
7. Luglio: venditore di pomodori;
8. Agosto: venditore di angurie o meloni;
9. Settembre: venditore di fichi o seminatore;
10. Ottobre: vinaio o cacciatore;
11. Novembre: venditore di castagne;
12. Dicembre: pescivendolo o pescatore.

 

Con questo post straordinario, dedicato alla descrizione del presepe napoletano, la redazione di Piscinolablog porge i più sentiti auguri di un sereno Natale a tutti i cari lettori.

Salvatore Fioretto