sabato 26 novembre 2022

Professore, deputato, ministro, giurista.... Pasquale Stanislao Mancini, Avvocato di Piscinola... (2^ parte)

(segue dalla prima parte)
Nel nuovo Consiglio, presieduto da Liborio Romano, creato nel 1861, il Mancini ebbe il ruolo di consigliere, con la responsabilità degli Affari ecclesiastici e, il 6 febbraio, anche la presidenza della Commissione per gli studi legislativi, istituita dal luogotenente Eugenio di Savoia Carignano, per decidere le modifiche da apportare alle normative giuridiche esistenti. Furono varati, quindi, una serie di decreti che estendevano anche al meridione d'Italia le normative di attuazione della transizione legislativa, con l'intento di armonizzare la materia in linea unitaria.
Il compito più gravoso del Mancini fu, in particolare, la modifica della legislazione ecclesiastica delle province meridionali, per renderla compatibile con lo statuto. A tale fine Mancini elaborò alcuni decreti, emanati anch'essi il 17 febbraio, che, tra l'altro, dichiaravano decaduto il concordato del 1818, sopprimevano le commissioni diocesane, con il ripristino del Regio Economato per l'amministrazione dei benefici vacanti, affidavano all'autorità civile la nomina degli amministratori delle opere pie laicali ed estendevano al Mezzogiorno la legge sarda del 29 maggio 1855, che prevedeva la soppressione della maggior parte degli ordini religiosi, incamerandone i beni.
Questi provvedimenti, diretti a eliminare privilegi inaccettabili, caddero tuttavia in un momento poco opportuno, nuocendo all'azione diplomatica di Cavour, il quale proprio in quei giorni cercava di aprire trattative con il papa. Inoltre, se l'alto clero meridionale era rimasto legato alla dinastia borbonica e sarebbe stato in ogni caso ostile al nuovo governo, il basso clero, per la maggior parte su posizioni liberaleggianti, era turbato da leggi giudicate anticlericali e tali da incidere negativamente sulle sue condizioni di vita: solo la soppressione degli ordini religiosi riguardò circa 20.000 frati e monache, mettendo in difficoltà molte famiglie.
Proprio a tal proposito, abbiamo trovato due interessanti testimonianze tratte da pubblicazioni del periodo, che sono delle critiche politiche rivolte all'azione del Mancini, da cui si deduce chiaramente la sua presenza a Piscinola, probabilmente con il suo studio legale, ma forse anche con l'abitazione, permanenza attestata sicuramente prima del 1848. Ecco i frammenti
di nostro interesse, tratti dai due testi:
- Da: "Storia del Regno delle due Sicilie, dal 1847 al 1861, vol V, di Giacinto de' Sivo, anno 1867": [...] "Ed ecco che per ordine suo in Napoli a copiare il Pepoli, un Pasquale Mancini, Leguleio (sin. "avvocato di poca fama") di Piscinola, stato editore del Machiavelli, ignorante e presuntuoso, allora consigliere al Culto, esce a rifare il diritto canonico" [...].
- Da: "Un anno di luogotenenza piemontese a Napoli,
1861, S.N.: "[...] "La persecuzione del clero si accrebbe dal momento che si perdette la speranza di soggiocarlo. Sei decreti di un avvocato di Piscinola, di Pasquale Stanislao Mancini abolirono con un trar di penna i concordati colla corte di Roma, abolirono le commissioni diocesane, aboliron gli ordini monastici, le comunità religiose, le congregazioni, i capitoli delle chiese collegiate, i benefici semplici, le cappellanie e le abbazie e nel momento stesso che si pubblicava tanta distruzione, il governo temeva lo scontento del popolo e ne dichiarava prorogata l'attuazione" [...].
Dopo poco tempo, sempre per contrasti con personaggi di spicco locali, si dimise dagli incarichi e fece ritorno a Torino.
Nel parlamento del nuovo Regno, Marcini tenne numerosi interventi, spesso molto critici verso la Destra e i suoi governi, responsabili, a suo dire, di una politica sorda alle specificità del Mezzogiorno e al suo passato amministrativo e giuridico, che poi non era tutto da demolire...
Nell'anno 1862 fece parte al governo Rattazzi, come ministro dell'Istruzione, ma sempre per contrasti sulla linea del governo, giudicata troppo filo francese, si dimise ancora.
Passato all'opposizione, si occupò in Parlamento soprattutto di problemi giuridici. In particolare seguì e sollecitò la stesura del nuovo codice civile, con la redazione di un testo radicalmente rinnovato rispetto a quello albertino. Notevoli furono i suoi contributi al nuovo codice per il Commercio.
Altri suoi discorsi e interventi parlamentari riguardarono: il brigantaggio, l'imposta del registro e del bollo, l'amministrazione finanziaria, l'abolizione della pena di morte.
Un altro tema su cui il Mancini intervenne autorevolmente in Parlamento fu quello dell'ordinamento giudiziario.
Scrisse un saggio sulla Questione romana dal titolo: Sulle relazioni della Chiesa con lo Stato in Italia e sulla Questione romana, Firenze 1867.
Dopo Porta Pia, nel 1870, Mancini partecipò da protagonista alla discussione sul disegno di legge delle guarentigie (Garanzie della indipendenza del Sommo Pontefice e del libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa Sede).
In aperto contrasto con i testi legislativi in corso di valutazione, il Mancini presentò un proprio progetto in 24 articoli, che non fu preso in considerazione. Per il testo definitivo, che fu poi approvato nel 1871, Mancini riuscì a far approvare vari suoi emendamenti, ma si dichiarò sostanzialmente contrario.
Nel 1872, fu chiamato ad insegnare alla Sapienza di Roma, nella facoltà di giurisprudenza.
Nel settembre 1873, prese parte a Gand al Congresso dei Giuristi Internazionalisti, nel quale fu decisa la creazione dell'"Institut de droit international" e il Mancini ne fu eletto presidente.
Col l'affermazione della sinistra alle elezioni del 1876, il Mancini entrò come guardasigilli nel primo governo Depretis. Uno dei primi provvedimenti intrapresi da Mancini, fu il trasferimento di una ventina di alti magistrati e per questo fu ampiamente criticato, perchè l'adempimento fu visto come una rivalsa personale. Egli, non solo respinse le accuse ma, durante il suo dicastero, non eseguì nessuna variazione alla legge Rattazzi sull'ordinamento della magistratura, tanto criticata nel passato.
In questo periodo fu degno di rilievo la riforma del codice di commercio, che fu promulgato nel 1882, e chiamato col suo nome: "Codice Mancini".
Altre sue iniziative, come ministro, furono l'abolizione della carcerazione per debiti e nuove disposizione sulla legislazione in materia ecclesiastica.
Nel 1880 fu nominato presidente della "Commissione dei Quindici", incaricata di preparare la nuova legge elettorale, poi varata nel 1882. Nel 1881 assunse la direzione dell'Enciclopedia giuridica italiana.
Nel 1881, fu nominato ministro degli Esteri nel nuovo governo A. Depretis. Momento saliente della sua esperienza in questo dicastero, fu la stipulazione della Triplice Alleanza.
Nel 1882
, fu tra i protagonisti della firma del trattato a Vienna, con l'inclusione in un'appendice della clausola voluta dal Mancini, dove si definiva che: l'Alleanza, di natura difensiva, non potesse avere efficacia contro l'Inghilterra.
Si passò quindi alla politica di espansione coloniale dell'Italia, a cui Mancini partecipò attivamente nel suo ruolo, nel ministero affidatogli.  Il primo passaggio fu nel 1882, con l'acquisto da parte della compagnia Rubattino, della baia d'Assab; l'operazione fu da lui giustificata a fronte delle critiche ricevute, con la motivazione che i popoli civili hanno la legittimità di esercitare anche fuori del territorio nazionale "una missione di pacifico incivilimento"; quindi oppose un rifiuto alla proposta britannica di intervenire insieme in Egitto e contrastò le aspirazioni francesi sul Marocco.
Nel 1885, giustificò la spedizione a Massaua, sostenendo in Parlamento che nel Mar Rosso c'era la "chiave" del Mediterraneo, senza però giustificare pienamente un impegno così gravoso per l'Italia. Fu attaccato in parlamento dagli esponenti anticolonialisti  e anche da Francesco Crispi; questa fu una delle cause che portarono alle sue dimissioni, che furono rassegnate nel giugno 1885.
Gli ultimi momenti della sua lunga, intensa e proficua vita li trascorse in solitudine a Napoli.
Era rimasto vedovo dal 1869.
Pasquale Stanislao Mancini morì il 26 dicembre 1888, nella Reggia di Capodimonte, messa a disposizione come residenza personale dal re Umberto I.
I suoi funerali furono solenni in città, a cui parteciparono
tutte le cariche civili, militari e dello Stato.
Le sue spoglie riposano
, assieme a quelle della moglie, nel cimitero Monumentale di Poggioreale, nel "Recinto" dedicato agli uomini illustri.

Il ritrovamento di questa traccia storica, che inserisce il quartiere di Piscinola nella biografia del grande statista, giurista e letterato italiano: Pasquale Stanislao Mancini, ci rende ovviamente orgogliosi come cittadini di questo quartiere, tuttavia speriamo vivamente di trovare, con ulteriori indagini e prossime ricerche, altre notizie che approfondiscano i particolari di questa permanenza piscinolese, con l'individuazione del palazzo che fu sede del suo studio e/o della sua residenza, e con aneddoti legati alla sua personalità. 

Salvatore Fioretto

Fonte: Oltre ai testi citati nel post, gran parte delle notizie biografiche e storiche sono state tratte e riassunte, dal sito "on line" della enciclopedia Treccani.

Professore, deputato, ministro, giurista.... Pasquale Stanislao Mancini, Avvocato di Piscinola... (1^ parte)

La storia di Piscinola è piena di personaggi storici famosi, che qui sono nati o hanno trascorso parte della loro vita oppure hanno esercitato la loro professione. Già in passato abbiamo raccontato la vita dei notai Valenzia e Liccardi, del procuratore regio Ferdinando Lestingi, del soprintendente Gallotti, di San Ludovico da Casoria, del card. Celestino Cocle, tanto per citarne alcuni...
Questa volta racconteremo la biografia di un altro personaggio importante e famoso, passato alla storia d'Italia, nel periodo a cavallo tra la Restaurazione Borbonica e l'unificazione italiana dei Savoia, e che ha trascorso parte della sua vita nel Comune di Piscinola, parliamo dell'avv. Pasquale Stanislao Mancini.
Considerando la proficua e intensa attività di questo statista, cercheremo di contenere al massimo la lunghezza della trattazione, racchiusa in due post.

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Pasquale Stanislao Mancini nacque in provincia di Avellino, nel piccolissimo comune chiamato Castel Baronia, il 17 marzo 1817, da una famiglia di estrazione borghese e benestante; i suoi genitori furono Francesco Saverio e Maria Grazia Riola. Un ruolo decisivo per la formazione pedagogica di Mancini l'ebbe la madre, che fu donna di elevata cultura e di profonda sensibilità. Pasquale Mancini compì i suoi primi studi al seminario di Ariano Irpino e, successivamente, si trasferì a Napoli, per frequentare il liceo del SS. Salvatore, dove era seguito da uno zio materno, Giambattista Riola, che fu anch'egli avvocato. Dotato di ingegno, perspicacia e entusiasmo, al fuori dal comune nell'apprendere ogni disciplina,  durante la sua formazione giovanile spaziò dal diritto, alla fisica, alle scienze naturali, alla letteratura e, addirittura, finanche alla geologia e allo studio dei terremoti. Non mancò di coltivare la sua principale passione che fu il giornalismo, ma anche la musica e la poesia. A Napoli in quel periodo si respirava una coinvolgente aria di rinnovamento culturale e scientifico.  Dopo la licenza liceale, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e conseguì il titolo accademico, nell'anno 1835. Notevole fu anche l'impegno nel campo letterario in cui si cimentò con successo. Si ricordano, tra i suoi lavori e opere: Impressioni di un viaggio campestre (1836) la traduzione di P.J. Bèranger (1837), e il Saggio di una versione poetica di Giobbe (1838). Fu anche poeta, sue furono le poesie che saranno edite raccolte solo dopo la sua morte (1904), quali: "Incerti voli. Nuove poesie del giovanetto Pasquale Stanislao Mancini", e "Senza amore".  
Nell'anno 1840
convolò a nozze con donna Laura Beatrice Oliva, anche lei appassionata della poesia.
Poco dopo il tirocinio, si avviò alla professione di avvocato e, a partire dal 1840, si dedicò anche all'insegnamento di diritto privato.
Nel campo dell'editoria, acquistò la proprietà del periodico Le Ore Solitarie, nel 1838, coprendo il ruolo di direttore. Il giornale, inizialmente a tiratura quindicinale, passò ad essere semestrale, col nuovo nome di "Giornale delle Scienze morali, legislative ed economiche": una rivista dedita alla trattazione di temi giuridici e amministrativi, con sezioni informative sui vari aspetti della cultura napoletana, sulla filosofia, e sull'attività accademica italiana e straniera.
Successivamente, dal 1844 al 1847, il periodico fu trasformato, cambiando anche il titolo in Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche. Queste iniziative editoriali gli consentirono di farsi conoscere nell'ampio panorama italiano dell'epoca, anche al di fuori delle Alpi, soprattutto da coloro che erano dediti agli approfondimenti e agli studi in materie giuridiche, estese ai campi delle attività umane, quali l'istruzione, l'agricoltura, l'economia, e i sistemi assistenziali, per le quali si registravano già all'epoca delle profonde carenze normative e soprattutto di carattere moderno.
Mancini fu autore di molte opere di Diritto, ricordiamo: Intorno alla proprietà letteraria e ad un opuscolo di Raffaele Carbone. Ragionamento, Napoli 1841, Intorno alla libertà dell'industria ed a' privilegi. Considerazioni, 1842. Pubblicò anche dei saggi legati alla vita sociale di quel periodo (Sul colera e delle cagioni che han preservato finora le provincie del Principato Ulteriore dal colera, Napoli 1836; Nuove idee sulle elettricità applicate all'invenzione di un paratremuoto, 1837 e 1884; Intorno alla libertà dell'industria e ai privilegi, Bologna 1842; Dell'utilità di ordinare i nuovi asili di mendicità nel Regno di Napoli sotto forma di colonie agricole. Discorso, 1843).
In quel periodo intraprese numerosi viaggi, allacciando relazioni amichevoli, anche e soprattutto durante la sua partecipazione a numerosi congressi. Tutte queste situazioni contribuirono alla conoscenza di numerosi personaggi e anche delle realtà italiane vocate al liberalismo.
Per le sue idee liberali e di sinistra, man mano si avvicinò alla politica partenopea.
E' in questo periodo, coincidente con i primi esercizi della sua professione di avvocato, che le fonti registrano la permanenza di Pasquale Mancini nel Comune di Piscinola, tanto da venire indicato, come vedremo nel seguito della trattazione, con l'appellativo di "Avvocato di Piscinola".
Dopo la costituzione, concessa dai Borboni, nel 1848, fondò il trisettimanale "Riscatto italiano", avente come obiettivo il sostegno dell'iniziale cambiamento liberale dello Stato.  Continuò, l'esperienza editoriale con un'altra testata, sempre da lui fondata, chiamata "La Libertà italiana". Fu quindi eletto deputato del parlamento napoletano, nel distretto di Ariano Irpino. Tuttavia il momento liberale concesso dal sovrano durò pochissimo e, chiusa definitivamente la Camera del Parlamento, si misero in moto le corti speciali.
Mancini divenne quindi manifastamente contrario alla politica della monarchia Borbonica e, avvertendo molto prossimo il suo arresto, si trasferì esule nel Regno di Sardegna, stabilendosi a Torino, ove giunse il 5 ottobre 1849.
A Torino, diede alle stampe il libro dove denunciava il clima instaurato a Napoli dai Borboni, dal titolo: le Relazioni di magistrati e pubblicisti italiani sopra le quistioni legali e costituzionali della causa per gli avvenimenti del 15 maggio 1848 a Napoli.
Nel 1850, il governo sardo gli assegnò una cattedra di "Diritto pubblico esterno e internazionale", nell'Università di Torino. Nell'anno 1851, Mancini introdusse il proprio corso universitario con una prolusione dal titolo "Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti" (Torino 1851; poi inserita dal Mancini in Diritto internazionale. Prelezioni con un saggio sul Machiavelli, Napoli 1873.
La sua attività culturale e letteraria non si arrestò e pubblicò anche la riedizione del
Saggio storico di Vincenzo Cuoco.
Insieme all'insegnamento e al lavoro intellettuale, il Mancini portò avanti anche l'attività professionale di avvocato, sia quella forense che quella del suo studio legale. Divenne nel Foro di Torino un avvocato di fama e di successi, e di posizione agiatissima!
Stimato giurista e esperto di diritto, fu chiamato a collaborare dai vari governi succeduti nel Regno di Piemonte e Sardegna.
Già nel 1850, il
guardasigilli Siccardi inserì Mancini in una commissione creata per rivedere le leggi civili e criminali; poco dopo, fu eletto membro della Commissione per la statistica giudiziaria.
Nel 1852, in collaborazione con G. Pisanelli e con A. Scialoja, portò a termine, il Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere.
Intanto, già nel 1851, gli  fu concessa la cittadinanza sarda, che gli consentiva di poter
esercitare la professione legale, sia nei tribunali e sia in Cassazione.
Nel novembre 1850, fu incaricato, sempre dal ministro Siccardi, di preparare, insieme al Pescatore, il disegno di legge sull'introduzione del matrimonio civile.
La collaborazione del Mancini continuò con il governo Rattazzi nella preparazione della legge sulla soppressione delle corporazioni ecclesiastiche, promulgata, poi, nel 1855, in tutto il Regno sardo.
Fu eletto deputato nel parlamento dello Stato Piemontese, dell'aprile 1860 (VII legislatura), nel collegio di Sassari. Seguirono, da allora, altre conferme, infatti, Mancini fu sempre eletto in tutte le elezioni successive: dalla VII, alla XVI legislatura, in continuità fino alla morte, anche nel parlamento italiano.
Fu uomo di ispirazione politica di sinistra, ma tale orientamento non implicava nessun irrigidimento ideologico, né lo poneva in antitesi con le idee politiche della Destra cavouriana; anzi con Cavour, collaborò nella fase dell'unificazione legislativa postunitaria.
Ormai considerato a Torino il giurista più esperto sulle questioni dell'organizzazione statale e nei problemi di diritto internazionale, il Mancini nel periodo delle annessioni dei vari stati e staterelli dell'Italia centrale e meridionale, fu inviato dal Cavour nelle varie città annesse, per studiare i problemi legislativi in essere e organizzare l'unificazione legislativa del nuovo Stato unitario.
Nell'ex Regno delle Due Sicilie, dopo la l'annessione avvenuta nel 1860, Mancini fu inserito all'interno del Consiglio di luogotenenza, presieduto dal Farini, nel ruolo di consigliere senza portafoglio. Entrò subito in contrasto con la politica di Farini, ritenuta troppo sbilanciata a favore degli autonomisti, e rassegnò le dimissioni il 27 novembre 1881. Seguì nell'informare il Cavour, della situazione pericolosa che si stava creando, con la trasmissione del suo Memorandum, con cui faceva un resoconto degli errori commessi e fornendo consigli su come riorganizzare la luogotenenza, ma soprattutto consigliava la rapida unificazione legislativa.
A valle di questi contrasti, il Farini fu sostituito nell'incarico di luogotenente con il principe Eugenio di Savoia Carignano.
                                     (segue nella seconda parte)
Salvatore Fioretto

 

venerdì 18 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! Frutta e primizie... (terza parte)

(segue dalla seconda parte)
Abbiamo fin qui descritto le colture orticole della nostra bella campagna che fu, ma come tutti sapranno le eccellenze della nostra terra furono i suoi prodotti frutticoli, che un tempo erano apprezzati e ricercati per la loro "squisitezza" e prelibatezza, soprattutto sulle tavole degli abitanti cittadini.
Raccoglieremo in questo post le varietà di frutta più antiche e diffuse, fermo restando che l'elenco, come è logico pensare, non è esaustivo perché, considerando la vasta estensione del territorio dell'Area Nord in esame, sicuramente ci saranno state altre varietà di frutta non registrate nei nostri taccuini, per l'assenza di testimonianze dirette. Provvederemo, come facciamo sempre, ad aggiornare nel tempo l'elenco, con altre varietà che via via scopriremo.
Prima di iniziare la trattazione, ricordiamo che la tipologia di agricoltura praticata in questo territorio era di tipo "intensiva e mista", infatti, contestualmente alle colture
di frutta e delle viti, nella parte sottostante ad esse si praticavano anche le colture di cereali (grano e orzo), la canapa e anche gli ortaggi (granoturco, fave, ecc.). A tal proposito le distanze tra gli alberi e delle viti erano determinate in base all'esperienza maturata nei secoli, conseguente a questa particolare pratica agricola adottata.

Pesca "Bellella di Melito"

Il genere di frutta più apprezzato e diffuso, prodotto nella piana di Napoli Nord, compresa tra Piscinola, Miano e Scampia, è stato quello della pesca, sia a pasta bianca che a pasta gialla (percoche). Già in passato in un altro post di questo blog abbiamo narrato l'attività di ricerca di nuove varietà di pesche condotta dall'avv. Domenico del Forno, che possedeva un fondo agricolo a Piscinola, con accesso dalla zona chiamata "Capo 'a Chianca". Del Forno, infatti, alla fine selezionò una tipologia di pesca precocissima, che fu anche pubblicizzata su alcune riviste specializzate dell'epoca (dalla Rivista di Ortofrutticola Italiana, ed. in Toscana, anno 1953); questa neonata varietà di pesca fu chiamata: "Pesca Mimì del Forno".

Altri selezionatori conosciuti di pesche furono i componenti della famiglia piscinolese che avevano un fondo situato anch'esso nella parte meridionale di Scampia, vicino a Piscinola, prossimi al cosiddetto "Fondo Cancello", che erano soprannominati: 'e Maricella.
La varietà di pesca da loro selezionata fu inizialmente chiamata "Torca Maricella" (in onore dei suoi scopritori), e successivamente: "Torca Maggiaiola". Ma c'erano anche altre varietà di pesche, che si distinguevano in "precoci" e "tardive". Le "precoci", che avevano sempre un buon mercato, per essere primizie sulle tavole cittadine, erano le varietà chiamate: "Maggiaiole", "Fiori di maggio" (Sciure 'e maggio) e "Morettine", queste maturavano già nel mese di maggio, mentre le varietà "tardive", che erano apprezzate per essere disponibili fino alla metà dell'estate, erano quelle chiamate: "Bellella di Melito", "Torche" e "Brasilese". Mentre la varietà principe di Piscinola, notoria a tutti per il suo inconfondibile sapore, era quella soprannominata "'Ntonio 'o Riccio". 
Per le pesche a pasta gialla (percoche), ricordiamo la varietà chiamata "'e Pitulanie" (forse da "Puteolane"), gustate in principio d'estate, tagliate a spicchi e immerse nei boccali di vino rosso, oppure conservate "sotto spirito".
Il ciclo di produzione e l'impianto degli alberelli di pesco era completamente autonomo qui da noi, nel senso che non si importava nessun elemento per eseguire la loro propagazione. Infatti, per produrre i nuovi alberelli di pesco, i cosiddetti "franco o portainnesti", si impiantavano alcuni alberi di pesco selvatico, che erano chiamati "Paccarelle". Queste varietà producevano delle pesche, ovviamente selvatiche, che maturavano a fine estate, di colore paglierino, dalle quali si traevano i noccioli, che poi venivano messi a germogliare, in un apposito "letto" di terra, chiamato "ossacane".
Prugne "Pappagone" bianche
Trascorsi due anni dalla semina, quando le pianticelle erano abbastanza sviluppate, si provvedeva al loro espianto e al conseguente trapianto nelle campagne, poste a distanza regolare, secondo una maglia quadrata dalle dimensioni stabilite dall'esperienza agricola, generalmente di circa quattro metri per lato.
Trascorso un anno ancora, si provvedeva a innestarle (a fine agosto), con la tecnica "a ùocchio", ossia "a gemma dormiente", scegliendo le varietà di pesco preferite, attraverso le marze selezionate dagli alberi noti e già fruttificanti. Ovviamente c'erano anche degli specializzati innestatori, che esercitavano l'attività, traendone un sufficiente sostentamento.

Altri generi di frutta, molto diffusi nelle campagne nostrane, erano le prugne e le albicocche. Per le prugne ricordiamo le varietà: "Pappagone" (sia nere che bianche), "Cardinali", "Ciocche Cardinali", "Prunarie", "Gocce d'oro", "Verdoni" e "Santa Clara". La varietà più tardiva, anche se più usata nelle zone collinari di Chiaiano, erano quella chiamata "Settembrine", estremamente dolci e succulenti che, come dice il nome, maturavano a settembre. Per le albicocche ricordiamo le varietà "Pellecchielle" e ''Cresommole d''o Prevete".
Esposizione di tutte le varietà di ciliegie prodotte a Chiaiano
Per propagare gli alberi di pruno e di albicocco si utilizzavano i polloni che si sviluppavano alla base delle piante, che a loro volta erano dei portainnesti selvatici del genere botanico Prunus.
Per le ciliege, che come è noto prediligono le zone collinari e un terreno asciutto e ben drenato, come quello di Chiaiano, Marianella, Mugnano e Marano, qui pure si disponevano diverse varietà antiche e prelibate. C'era, innanzitutto, la famosa e produttiva varietà "Recca", dalle origini leggendarie..., forse risalenti alla penisola Iberica. Ma c'erano anche le altre varietà antiche chiamate: "Campanare", "Campanarella", "Maiatica", "Ferrovia", oltre alle piante di Amarene e Marasche, che venivano coltivate in numero limitato per sostenere le produzioni casalinghe di: amarene, marmellate, ciliege "sotto spirito" e rosoli.
Riguardo alle pere, eccellevano le produzioni presenti nelle campagne ubicate tra Piscinola e Mugnano, con le varietà di "Mastantuono", "Cosce 'e Firenze", "Belledonne" e una varietà piccolina, precoce e molto produttiva di pere, che qui erano chiamate "Pere Annizzate".

Pere "Cosce di Firenze"
Mentre, per le noci, erano le campagne che si trovavano a Piscinola ad avere la maggior produzione, con intensivi e diffusi "nocelleti". Le foto antiche di Piscinola, riprese dall'alto, mostrano tutti i bordi delle strade, i confini, le delimitazioni di sentieri, i terrazzamenti e anche i margini della linea ferrata della ferrovia Piedimonte d'Alife, piantumati interamente con alberi di noce. Alcuni piscinolesi di un tempo si erano ben organizzati e anche attrezzati con macchinari da essi acquistati, per eseguire autonomamente la pulizia delle noci dal mallo ("macchine per scorzare" azionate con motori diesel), e per eseguire tutte le lavorazioni del ciclo di produzione fino a ottenere le noci secche, tanto che diverse famiglie provvedevano anche ad acquistare ingenti partite di noci al di fuori del territorio, quando queste erano ancora sugli alberi, ed eseguire tutte le lavorazioni di raccolta e di preparazione in proprio.
Uva "Piedirosso" (foto vitigno di Piscinola, anno 2004, di S. Foretto)
Per l'uva abbiamo già dedicato un post al vitigno più antico e diffuso nel territorio, descrivendone la storia, ovvero al "Piedirosso" ("Pere 'e Palummo"). Ma c'erano anche altri vitigni qui impiantati per la vinificazione, che erano quelli chiamati: "Mangiaguerra", "Parasacca", "Castagnara", "Code 'e cavallo" e un vitigno simile alla "Code di Volpe", che qui chiamavano "Pisciazzella", per l'abbondante produzione di vino bianco, ma dalla bassa gradazione. Per dare maggior colore e gradazione al vino rosso, si coltivavano i vitigni chiamati: "Marsigliese" e "Suricillo". Non mancava l'uva "Fragola", sia nella varietà bianca che rossa.
Uva "Fragola" nera
L'uva Fragola bianca era usata esclusivamente da pochi referenziati, come "uva da tavola", mentre l'uva Fragola rossa, oltre a essere usata come "uva da tavola", si vinificava, ottenendo un leggero ma profumatissimo vino, chiamato "Fravulella", molto apprezzato soprattutto dalle signore, per la sua bassa gradazione.
Ancora, per le "uve da tavola", ricordiamo la romantica "Uva Rosa" che adornava con i suoi vitigni pensili, dai grandi grappoli d'uva rosati, i cortili e le aie delle nostre antiche masserie. C'erano anche le varietà di "Zibibbo" (qui chiamata "Zizza 'e Vacca") e quella di Moscato bianco ("Muscarella"). Infine, gli acini dell'uva Pizzutello (uva cu 'o pizzitiello), erano utilizzati per la produzione di '"uva sotto spirito".
Fichi "Nataline"
Gli alberi di fico erano piantati specialmente nei giardini e nei terreni prossimi alle masserie. C'erano diverse tipologie anche per questa frutta, infatti troviamo le varietà: Troiane, Allardate, San Giovanni e San Pietro (queste ultime due avevano una doppia produzione annuale). Però quelle più produttive e anche di lunga durata, erano quelle nere chiamate "Nataline". Le "Nataline" erano dette così perché i frutti restavano a maturare sui rami degli alberi, fino alle festività di Natale, anche se già spogli delle foglie.
Altro genere di alberi da frutta, molto diffusi tra Piscinola e Mugnano, erano i cachi ("legnasanti"), i cui frutti perduravano fino all'autunno inoltrato, quando rimanevano appesi ai rami degli alberi e facevano bella mostra nel paesaggio ormai brullo di verde, tanto da  sembrare tanti "Alberi di Natale"!
Durante i viaggi sui treni della Piedimonte erano questi particolari del territorio che più colpivano l'attenzione dell'osservatore...
I frutti di cachi, della varietà chiamata "'a Vaniglia", erano precoci, usati per essere mangiati ancora duri e anche per realizzare dei mazzetti da appendere, per essere conservati per l'inverno.
Altra tipologia di frutta antica, oggi ormai dimenticata, erano le sorbe ('e sòvere). Gli alberi di sorbo erano sporadici, anche se presenti un po' ovunque, per consentire di avere una riserva di frutta nel periodo invernale; infatti le sorbe, che qui erano del tipo chiamato: "Nataline", iniziavano a maturare a Natale e duravano tutto l'inverno; esse si raccoglievano acerbe e venivano conservate raccolte in mazzetti, da appendere poi ai muri delle masserie o ai balconi delle abitazioni, dove subivano il cosiddetto "ammezzimento", ovvero la maturazione. Gli alberi di sorbo sono particolarmente longevi, tanto da diventare secolari.

Sorbe "Nataline"

Nella zona di Chiaiano (ma diffusi anche nei giardini del territorio in oggetto), era frequente incontrare gli alberi di gelso, che producevano frutta, sia a bacca bianca che nera ("'e Cevuze"). C'è da dire che questo tipologia di coltura è molto antica, strettamente collegata alla produzione della seta, un tempo qui molto diffusa: infatti, come si sa, per la sua produzione era necessario l'allevamento del baco da seta, che si nutriva ovviamente di foglie di gelso.
Per le mele, la parte da leone la faceva Mugnano e le sue campagne, con la rinomata e saporita varietà di mela chiamata "Annurca". Non mancavano anche le mele, dette 'a Limongella, per la loro piccola forma, anche le mele "a Banana" e quelle dette "Cape 'e ciuccio". Le mele "Annurca" erano messe a maturare su "letti di paglia" e fatte cambiare
periodicamente la loro posizione esposta al sole, dopo un prefissato intervallo di tempo.

Gelsi, varietà a bacca bianca e nera
Ricordiamo, ancora, che dai pini, alberi abbastanza diffusi nel territorio, specie nei tratti collinari, si raccoglievano le pigne (genere chiamato: "Pino Ponteche"), dalle quali si estraevano i pinoli: preziosissimi elementi utili in cucina per preparare le "braciole" e le "polpette domenicali", oltre a pizze e ai dolci tipici. Anche per questi abbiamo dedicato in passato un apposito post in questo blog.
Infine, per gli agrumi, la cui presenza ingentilivano soprattutto i giardini, i cortili e le aie del territorio, dedicheremo in futuro un apposito post per ricordare: i "Giardini delle delizie" di antica tradizione aristocratica e anche popolare.

Mele "Annurca" su letto di paglia

Considerazioni finali: Abbiamo cercato di trattare, in questi tre post dedicati alla "terra gentile e fertile" del nostro territorio, l'eccellenza della sua produzione agricola passata, raccogliendo tutto quello che si è tramandato per tradizione millenaria, attinto sia dai nostri ricordi personali e sia dalle numerosissime testimonianze registrate in questi anni, soprattutto dai tanti anziani, che ci hanno onorato di fornircele, sapendo di essere conservate a futura memoria.

Pere "Mastantuono"
Sicuramente l'attento nostro lettore,  leggendo queste testimonianze, avrà provato una sensazione di bellezza e di armonia, per l'equilibrio esistente tra i metodi di coltura e le sapienti conoscenze agricole degli abitanti, che qui sono state tramandate di generazioni in generazioni. Come pure crediamo che lo stesso lettore sarà stato colto da un sentimento di nostalgia, considerando, poi, cosa sono diventati oggi quei campi, un tempo generosi nel donare frutta, verdure e altri prodotti della terra. Non entreremo in merito alle motivazioni che portarono alle scelte compiute diversi decenni fa e alla metamorfosi subita dal territorio, e nemmeno le giudicheremo, in quanto esulano dagli ambiti di trattazione prefissati in questo blog, che sono racchiusi nella sola diffusione della cultura e della bellezza, che pur ancora oggi esistono nel territorio;
Uva "Mangiaguerra"
tuttavia, chiunque potrà dedurre che aver privato estese zone di questa periferia delle sue ampie campagne, un tempo esistenti, è stato un danno ingente, con il conseguente depauperamento della comunità e la perdita delle sue radici storiche identitarie, senza peraltro aver ricevuto in cambio nessun aiuto per consentire la conservazione della "memoria", nemmeno con una struttura storico-museale di tipo agricola, che avrebbe consentito di far ricordare alle nuove generazioni di oggi e di domani, quelle che furono i fondamenti vitali di questa comunità. Alla fine vale sempre il motto che: una comunità quando conosce da dove proviene, sa anche dove poter arrivare! Ma c'è sempre tempo per rimediare...

Salvatore Fioretto

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Albero di cachi, con i frutti ancora appesi

Filari con uva "Piedirosso", vigneto di Piscinola, anno 2004. Foto di S. Fioretto

venerdì 11 novembre 2022

Quella terra gentile e fertile, ci donava prodotti di prima classe! I prodotti dell'orto (seconda parte)

(segue dalla prima parte)
Tutti i contadini avevano nelle loro campagne o nei giardini, una zona dedicata esclusivamente alla coltivazione degli ortaggi ad uso domestico e, per quanto possibile, destinati anche al loro commercio. A tal proposito ecco come descrive la conformazione urbana e agricola di Piscinola il famoso architetto e scrittore Cesare De Seta, nel libro: "Iconografia delle città in Campania: Napoli e i centri della provincia" ... a cura di ‎A. Buccaro, ed. Electa, anno 2006: "Piscinola, dal caratteristico impianto trilobato, mostra nella suddivisione particellare la diffusa presenza di case dotate di orti retrostanti, oltre i quali si estende la campagna, nonché dei tipici impianti residenziali a corte e ...di masserie periferiche, che caratterizzavano dall’età antica l’intero territorio suburbano".

Broccoli di Natale (Vvruoccoli 'e Natale)

Questi orti erano a conduzione familiare, ed erano curati specialmente dalle massaie, dai fanciulli e dagli anziani, mentre gli uomini (giovani e adulti) eseguivano solo la zappatura e la semina. Deduciamo che questo era il motivo fondamentale che giustificava l'ubicazione di questi orti nelle zone più accessibili e vicine alle masserie e ai caseggiati, ma si trovavano sparsi anche nelle vaste campagne, in vicinanza soprattutto dei pagliai, dei ricoveri degli attrezzi e delle postazioni di stallo per cavalli e asini. In questi orti si praticavano, in ogni periodo dell'anno, diverse tipologie di colture, ben distribuite e suddivise tra gli ortaggi di varie specie (verdure, legumi e varie). I prodotti degli orti erano sufficienti a soddisfare il sostentamento di ogni nucleo familiare, nonostante che all'epoca ciascuno contasse al suo interno numerosi componenti.
Per assicurare una resa costante dei prodotti, la cosa importante da ricordare era quella di eseguire la periodica "rotazione" delle postazioni di semina, di anno in anno, affinchè non venissero esaurite le principali sostanze nutritive del terreno. Il cambiamento della coltura permetteva anche di apportare gli elementi e le sostanze carenti. Questa tecnica è riconosciuta, dagli specialisti di storia botanica, altrettanto antica e anch'essa tramandata dai romani.

Menestrella 'e Pasca

Fin dall'inizio della primavera erano gli ortaggi, cosiddetti "a foglia larga", a prevalere negli orti nostrani, assieme ai legumi.

I broccoli, chiamati semplicemente "minestra di Pasqua" ('a menestella 'e Pasca") rappresentavano una fonte di attingimento costante di verdure per le cucine domestiche, perchè le cime di questi ortaggi, che venivano utilizzate quando erano prossime alla fioritura, erano prodotte dalle piante a ritmo serrato. Occorreva però essere attenti a lasciare integre, durante il taglio, le gemme sottostanti e non farle fiorire, affiché si conservasse la continua loro produzione. Per tale motivo questi broccoli erano soprannominati in gergo locale: "'e cuoglio cuoglio".... La cosa interessante è quella che si poteva disporre della produzione di queste verdure fino ai primi caldi primaverili, praticamente fino alla fine del mese di maggio.


I semi di questa varietà di broccoli erano messi a dimora verso la fine di giugno, in piccoli "letti" di terreno (chiamati 'mpuosti p''a chiantimma), assieme ai Broccoli di Natale ('e Vvruoccoli 'e Natale), in modo che dopo ferragosto, al sopraggiungere dei primi temporali, già si disponeva delle pianticelle da utilizzare per il trapianto nei solchi di produzione ('e linee). I solchi venivano opportunamente preparati con ferrilli e zappelloni (aratri a mano e zappe a forma di triangolo).

I "Broccoli di Natale" erano già pronti per la raccolta nella prima metà di dicembre; essi rappresentavano gli elementi principali per preparare la rinomata "minestra maritata", mentre la menestella 'e Pasca era gustata assieme alla pasta (ai mezzani di Gragnano), con un semplice ma saporito piatto, che richiedeva l'aggiunta di un pizzico di peperoncino.

Friarielli

Altre verdure che non mancavano mai negli orti erano le rape ('e vvruoccoli 'e rape) e i prelibati friarielli: questi ultimi erano una particolare varietà della famiglia delle rape. Tuttavia, considerando che per la coltivazione dei friarielli erano necessarie ampie estensioni di campagna, ecco che gli antichi contadini avevano escogitato una tecnica di coltivazione molto ingegnosa, che potremmo dire "intensiva"; essa infatti permetteva la produzione di significative quantità di "cime di rape", simili ai friarielli, ma utilizzando solo pochi metri quadrati di orto. Le rape, una volta cresciute, venivano reimpiantate su questi "letti" di terreno, preparati a forma di rettangoli regolari e opportunamente concimati nella parte sottostante.
I "letti" (chiamati 'e pòrche) erano conformati con una leggera convessità dal centro verso la periferia, in modo da impedire il ristagno di acqua piovana e favorire il suo deflusso verso i solchi che delimitavano il perimetro. Le rape erano seminate a maglia regolare, distanti l'una dall'altra una trentina di centimetri circa. La tecnica era chiamato in gergo locale "'e vvruoccoli curnati": definizione che tradotta, intendeva significare: "broccoli governati". Infatti, se essi erano ben curati, all'inizio della primavera si otteneva una produzione costante e ininterrotta di "cime di rape", che perdurava costantemente fino all'inizio dei primi caldi di maggio. Col termine di "governo" s'intendeva, quindi, la costante raccolta di "cime", che doveva essere eseguita con continuità, affinchè si impedisse la fioritura (spigare), altrimenti le piante diventavano definitivamente improduttive.
Tra le rape c'era anche la varietà che si sviluppava producendo una sorta di bulbo alla base, che qui chiamavano 'e càtozze; queste parti delle rape erano alquanto dure da mangiare e venivano riservate all'alimentazione delle mucche; purtuttavia, per evitare che le bestie si strozzassero mangiandole intere, l'esperienza maturata dai contadini consigliava che esse dovevano essere preventivamente sezionate (spaccate) in due o quattro parti.
I legumi erano degli altri alimenti che non mancavano mai negli orti del territorio. C'erano  i piselli: quelli utilizzati erano quasi sempre della varietà locale, molto produttiva, chiamati 'e Santa Croce.

Piselli chiamati "Santa Croce"

Questi erano impiantati in file lunghissime e, data la loro significativa altezza di crescita (fino e oltre 2,5 metri), erano sostenuti e "guidati" su rami  di pioppo (frasche), opportunamente infissi nel terreno. Le file di piselli potevano essere affiancate e distanti l'una dalle altre, due metri circa; mentre nello spazio intermedio si piantavano altri ortaggi, sempre su "letto" di terreno, come: lattughe, insalate incappucciate e scarole.
Le fave che dovevano adornare e allietare le tavole primaverili delle case, erano raccolte fresche e accompagnavano i pasti, specie del periodo pasquale, assieme alla ricotta salata, alla pancetta, ai formaggi e vari salumi, oltre ovviamente al pane integrale ('e rrano) e al vino.

Fagioli piccoli chiamati "Villaricca"

Si procedeva anche a essiccarle per poterle utilizzare durante l'inverno, quando erano cucinate assieme alla pasta oppure con sugo di pomodoro.
I fagioli raccolti negli orti erano di diverse tipologie: c'erano innanzitutto quelli celebri, detti 'e fasulille, ovvero i fagioli che venivano raccolti quando erano ancora in via di formazione dentro al loro baccello (conche). Si mangiavano interi, lessi assieme alle patate bollite, opportunamente conditi con olio, sale e limone. Spesso si piantavano anche fagioli rampicanti, sorretti sempre da frasche di pioppi; anche questi erano cucinati come i primi fagioli sopra descritti.

Fagioli detti "cu ll'ucchitiello"

Per la produzione di fagioli freschi, preparati nelle pietanze con la pasta oppure a zuppa, erano coltivati 'e spellucarielli, la cui varietà prevalente era chiamata Borlotti. Mentre la produzione intensiva dei fagioli, da conservare secchi per il periodo invernale, richiedeva l'impegno di vaste estensioni di campagna; per questi era preferita la varietà nostrana, molto produttiva, chiamata 'e Villaricca, che erano fagioli di piccolissime dimensioni, ma molto saporiti. Non mancavano anche quelli dal formato grande, chiamati 'e cannellini. Altra varietà antica, prodotta soprattutto a Piscinola e zone circostanti, erano quelli chiamati "fagioli con l'occhietto" (cu ll'ucchietiello), sia nella varietà bianca che nera.

Patate della varietù chiamate "Ricciuni"

Le patate, di antica tradizione locale e molto adatta alla conservazione invernale, erano chiamati 'e Ricciuni. Erano queste patate di piccole dimensioni, spesso con peduncoli tondeggianti, ma erano molto produttive e saporite. Dopo ogni raccolto annuale, si aveva la premura di conservare una parte delle patate per la semina dell'anno successivo. Solo negli ultimi tempi furono introdotte qualità di importazione, come quelle provenienti dai Paesi Bassi, molto produttive, ma non eguagliavano nel sapore le patate nostrane. L'apprezzamento principale delle patate "Ricciuni" si aveva nel corso dell'inverno, quando si utilizzavano per essere cotte sotto la cenere del camino. Un sapore senza eguali...!

Le cipolle qui in uso erano le varietà che prendevano il nome del mese in cui si eseguiva la raccolta, ovvero: quelle bianche, chiamate 'e Maggiaiole e quelle rosse, chiamate ll'Austegne.
Non mancavano le colture di aglio e dell'aglione, che erano qualità tramandate di generazione in generazione, ad elevata produzione e soprattutto dal grande profumo. La produzione dell'aglio aveva tutta una procedura riservata alla loro pulizia, alla essiccazione e alla conservazione. In quest'ultimo passaggio, della conservazione, per ogni bulbo d'aglio raccolto (capa d'aglio) veniva conservato integro il suo tratto di peduncolo (per circa venticinque centimetri), destinato a essere legato assieme agli altri e realizzare così il classico "mazzetto" da appendere ai muri (mazzo d'aglio). Questi venivano appesi alle pareti dei balconi, agli usci delle casa, oppure negli androni delle masserie e duravano intatti per tutto l'inverno, fino al successivo raccolto.
I pomodori erano sorretti anch'essi dalle frasche di pioppo. Si utilizzavano generalmente i tipi detti 'a fiaschetto. Negli ultimi tempi sono stati introdotte le varietà del Vesuvio (dette cu 'o pizzitiello), le Mezze San Marzano e le Minturno, qualità di pomodori che non richiedevano grandi apporti di acqua per il loro sviluppo. Anche i pomodori erano conservati per l'inverno, ma con diverse tecniche: si producevano le caratteristiche collane, dette piennoli, per essere appese ai muri, oppure erano preparate conserve di pomodori in bottiglie o vasetti di vetro, con l'aggiunta di basilico. C'era però un altro metodo di conservazione, molto più antico dei primi, che era quello dell'essiccazione al sole, dopo averli sezionati in parti sottili ('e pacchetelle). Alla fine della loro essiccazione erano opportunamente ridotte in polvere con l'aiuto di mattarelli o mortai.

Il granoturco era impiantato su grandi appezzamenti di terreno per produrre cibo, utilizzato sia per l'alimentazione delle famiglie e sia per gli animali (galline e suini), anche le parti vegetali delle piante erano utilizzate: le foglie di rivestimento delle pannocchie secche ('e sbreglie) erano usate per il riempimento dei materassi, mentre i fusi delle pannocchie ('e tuderi), venivano bruciati nei camini. Con il granoturco si produceva anche la farina di mais ('a farenella), utilizzata per produrre migliacci fritti o pizze al forno (pizza 'e farenella). Mentre le pannocchie erano cotte su carbonelle ('e spighe arrustute) oppure lessate ('e pullanghelle).
Per i peperoni si coltivavano solo le varietà piccole e verdi, chiamati peperuncielli 'e sciumme (peperoncini di fiume), detti forse così perche richiedevano per la loro crescita e produzione un apporto significativo di acqua.
Mentre nei vasi di casa si coltivavano le spezie utili per la cucina: peperoncini piccanti (peperuncielli forti), salvia, rosmarino (rosamaria), prezzemolo ('o petrusino) sedano (ll'accio), basilico ('a vasenicola), e qualcuno anche l'alloro a cespuglio. Altro elemento utilizzato in cucina era l'origano ('a rècheta), che era frequente coltivarlo allo stato libero, sui terrazzamenti che delimitavano le strade ('e separelle): essa rappresentava una varietà selvatica, praticamente autoctona del territorio, sovente dalla crescita spontanea.

Varietà di zucchine "San Pasquale"

Si coltivavano anche la cicoria e la rucola. Quest'ultima era utilizzata in cucina per preparare delle speciali insalate, molto apprezzate dagli intenditori, composte dalle "cime" di rucola e dalle parti di erba portulaca: ricordate con il simpatico binomio di: 'a rucola e pucchiacchiello. Non mancavano nemmeno i ravanelli ('e rafanielli) e i finocchi. Per la coltivazione dei ravanelli erano privilegiati la varietà piccola e tonda.
Le zucchine erano sempre della varietà detta San Pasquale, e che qui davano degli ottimi risultanti sia per la produzione delle zucchine e sia specialmente per l'abbondante produzione di fiori di zucca ('e sciurilli): elementi principi per preparare le famose e prelibate "pastette 'e sciurilli" fritte.

Cime delle piante dei zucchini ('e Talli)

Forse non tutti sanno che al termine della loro produzione, venivano utilizzate in cucina anche le cime delle piante, opportunamente pulite (spellate) dalle parti puntigliose che coprivano i gambi. Le cime dei zucchini venivano, poi, bollite in bagnomaria e, infine, gustate in saporite minestre, con olio, sale e limone, accompagnate ovviamente da pane casareccio e vino...! Queste verdure così preparate erano chiamate dai contadini 'e Talli.
Le zucchine subivano un altro processo di trasformazione per la loro conservazione invernale, anch'esso remoto e dimenticato oggi. Erano infatti tagliati in listelli sottili e poi messi ad essiccare, esposti ai raggi del sole estivo. Alla fine venivano poi conservate nelle dispense, in appositi contenitori. Questi prodotti di lavorazione erano chiamati: 'e fèlle.

 Zucchine secche ('e Felle)

Delle zucche prodotte nei campi esistevano due tipologie: quelle per essere cucinate in pietanze (di forma sia tondeggiane che oblunga) e quelle destinate all'alimentazione degli animali nelle stalle (mucche e maiali), tuttavia da quest'ultime si ricavavano anche abbondanti quantità di semi di zucca. I semi di zucca ('e sèmmienti) venivano abbrustoliti nei forni, insieme ad altri legumi e semi secchi ('e spassatiempi), come ceci, nocciole e noci. C'era anche chi seminava arachidi e lupini, ma in modestissime quantità.
I funghi era un'altra leccornia del palato, tuttavia qui si ricavavano solo due varietà: quelli prodotti sui Pioppi (ma si sviluppavano anche alla loro base), chiamati
'e chiupppetelli e quelli ricavati dagli alberi da frutta, chiamati "'e semmentini".

Funghi di Pioppo ('e chiuppetielli)

I funghi di Pioppo si sviluppavano in gran quantità specialmente sulle chiome degli alberi secolari neri, solitamente alla fine di agosto. Nella parte alta dei Pioppi, infatti, erano spesso presenti delle particolari cavità scavate nel tronco marcito (chiamate 'e scafoncie), ed erano quelle le zone dove si sviluppavano prevalentente questa varietà di fungo, dal grande cappello bianco latte e dal profumo indescrivibile. L'altra varietà di funghi nostrani, chiamati 'e Semmentini, si sviluppavano alla base di tutti gli alberi secchi di frutta, solitamente tra ottobre e novembre. Questi funghi, dal sapore meno intenso dei primi descritti, si formavano anche alla base delle piante di rose rinsecchite e alla base di altri alberi secchi, addirittura come l'Alloro e le viti. (segue nella terza parte)

Salvatore Fioretto