sabato 10 giugno 2023

Della serie i racconti della Piedimonte... Alla conquista del Ponte di Capodichino...!

Questo post descrive un'altra bella esperienza vissuta assieme agli amici dell'Associazione "G.A.F.A." (Gruppo Amici della Ferrovia Alifana), svoltasi a principio dell'estate 2010, avente per oggetto la riscoperta degli antichi impianti ferroviari sopravvissuti nella nostra zona.
Oggi a distanza di tredici anni da quell'evento, che sottolineo fu estemporaneo, perchè per nulla organizzato, possiamo dire che esso fu unico e irripetibile, perché capitato a pochissimi altri appassionati e curiosi,
considerando anche l'ingeneroso epilogo subito dal ponte di Capodichino...!

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Spesso, nel pomeriggio, quando ritornavo da lavoro con la mia auto, ero solito percorrere viale Umberto Maddalena, a Capodichino. Durante questo percorso, la vista dei tralicci superstiti della ferrovia Napoli Piedimonte d'Alife (che si possono osservare ancora oggi, sul lato sinistro della carreggiata), immancabilmente mi ispiravano tanti cari ricordi, con al centro il magico trenino...
I
l primo di questi tralicci (ancora oggi presente ai margini del viottolo interno che un tempo collegava al deposito della "Ferrarelle"), risulta essere molto antico, perché presenta la mensola ricurva  all'estremità. Esso risale, infatti, ai primi anni di costruzione e di esercizio della ferrovia, quando furono messi in campo dalla compagnia francese "C.F.M.I." (Chemins de Fer du Midi et de Italie), intorno all'anno 1905... Oltre a questo particolare traliccio, sono presenti almeno altri cinque o sei tralicci supersiti, disposti lungo il tragitto che mena verso il ponte di Capodichino. Questi tralicci, purtroppo (come risulta anche oggi), giacevano da anni in mezzo a "montagne" di rovi infestanti, che rendevano impenetrabile l'area e non lasciavano intravedere i binari e la massicciata...
Un pomeriggio di quell'estate 2010 (credo che eravamo nel mese di giugno), sempre al mio viaggio di ritorno dal lavoro, mi accorsi che le erbacce erano state asportate e si intravedevano bene i binari della linea ferroviaria!
Informai subito i miei amici del G.A.F.A. (Gruppo Amici della Ferrovia Alifana) della novità e subito mi adoperai per organizzare un sopralluogo di ricognizione...
Scelsi un giorno infrasettimanale, verso il tramonto, di quello che doveva essere uno spensierato e assolato mese di giugno. 
Rispose all’appello solo l'amico Biagio, perchè gli altri soci avevano degli impegni e non potevano partecipare nell'immediato. Insieme a Biagio organizzammo quindi l’ispezione, utilizzando degli insoliti mezzi di ricognizione: le nostre montain bike...!
Partimmo dalle nostre rispettive abitazioni ed ecco che, in un batter d'occhio, entusiasti, ci trovammo all'avanscoperta, nel sito inesplorato! Credo che agli occhi di qualche abitante del posto dovemmo apparire proprio come due "Indiana Jones", per il nostro insolito e curioso
modo di procedere durante l'escursione... Raggiungemmo il sito accedendo dalla strada pubblica e, poi, attraverso una stradina collegante alcuni caseggiati e fabbricati industriali, posti a ridosso di Calata Capodichino.
L'area di sedime della vecchia linea ferroviaria era delimitata da un muretto di cemento, che da un lato era sormontato da una cancellata, mentre, dalla parte opposta, era più basso e privo di recinzione e risultava quindi valicabile... Riuscimmo a superarlo, ma non senza fatica, soprattutto per il pesante carico determinato dalle nostre biciclette, che trasportavano "a spalla"...
Una volta superato il muretto, come per magia, c
i trovammo sui binari della ferrovia!
Iniziammo a camminare, ancora increduli, sulle pietre della antica massicciata, che stranamente si presentava ancora bianca; tuttavia, i binari erano alquanto arrugginiti. Molte traversine di legno erano marce e diverse erano come disintegrate. Sul selciato c'erano molti chiodi e piastre di blocco delle rotaie, pure esse arrugginite (queste piastre di serraggio sono chiamate in gergo ferroviario "chiavarde"), tuttavia molte di queste erano ancora in buono stato...
Provvedemmo a recuperarne alcune, considerandole come nostro "bottino" d’escursione...! Recuperammo anche due chiodi d'acciaio, che un tempo erano infissi nel centro di ciascuna traversina di legno. Sulla testa di ogni chiodo era stampigliato l’anno di installazione della traversina. Nel nostro caso si leggeva ancora bene il numero “72” (ossia posate in opera nell'anno 1972)!
I binari in questo tratto di ferrovia non erano più paralleli, forse perché i  pesanti mezzi utilizzati per la bonifica dell'area dalle piante infestanti, avevano urtato in più punti le rotaie, facendole deformare.
Proseguimmo l’ispezione diretti verso la mèta ambita, che era rappresentata dal ponte ferroviario di Capodichino!
Prima del ponte, incrociammo lo scheletro di una pensilina di acciaio, posta sulla banchina di quella che un tempo rappresentò la fermata facoltativa di Capodichino.
La struttura conservava ancora il cartello di acciaio, con sopra scritto "Fermata Facoltativa". Altro elemento che destò la nostra attenzione, sempre perché a noi sconosciuta, fu una scala in muratura, scavata nel terrapieno, che un tempo permetteva l’accesso ai viaggiatori, direttamente dalla strada Calata Capodichino. La scala  terminava con un cancello in ferro, che dava direttamente sul marciapiede della strada.
Pochi passi ancora e ci trovammo finalmente sul mitico ponte!
Tutto si presentava stranamente in ordine, come se qualche ora prima fosse transitato il treno della Piedimonte! Il piano di calpestio era stato pulito, le traversine di legno, ancora ben conservate, erano curiosamente poste in asse ai binari e incastonate nella struttura di cemento del ponte.

Traliccio superstite a Capodichino, ricostruzione della linea elettrica  (2010)
Altro elemento che suscitò la nostra attenzione fu la presenza, quasi completa, di tutti i tralicci della linea elettrica aerea: alcuni erano di tipo classico, con le mensole a forma di "Lamba", mentre altri erano del tipo "senza mensola". Questi ultimi, ovvero i tralicci privi di mensole, avevano solo la parte verticale e servivano a tesare, attraverso un cavo metallico, il filo elettrico strisciante, perché così avveniva nei tratti in curva. In serie al cavo tirante era un tempo interposto un isolatore di porcellana, di color marrone scuro.
Procedemmo ad attraversare lentamente e con cautela il ponte; non nascondo che avevamo un certo timore, pensando che il ponte stava lì, senza manutenzione, da oltre quarant'anni anni, tuttavia la voglia di continuare l’ispezione fu più forte dei nostri timori…!
Più avanti, oltre il ponte, il binari scomparivano interrati, anche se era conservata la sagoma in rilevato, che fu la sede della linea ferrata.
Altra interessante scoperta fu la presenza, dopo il tratto in curva, di un'arcata di mattoni rossi, di costruzione simile a quella dei ponti della ferrovia; tale struttura era stata realizzata quasi sicuramente per compensare il dislivello del terreno, permettendo di valicare con il ponte in ferro, via Cupa Santa Cesarea. Sopra a questa struttura in mattoni (che appariva alla vista come un ponte), c’erano accumulate decine di traversine di legno. Osservandole, apparivano come in una "scena", nella quale era stato fermato il tempo...; come se qualcuno le avesse depositate in quel luogo temporaneamente, in attesa di una loro immediata ricollocazione...
Facemmo diverse foto di ricordo di tutte quelle scoperte, per mostrarle agli altri soci, sul forum del G.A.F.A.
Al ritorno, sul ponte, fummo assaliti da uno sciame di api... Sembrava che queste protestassero contro la nostra invasione! Chissà da quanti anni quel luogo era rimasto isolato e incontaminato! Per fortuna non ci fecero niente.
Nei mesi che seguirono ritornammo a ispezionare il ponte di Capodichino e le aree adiacenti, anche con il segretario Pasquale.
Capitò in quel periodo anche un'altra interessante scoperta. Grazie sempre al mio intuito, scorgemmo dalla strada le due estremità dei binari, che si trovavano nel lato opposto all’attraversamento di Cupa Santa Cesarea, ossia al di là del ponte in ferro che un tempo attraversava la strada. Riuscimmo a esplorare l'area di posa dei binari, accedendo attraverso il cortile di un condominio adiacente. Ricordo che chiedemmo il permesso ad alcuni abitanti che si trovavano affacciati ai balconi, presentandoci come soci dell’associazione GAFA.
Questi ci autorizzarono con molta generosità. Valicammo quindi una specie di terrapieno, delimitato da un muro di contenimento, ed ecco che anche in quel sito si presentò, davanti ai nostri occhi, un bel tratto di binari, lungo circa 70 metri, discretamente conservato, sicuramente meglio del precedente sito. Addirittura il sole luccicava sulla superficie delle rotaie (come si puo' notare dalla foto pubblicata). Anche per questa scoperta, eseguimmo delle foto ricordo.
Quando terminammo l'ispezione, salutammo con molta riconoscenza i nostri benefattori..., eravamo felici...!
Restammo ammirati per l'ospitalità ricevuta da quelle persone, che pur non conoscendoci, ci consentirono di accedere al sito, attraverso l'area condominiale. Spesso la gente si mostra diffidente, soprattutto quando ci presentiamo come soci appassionati della ferrovia Piedimonte, ma in quella circostanza fu tutto ben diverso…! Grazie ancora cari amici!

Salvatore Fioretto 

giovedì 1 giugno 2023

La Rossa del Sud... la mela Annurca regina delle mele...

Considerata la “regina delle mele”, per le sue proprietà nutritive ed organolettiche, la “Mela Annurca” vanta nel territorio napoletano e in Campania almeno due millenni di esistenza. Tale retaggio non è una leggenda, come lo possono dimostrare i tanti riferimenti storici e archeologici rinvenuti, tra cui alcuni dipinti scoperti dagli scavi a Ercolano e, in particolare, nella “Casa dei Cervi”.
La mela “Annurca” era quindi coltivata e anche molto apprezzata "sulle tavole", nel mondo romano e, in particolare, nella rinomata e celebre nostra “Campania Felix”. Molto probabilmente il luogo di origine di questo eccellente cultivar sarebbe stata l’area puteolana, come si deduce leggendo le pagine dell’opera di Plinio il Vecchio: “Naturalis Historia”.
Secondo alcune interpretazioni storiche, la zona di provenienza risulta essere l'area di Pozzuoli  e in particolare il lago di Averno (considerato fin dall’antichità la porta degli Inferi), sarebbe stato Plinio il Vecchio ad aver sostenuto la primitiva denominazione della mela, attribuendo il termine di "Mala Orcula", proprio per il fatto che essa era prodotta nei dintorni del lago di Averno (quindi dal termine “Orco”, che si collegherebbe a quello di “Inferi”).
Andando avanti nei secoli, troviamo la testimonianza del filosofo e scienziato napoletano Giambattista della Porta (Vico Equense, 1º novembre 1535 – Napoli, 4 febbraio 1615), nella sua opera "Pomarium", pubblicata nell’anno 1583, che rappresenta un vero e proprio trattato sulla coltivazione degli alberi da frutta. Nel liber è riportato quanto segue: “... Qua orbiculata dicuntur cum suaviter stringant, habent: dulcedinem itat stomaco fint utilia: Plinius. Orbiculata à figura orbis in rotunditatem circumaƐti, hæc in Epyrum primum provenisse argumento sunt: Græci, quiepyrotica vocant. Palladius toto anno servari posse ait à Varrone, Columella, & Macrobio orbiculata dicta Maturescunt Augusto mala, que ad nos Puteolis asportantur, cortice toto rubro, ut cruore perfusa videantur, sapore dulci, in extrema maturitate ut mora nigrescunt, vulgo Mela orcole dicta: videntur mibs à Plinio descriptamala…”.
(ovvero, in sintesi, ... le mele che da Varrone, Columella e Macrobio sono dette orbiculate, provenienti da Pozzuoli, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…).
Altro particolare asserito da Della Porta è quello ruguardante la primitiva origine della varietà di mela, che risalirebbe alla regione Egea, perché già conosciuta dagli antichi greci.
Quindi dal termine “Orcole”, per degradazione letterale avvenuta nei secoli, si sarebbe passato a "anorcola" e, poi, a "annorcola", fino a giungere alla seconda metà dell’’800, quando troviamo scritto definitivamente la parola “mela annurca”. Infatti nel “Manuale di Arboricoltura”, scritto da G. A. Pasquale, nell’anno 1876, compare ufficialmente e per la prima volta il termine di Mela "Annurca". Ecco il testo: “Mela annurca (de' napolit.) Pomo di mezzana grandezza, quasi rotondo, rosso-carnicino marmorizzato; polpa senza odore, zuccherina, saporosa. Si conserva per l'inverno, ed è commerciabile. È ancora la più comunemente usata a Napoli, e propria delle sue campagne. Fra tutte la più deliziosa. Nel resto delle provincie meridionali manca, o vi è rara.”
Tradizionalmente coltivata nell'area flegrea e vesuviana, spesso in aziende di piccola dimensione e talora in promiscuità con ortaggi ed altri fruttiferi, la "Melannurca Campana" (I.G.P.) si è andata diffondendo nel secolo scorso prima nelle aree del territorio aversano, maddalonese e beneventano, poi, via via, nel nocerino, nell'irno, nei picentini e, infine, in tutta l'area dell'"alto casertano". Proprio qui, già da alcuni decenni, con la regressione delle superfici agricole dell'area napoletana, a causa della conurbazione delle zone costiere, ha trovato il territorio ove essa è più intensamente coltivata.
La particolarità di questo cultivar di mela, a differenza delle altre varità di mele, che maturano sui rami degli alberi, è quella che i frutti vengono raccolti acerbi e poi posti a maturare su caratteristici "letti", chiamati "meleti". La tecnica è il risultato di una lunghissima esperienza e giustificata dal fatto che la mela presenta un picciolo estremamente sottile e non capace di sostenere il peso del frutto, che altrimenti cadrebbe al suolo prima della maturazione. La raccolta dagli alberi avviene in autunno, mediante caratteristiche scale, un tempo di legno, strette e lunghissime ('e scalille). I letti di maturazione erano realizzati, fino a qualche decennio fa, con canapa e poi con paglia, solo recentemente sono stati sostituiti con segatura di legno o altre fibre. Le strutture dei "meleti" sono protette dalle grandinate con tetti provvisori realizzati con assi di legno e reti, ma un tempo si usavano i fusti di granoturco o di canapa.
La base del "letto" è realizzato con il terreno compattato e poi sagomato per favorire il deflusso dell’acqua piovana; a tal fine sono realizzate anche una serie di canalizzazioni in pendenza. Per favorire la maturazione e l’equa colorazione della buccia delle mele (arrossamento), le mele sono costantemente ruotate (alcuni gradi a giorni stabiliti), anche per evitare il ristagno dell’acqua nelle cavità dei piccioli, che causerebbe la marcescenza. Alla fine della maturazione, le mele vengono raccolte in apposite casse di legno (oggi di plastica), avvolte in fogli di una particolare "carta paglia", di colore giallo, molto dura e ruvida. Nelle "rastrelliere" dei fruttivendoli le mele fanno ancor oggi bella mostra, accompagnate e abbellite con i rami delle piante o di altri arbusti e sono costantemente inumidite con spruzzi d'acqua fresca... Altra importante caratteristica è la durata di conservazione, infatti possono essere conservate facilmente, a temperatura ambiente, assicurando la disponibilità per tutto l'anno.
Pur se già noto fin dall’antichità, recenti studi condotti da alcuni dipartimenti universitari hanno dimostrato scientificamente che la mela “Annurca” possiede molteplici proprietà benefiche per l’organismo e per la salute umana, se consumata regolarmente; in particolare, la proprietà più importante è certamente quella di contrastare gli alti livelli di colesterolo nel sangue, inoltre può stimolare la diuresi, la digestione ed è anche indicata per i malati diabetici, per i suoi bassi livelli di zuccheri contenuti.
Come tutte le mele, la mela “Annurca” ha un elevato potere antiossidante, grazie sempre ai polifenoli, utile quindi a mantenere in salute organi e tessuti, contrastando efficacemente l’invecchiamento cellulare e proteggendo l’apparato cardiovascolare.
Inoltre, il contenuto di acido ossalico rende la mela “Annurca” molto utile per la salute della bocca.
Dalle schede tecniche disponibili apprendiamo che la mela “Annurca” è inoltre caratterizzata da un alto contenuto di acqua (circa l’84%), è molto ricca di vitamine, soprattutto del gruppo A, B, C e PP, acido malico, acido ossalico, ma anche diversi minerali, in primis potassio, calcio, magnesio, manganese, ferro e fosforo, mentre è povera di sodio”. Anche la quantità di fibre è abbondante, per lo più pectine (concentrate principalmente nella buccia), inoltre la mela "Annurca" contiene una discreta quota di carboidrati (di cui il 10% di zuccheri), mentre è povera di lipidi e proteine. Nonostante la dolcezza tipica di questo frutto, l’apporto calorico è molto ridotto, considerando che 100 grammi di prodotto forniscono soltanto 40 Kcal, similmente all’indice glicemico, molto basso.  
Per tutte queste qualità la mela “Annurca” è ritenuta particolarmente indicata per i pazienti immunodepressi, per quelli disabilitati e quelli che seguono un regime di dieta specifico. E’ proprio vero che per essa vale ancor di più il celebre detto: “Una mela al giorno fa bene e toglie il medico di torno…!”
Nell’anno 2006, alla mela "Annurca" prodotta in Campania è stata riconosciuta l'Indicazione Geografica Protetta (I.G.P.) "Melannurca Campana" (Regolamento (CE) n. 417/2006) - pubblicato sulla GUCE n. L 72 dell'11 marzo 2006). L'iscrizione al registro nazionale delle denominazioni e delle indicazioni geografiche protette è avvenuta con provvedimento ministeriale del 30.03.06, pubblicato sulla GURI n. 82 del 7.04.04, unitamente al Disciplinare di produzione" e alla "Scheda riepilogativa" (già pubblicata sulla GUCE unitamente al predetto Reg. 417/06). Nel 2005 è stato altresì costituito il “Consorzio di tutela Melannurca campana IGP", con sede a Caserta.
La zonizzazione della “I.G.P.” riconosciuta alla "Melannurca Campana", per le cultivar: “Annurca” e “Rossa del Sud”, oltre alla provincia di Napoli, abbraccia tutte le provincie della Campania.
Interessante è osservare in dettaglio i confini dell' "I.G.P" che delimitano il territorio della provincia di Napoli, perché, per quanto ci riguarda, è incluso anche gran parte del territorio dei quartieri di Piscinola e di Chiaiano, oltre a quello di Mugnano e di Marano.

Marchio "I.G.P."

Ecco le strade che determinano i confini della nostra zona: ”[…] La seconda area interessata confina a: Nord con il confine del comune di Mugnano di Napoli passando per via Cupa della Filanda proseguendo in direzione Sud-Est, per Via Piedimonte d’Alife, via Vicinale Vecchia Miano-Piscinola, in direzione sud per via Miano, in direzione Est per viale Colli Aminei, via M. Pietravalle, in direzione Sud per via Pansini, via Montesano, in direzione Nord per via G. Quagliariello, strada Comunale Santa Croce a Orsolone, via Cupa della Paradina, strada comunale Margherita, Cupa I° Vrito, sino a incontrare il Comune di Marano di Napoli […]”.

Salvatore Fioretto 

domenica 21 maggio 2023

Il gioco con le biglie... detto "'a pallino"... Regole e curiosità di un gioco antico, un tempo molto praticato!

Abbiamo già descritto in un apposito post, pubblicato alcuni anni fa, i giochi che i bambini e i ragazzi del territorio conducevano nei cortili e per le strade del nostro quartiere. Tra questi giochi di società, quelli più in voga tra i maschietti erano sicuramente quello con le biglie, detto "'a pallino" e quello con le figurine dei calciatori, detto "'o pacchero".
Dedichiamo questo post alla descrizione di quanto concerne il primo di questi due giochi, ovvero il gioco con le biglie, chiamato qui da noi: "'o ghiuco a pallino"; gioco che era praticato sulle superfici libere dei cortili e sui marciapiedi stradali.
Aprendo un piccolo inciso storico, possiamo affermare che il gioco delle biglie è antichissimo, probabilmente risalente al periodo dell'Antico Egitto, quando le biglie erano ricavate da piccole pietre tondeggianti raccolte sulle sponde del Nilo e opportunamente levigate dai fanciulli, fino a farle diventare sferiche. Si passò poi alla realizzazione di biglie in terracotta e qualcuno soleva ricavarle anche dagli ossicini di animali, opportunamente lavorati.
Con i secoli rimasero in uso le biglie in terracotta, ma erano estremamente fragili e soggette facilmente all'usura. Dobbiamo giungere ai primi decenni del secolo '900, per trovare la diffusione di biglie in vetro, con dimensioni standard e variabili, da 1 a 3 centimetri circa.
Per praticare il gioco delle biglie occorreva avere a disposizione un'estesa e libera superficie di suolo, alquanto piana, liscia e con assenza di buche. Tra i giocatori non era infrequente annoverare anche le ragazzine.
Per organizzare il gioco, oltre a possedere le biglie, occorreva realizzare una buca, che doveva essere unica e posta in posizione pressoché centrale rispetto all'area libera disponibile. Essa doveva avere delle dimensioni stabilite per condurre il gioco in maniera regolare, ossia non troppo profonda e abbastanza capiente, quindi avere delle dimensioni tali da poter recuperare agevolmente con una mano le biglie che vi si raccoglievano durante il gioco.
Le regole del gioco appaiono, alla lettura di oggi, non semplici e abbastanza complicate, ma in effetti queste procedure per i giocatori all'epoca dovevano apparire alquanto ovvie e scontate, perché in uso corrente, specialmente durante i periodi dell'anno con il bel tempo.
Il numero dei partecipanti al gioco potevano oltrepassare anche i dieci giocatori, tuttavia era però sconsigliabile organizzare gare affollate, per permettere una gestione ordinata delle sequenze di gioco.
Entrando nel dettaglio, per descrivere le regole del gioco, iniziamo col dire che i giocatori si dividevano in due categorie, chiamate: "cacciatori si" e "cacciatori no". Si diventava "cacciatore si" solo se si era riusciti a centrare la buca con la propria biglia, e quindi acquisendo il diritto di conquistare il "pallino" degli avversari, quando si riusciva a colpirlo con la propria biglia.
Ogni giocatore disponeva di una sola biglia e poteva abbandonare il gioco solo se aveva acquisito il titolo di "cacciatore si", e solo dopo aver recitato la formula, ad voce alta: "so' cacciatore e m'aizo" (sono un cacciatore e mi ritiro), altrimenti il giocatore doveva restare in gioco, fino a quando i giocatori avversari colpivano la propria biglia.
Praticamente da "non cacciatore" (cacciatore no) si poteva solo difendere e non si poteva ritirare. Ma se si riusciva ad andare in buca, si acquisiva il diritto di "chiamare" in buca un "non cacciatore", che poteva avvicinarsi alla buca, anche con l'opzione di uno o più palmi di mano di distanza (il "palmo" era uno dei sistemi di misura utilizzato), il cui numero lo decideva il "chiamante". Se riusciva ad andare in buca o avvicinarsi con dei palmi stabiliti, vinceva la posta il "pallino" del "chiamante", altrimenti ci si rimaneva esposti ad essere colpiti, perché avvicinati troppo all'avversario. Altro metodo di misura per le distanze tra le biglie era quello chiamato "zerracchio", che consisteva nella distanza formata tra l'estremità del pollice e quella del medio, in posizioni distese.
Se nel corso del gioco, il "pallino" dell'avversario era coperto da qualche oggetto estraneo, tipo un sassolino oppure un legnetto, il "cacciatore" aveva il diritto di pulire il campo di gioco, se recitava prima dell'avversario la formula: "cip se leva", oppure: "cip se sta".
Come per le regole del gioco che, come si è visto erano molto rigide, anche le dimensioni e la natura delle biglie erano standardizzate e avevano un proprio nome, generalmente riconosciuto.
Esistevano due tipologie di biglie, a seconda del materiale utilizzato per la loro realizzazione, e potevano essere di vetro o di porcellana. Le biglie di vetro avevano nel proprio interno "un'anima" colorata, che s'intravedeva dall'esterno e serviva per identificare le biglie appartenenti ai diversi giocatori, che in quel momento erano in competizione; a tale scopo anche le biglie di porcellana avevano dei colori distintivi, ma dipinti sulla loro superficie esterna bianca. Le biglie di porcellana avevano pressochè un'unica dimensione e venivano chiamate singolarmente: "'a purcella" (di porcellana), anche se non era raro trovare biglie più piccole.
Per le biglie di vetro, invece, si partiva dalla più piccola (all'incirca un centimetro), che era chiamata "Semmenzella", per poi passare via, via, alle misure più grandi, chiamate: "Mezzanella", "Mezzana", e "Pallino", fino ad arrivare a quella più grande in assoluto, chiamata "'o Palluottolo", avente un diametro di circa tre centimetri. Queste varie tipologie di biglie erano anche oggetto ad un mercato di scambio tra i giocatori, infatti ciascuna di esse aveva un valore multiplo rispetto alle biglie di dimensioni inferiori; ma c'e da dire che il loro valore era anche condizionato dal loro stato superficiale, ovvero se presentavano incrinature o imperfezioni, anche di origini costruttive, come nel disegno interno, oppure la presenza di bolle d'aria. Il loro valore era condizionato anche dalla loro disponibilità temporale al commercio minuto. Altri due parametri influenti erano la dimensione e la levigatezza, ovvero la "maneggevolezza" delle biglie, caratteristiche determinanti, a giudizio dei giocatori esperti, che permettevano di avere maggiori probabilità ad andare a segno... Per esempio, per avere un'idea del valore loro di scambio, la biglia più grande, chiamata "'o palluottolo", valeva dalle otto alle dieci biglie normali...
Considerato il commercio sostenuto di biglie, così come avvenne nel periodo compreso tra gli anni '50 e '70 del secolo scorso, molti commerciati del territorio, quali mercerie, ferramenta e anche quelli del commercio di detersivi, si erano organizzati e approvvigionavano constantemente discrete quantità di biglie dal mercato all'ingrosso, per poi vendere al dettaglio ai ragazzi giocatori.
Le biglie, che erano offerte in colori multi-diversificati, erano contenute a centinaia in sacchetti di plastica, di tipo a retina, che venivano mostrati nei negozi, appesi a rastrelliere, principalmente vicino ai banchi di vendita. Questi sacchetti a retina avevano un foro laterale (praticato nei negozi), che permetteva ai rivenditori di prendere le biglie agevolmente con una mano. Anche i ragazzi si erano attrezzati a contenere il loro bottino di biglie, per il trasporto e per mostrarle con orgoglio ai coetanei; spesso si faceva uso di vecchi calzini di lana spaiati, che si portavano a mo' di borsette, appesi alle cinture dei pantaloni o dei pantaloncini.

Questo post è stato scritto in collaborazione dell'amico Pasquale di Fenzo, che in passato ha scritto diversi post in questo blog; in particolare Pasquale ci ha aiutato a ricordare le regole adottate nel gioco delle biglie.

Salvatore Fioretto