domenica 16 maggio 2021

Quel senso umano della solidarietà e del “condividere”, di Pasquale di Fenzo

Mia madre nell’immediato dopoguerra era una giovane sposa in attesa della prima figlia e abitava in un appartamentino a Piscinola.
Sotto al suo balconcino abitava donna Carmela e la sua poverissima famiglia formata dal marito disoccupato e da una dozzina fra figli e nipoti. Mio padre era fortunato, perché era un bravo elettricista e lavorava con gli americani nell’aeroporto. Di tanto in tanto portava come aiutante il marito di donna Carmela o uno dei suoi figli più grandi. Era un determinante contributo alla sopravvivenza, in casa di donna Carmela si mangiava una sola volta al giorno. Però mia madre diceva che la sua vicina il primo piatto lo metteva da parte per destinarlo a lei: “Tanto tu stai sola, è inutile che appicci i fornelli e poi, dove mangiano in quattordici possono mangiare in quindici”. Mia madre lasciava che uno dei bambini più piccoli rimanesse a dormire da lei, altrimenti non tutti avrebbero potuto trovare posto la notte.
Donna Carmela non l'ha mai saputo, ma quel "primo piatto" che donava con tanti sacrifici, mia madre non l'ha mai mangiato, lo conservava per uno dei figli di donna Carmela, quando andavano a dormire da lei la sera... Mia madre e donna Carmela non avrebbero potuto immaginare che "condividere" avrebbe assunto il significato che oggi gli diamo!
Scrivendo mi è venuta in mente un'altra cosa che mi raccontava mia madre. Durante la guerra, quando c’era la fame più nera…, nel palazzo detto de' Manduline, in vico Primo del Plebiscito, c’era Filuccella d’’e Manduline, una contadina molto benvoluta dal vicinato, perché a turno regalava ai vicini le scorze dei piselli e delle patate che loro poi cuocevano e mangiavano. Suo marito, chiamato Meniello d’’e Manduline, "faceva i vermi", cioè pronunciava delle parole misteriose, mentre toccava la pancia dei bambini; una pratica che, secondo le credenze dell’epoca, serviva a liberarli dai vermi intestinali.
Suo concorrente era “Ummonone”, così chiamato per la sua mole imponente. Lo vedevi per Piscinola con una strana carriola di legno che si era costruito con le sue mani e raccoglieva gli escrementi che asini e cavalli lasciavano per strada. Possiamo dire che, questa pratica del tempo, è stata un’antesignana della cosiddetta “Raccolta differenziata”, che cerchiamo di praticare oggi. Il letame era successivamente venduto e utilizzato come concime nelle campagne dell’epoca.
A quell'epoca, la pratica "dei vermi" era molto diffusa, così pure c’era una vecchietta che abitava nel palazzo di fronte alla cantina Di Guida, che curava le contusioni con il bianco dell’uovo e delle ragnatele. Era conosciuta come “La Pizzallini” ed io stesso una volta fui portato da lei dopo una caduta.
Mi curò con bianco d’uovo e ragnatele, però con scarsi risultati, perché mi ero rotto la clavicola e stetti un mese ingessato. Per fortuna mio padre, quando tornò dal lavoro, mi portò all’ospedale dei Pellegrini. Ai Pellegrini mi ingessò un infermiere piscinolese, che si chiama Vittorio Andreozzi, amico di mio padre, che poi mi veniva a controllare l’ingessatura, quasi tutti i giorni.
Ma da noi c’era la cultura contadina della solidarietà e gli episodi di cronaca erano veramente pochi. Uno che ricordo riguardò Mimì soprannominato “‘o carcerato”, che poi era il primogenito di Teresa ‘a cacaglia. Secondo le cronache dell’epoca, Mimì uccise il suo compare di battesimo per una controversia su un terreno coltivato. Mimì era colono di quel terreno, che coltivava da anni assieme ai fratelli e alla madre vedova. L’omicidio fu compiuto perché alla morte del capofamiglia, il padrone intendeva portare via il podere che Mimì e famiglia gestivano come coloni, e quel terreno era la loro unica fonte di sostentamento.
Chi era determinato a comprarlo, forse non sufficientemente consapevole di compiere un danno alla famiglia di Mimì, fu proprio il compare di battesimo di quest’ultimo.
Dopo l’omicidio, il calesse, trainato dal cavallo, con sopra il corpo dell’ucciso, tornò alla stalla dell’abitazione d’origine, autonomamente, cioè senza guida, attraversando mezza Piscinola, proprio come era stato descritto nella poesia del Pascoli, ”la Cavallina Storna”. I giornali dell’epoca, tra i quali il celebre settimanale illustrato “La Domenica del Corriere” (Ed. n. 19, anno 58, del 6 maggio 1956), scrissero nei loro titoli: “L’episodio della Cavallina Storna si rinnova dopo settant’anni”.
Mimì era poco più grande di me, scontò circa trenta anni di carcere. Ricordo quando, durante il processo, accompagnato dalle guardie, lo portarono a Piscinola per il sopralluogo; lo condussero nel palazzo del Municipio. Io e molti ragazzi ci arrampicammo sulla cancellata che allora era attorno alla chiesa del Salvatore, cercando una posizione alta, per meglio osservare la scena. Addirittura fu applaudito da gran parte della gente che si era accalcata davanti al Municipio, tuttavia tra la folla fu ascoltata anche qualche voce isolata di dissenso.
Forse oggi potrebbe risultare difficile comprenderlo, anche in ragione della nostra etica, ma bisognerebbe immedesimarsi in quel contesto storico, di piccolo borgo rurale, dove regnavano in prevalenza i principi arcaici della società contadina, fatta di sensi di rispetto e del concetto dell'onore; pertanto, il fatto significativo di quell’episodio, fu quello che gran parte del "paese" si schierò dalla parte del più debole, cioè con la famiglia povera, a cui il più ricco voleva portare via il “pane”. I fratelli di Mimì erano tutti bambini e sua madre era una povera contadina, senza istruzione e pure un poco intontita dalla precoce vecchiaia e dalla tragedia della prematura morte del marito. Talmente che erano rari i casi di cronaca nera a Piscinola, che gli fu dato il soprannome di "'O carcerato". Uno dei fratelli più piccoli, Totonno è stato mio amico di infanzia.
Ricordo anche Maria 'a Ceccia, che era una specie di mediatrice, che interveniva quando si doveva ricomporre la pace tra due famiglie contrarie al matrimonio dei loro ragazzi.
La sua numerosa famiglia abitava nel basso all’inizio di via del Plebiscito, che si intravede nella foto della processione del SS. Salvatore, dove poi si mise il negozio "Emporio", proprio di fronte alla scuola. Era una persona molto sentita e apprezzata. Molti la ricorderanno, così come si ricorderanno di suo marito, don Giovanni, apprezzato imprenditore edile ed alcuni suoi figli, molto conosciuti a Piscinola come Tonino 'o Mmericano e Cicciariello, quest’ultimo grande appassionato di automobili antiche; fino a pochi anni fa, prima di morire, girava per le strade con una bellissima "Topolino" fiammante e completamente ristrutturata. La stessa funzione "riparatrice di matrimoni", la svolgeva Donna Emilia, che aveva il bar di fronte alla sala cinematografica all’aperto in via Vittorio Veneto, che all’epoca si chiamava “Arena Azzurra. Sala che diventò negli anni seguenti il Cinema “Selis”. Donna Emilia, anche lei era molto conosciuta a Piscinola, si dice di lei che in gioventù fosse stata una ragazza bellissima e avesse calcato con successo le tavole del teatro di varietà ma, purtroppo, non ci è dato di sapere altro.
‘O Barone era un altro personaggio caratteristico di Piscinola di un tempo, che abitava però al “Capo e Coppa”, di lui si diceva che avesse una forza da Ercole…! Io lo ricordo già molto vecchio, quindi non saprei dire se la cosa fosse vera. Aveva le labbra molto pronunciate, tanto che tra noi ragazzi ci si minacciava esclamando la frase: “te faccio ‘o musso comm’’o Barone!”
Altro personaggio mitico del "Popolo", è stato don Vicienzo, soprannominato proprio "'O Popolo". Era un modesto ciabattino, che si barcamenava per sopravvivere con un piccolo "bancariello" ambulante, proprio come si vede nel film di Totò: "San Giovanni Decollato". Alla guisa del celebre personaggio comico, don Vicienzo si posizionava sovente a lavorare, seduto al suo "bancariello", nel cortile di vico Primo Plebiscito, e là trascorreva intere giornate a riparare scarpe e a inchiodare tomaie e tacchi. La caratteristica che lo contraddistingueva, però, era quella che era dotato di uno spirito e di una dialettica al di fuori del comune, conoscendo a memoria tanti aneddoti e cunti, che ritualmente esibiva a voce alta. Addirittura, pur non avendo studiato, si gloriava di conoscere a memoria l'intera Divina Commedia e spesso recitava alcune strofe di Canti, accompagnate dalla mimica e da martellate ritmate... Il suo negozietto era sempre affollato di bambini e di ragazzi che, durante le sue loquaci ed esileranti esibizioni, si fermavano ad ascoltarlo per ore intere, senza mai stancarsi e ridendo spesso... Ebbe nove figlie femmime, e un solo maschio, Costantino. Le ultime figlie (l'ottava e la nona figlia), le chiamò Ottavia e Nona... Il figlioletto Costantino, purtroppo, morì prematuramente in un terribile incidente, causato dallo scoppio di un ordigno bellico.

La Piscinola che ricordo, era una grande famiglia allargata...!

Pasquale di Fenzo

Ringraziamo il caro amico Pasquale di Fenzo che ci fa sempre deliziare con i suoi racconti; pero' dobbiamo dire che, questa volta, questo racconto sulla solidarieta è stato eccezionalmente bello e commovente. Grazie Pasquale!
E' opportuno evidenziare, a margine del racconto di Di Fenzo, soprattutto per ragioni di cronaca, che il racconto di "Donna Carmela", riportato nella prima parte del post, è stato pubblicato anche sulla rubrica “Lettera del giorno”, del quotidiano "Il Mattino di Napoli", l'11 giugno 2016.

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sabato 8 maggio 2021

A proposito del Capo 'a Chianca, caro Salvatore, ti racconto...! di Vincenzo Capuozzo.

Caro Salvatore,

Scorcio di Piscinola, con temporale in arrivo, foto di De Simone, 2013

riprendo il filo del nostro discorrere su Piscinola antica, parto dal post del "Capo 'a Chianca", recentemente pubblicato, per farti partecipe di alcuni ricordi della strada dove ho vissuto. Oltre ai negozi e botteghe che tu hai citato nel post, dopo la salumeria Biancardi, c'era Peppe d''e bombole.

Cappella palazzo Fioretto, foto S. Fioretto
Peppe per una vita ha portato bombole, prima con il motom poi con la lambretta, lo si può ancora incontrare presso il negozio del figlio (cellulari e altro) o presso Agostino 'o cavuciajuolo (negozio di ferramenta al n. 21), quest'ultimo un altro negozio storico, prima tenuto dal padre Vincenzo (stesso soprannome). Più avanti ancora c'era un piccolo negozio di alimentari tenuto da una  mia zia, la cui attività rilevante, però, era fare il pane nel forno che c'era nel nostro cortile (credo che era uno dei pochi ancora usati allo scopo), il marito poi lo portava tutte le mattine in quasi tutte le masserie, anche lui con un motom provvisto di un cassone.
Edificio T. Tasso e via del Plebiscito, 1981, foto Enzo

Pasqualino (detto della Lavanderia) abita vicino alla famiglia Fioretto (ex abitanti della Masseria Spendore) e alla signora Teresa vedova D'Avolio, una volta abitante nell'altra masseria che si chiamava "masseria Filanda", situata 200 mt dopo la "masseria Spendore", sulla via Perillo e cupa del Cane. Il soprannome dei due fratelli che abitavano la "masseria Filanda" con le rispettive famiglie , era "'e Lupicielli". La cantina di Di Guida (Peppe 'o cantiniero) vendeva anche vino "Mondragone", varietà di vino più pregiata e anche più caro del vino nostrano. 

All'interno del giardino aveva 2 o 3 piste da bocce molto praticate, specie nella bella stagione, dove la sera ci si giocava da bere. Fuori sostava il carrettino a mano di "Pascale ‘ra trippa" bello e pulito. Soleva cuocere le frattaglie nell'ultimo cortile situato verso la via G. Antonio Campano dove abitava. Andava per campagne a raccogliere rami di nocciolo, foglie di fico e altro con cui fare il "letto verde", su cui esporre la trippa e il pere 'e musso e per addobbare il carrettino.

Consegna della posta in una masseria di Piscinola, foto De Stefano

Durante l'inverno faceva altri lavori, tra l'altro lo chiamavano per l'uccisione e lavorazione del maiale (da ragazzo l'ho avuto qualche volta come maestro nella preparazione dei salami e salatura di prosciutto e pancette).

Io ero cliente di Luciella d''e caramelle. Appena avevo 5 o 10 lire  andavo da lei a comprarne alcune (le caramelle erano sfuse e costavano una lira l'una).

L'Associazione "San Vincenzo Ferreri" era un locale piccolo dove la sera alcuni tavolini ospitavano molte persone che si giocavano a carte un bicchiere di vino, sotto lo sguardo del santo.

Il vico Secondo del Plebiscito comunicava, attraverso l'ultimo cortile, con un altro cortile , detto dei "Maricella" che dava su via Dietro la Vigna. Noi ragazzini usavano quel passaggio nel giocare a nascondino. I "Maricella", che erano anche loro coltivatori, avevano comprato delle macchine per "smallare" le noci, cosicché nel periodo della raccolta delle noci, dal pomeriggio a sera tardi c'era un via vai di carretti, Ape e altro, che in coda aspettavano il loro turno per la pulitura delle noci. Tutt'intorno e per tutto il periodo rimaneva il forte odore del mallo.
L'arco di tufo delle foto che immetteva nella strada poderale dove, passati i binari della Piedimonte, iniziava la proprietà Del Forno e portava alla casa di "Peppe 'o guardiano". Qualche volta sono andato a portagli "ammasciate" di mio padre se poteva venire a fare una giornata di lavoro da noi. Peppe oltre a essere guardiano del fondo e coltivarne una parte, si offriva a fare giornate per i lavori di zappatura.

Qui termino con i miei ricordi.

Però voglio porti alcune domande: fermo restando il grande, lodevole e appassionato lavoro tuo di ricerca e conservazione della memoria, mi sembra che manchino dei pezzi per carenza delle fonti. Mi spiego. Tu stesso ammetti che non ci sono molte informazioni e documenti (foto ecc.) per quanto riguarda le masserie del Perillo

Io stesso che ne ho frequentate alcune non ho altro che i ricordi di cui ti ho detto, eppure in quelle masserie si sono svolti matrimoni, feste ecc. che sono state oggetto di pur rare foto, che i contadini erano usi farsi fare. Nelle tue ricerche hai provato a percorrere questa strada? Dico questo perché a Vittuone, dove vivo e nel paese vicino, hanno creato due pagine in Facebook, che si intitolano: "Vittuone... com'era" e "Sedriano, arte cultura storia", che avvalendosi del contributo di singoli soci iscritti, hanno raccolto non poco materiale del tipo che ti dicevo e a ricostruire dei pezzi di memoria, sicuramente meno professionale, ma molto sociale.
Il nostro trascorso di ragazzi, a parte la scuola, si svolgeva nelle vie dove vivevamo e nelle campagne frequentate. Giocoforza avevamo una visione parziale del tutto e anche i nostri ricordi sono rimasti così. Sicuramente vale per chi poi è andato via, ma sono certo che in parte è così per tutti.

Conosco bene "'o Capa 'a Chianca" meno Abbascio Miano, poco "'O Vico 'a Pagliaro", un pò di più “'O Capo 'e Coppa” (perchè frequentavo la casa di mio cugino nel cortile di "Guglielmo 'o vuttaro"). Quindi ognuno di noi è depositario di ricordi comuni ma ancor più di ricordi particolari, da qui la necessità/possibilità di un racconto più allargato.

Quanti ricordano (esistono foto?) che per anni nella zona tra via Dietro la Vigna e le prime palazzine popolari di Marianella c'è stata una campagna disboscata diventata territorio di partite a calcio e altri giochi. Un periodo alcuni giovani avevano appassionato numerosi ragazzi al gioco del Baseball, che nessuno allora conosceva. Quanti ricordano “'e Muntagnelle”, mi pare che nella zona di via Napoli vi fosse un'area omonima interessata da una storia simile a quella ricordata sopra.

Lo stesso vale per la zona che dalla stazione della Piedimonte andava fino a Scampia. Sembra che le foto dello scempio non esistono. Possibile che non si può raccontare quella storia con immagini come quelle delle periferie romane?

Caro Salvatore l'ho fatta lunga, mi accorgo che si è fatto tardi, spero di non avrerti tediato.

Ti auguro la buona notte.

Vincenzo Capuozzo


Innanzitutto, ringrazio calorosamente il caro amico Vincenzo, per il bel messaggio che mi ha trasmesso, e per il bel racconto contenuto. Ringrazio anche per le belle parole di apprezzamento ricevute al lavoro svolto per "Piscinolablog". In merito all'ultima parte dello scritto, ossia alle domande poste, posso rispondere così: Per quanto riguarda la ricerca/raccolta della documentazione fotografica, ho iniziato a cercare da almeno 18 anni a questa parte, da quando organizzammo la prima mostra-evento del "Museo del ricordo di Piscinola e Marianella", all'interno della stazione della metropolitana di Piscinola (autunno 2003/2004). In quella circostanza, io stesso curai la parte grafica e storica e ho accuratamente conservato le foto raccolte (scan), perchè in quella circostanza, grazie al contributo di associazioni, uomini di cultura, scrittori, artisti vari, amministratori politici e tantissimi anziani e cittadini comuni, tutti si sentirono di contribuire, per quanto potevano, con impegno e aggiungo con passione, alla raccolta del materiale disperso. Fu veramente un bel evento. 

Negli anni che seguirono, avvertendo la necessità di ampliare il raggio di raccolta, perché comunque il materiale non era tanto numeroso, e sfruttando i nuovi "social", che intanto si andavano affermando, pensai di fondare il gruppo Facebook di "Noi e Piscinola" (anno 2011), che, nella fase iniziale, grazie al lodevole contributo di diversi amici e, soprattutto, grazie a una vasta platea di aderenti al gruppo, si ebbe un significativo apporto di documentazione fotografica/storica su Piscinola e anche tante testimonianze. Ma è stato un certo senso una meteora che si è subito spenta, perché, dopo i primi anni di proficua attività, il gruppo FB ha abbandonato una parte di quelli che erano i caratteri e gli scopi della fondazione, anche perché cominciavano a non essere più frequenti gli argomenti di discussione a tema (foto e ricordi storici). Negli anni seguenti ho continuato, per conto mio, con le ricerche in biblioteche, presso gli archivi fotografici, e presso altri luoghi e centri di ricerca, anche se il risultato è stato pur sempre modesto, almeno per quanto concerne le foto raccolte. Nella stessa pagina di facebook di "Amici di Piscinolablog", da me successivamente fondata (anno 2014), allo scopo di divulgare gli scritti del mio blog, ho fatto diversi e numerosi appelli, affinchè le persone che fossero in possesso di materiali di interesse storico e fotografico su Piscinola, li mettessero a disposizione per eseguire copie e scannerizzazioni da archiviare e conservare, ma il risultato, a tutt'oggi, è stato un po' deludente.  

Diciamo che ci scontriamo anche di fronte a una mentalità un po' conservativa delle persone, che hanno anche un pizzico di diffidenza e, poi, c'è il discorso della privacy, perché molte foto che ritraggono scorci di luoghi, edifici e larghi, comprendono spesso la presenza di persone, che non condividono che vengano divulgate. Questa è un po' la cronistoria di quanto ho potuto fare fino ad oggi. Non è moltissimo, ma nemmeno un impegno trascurabile. 

Per quanto riguarda, invece, la domanda sulle "muntagnelle" di via Napoli, segnalo che l'argomento è stato trattato anni fa dall'amico Massimo de Stefano e si trova cercando in "Piscinolablog". Ecco il link:

 ... 'e Muntagnelle...! di Massimo de Stefano.


Ringrazio, ancora di cuore, l'amico Vincenzo, e lo invito a continuare con la sua preziosa collaborazione al blog.

Salvatore Fioretto

lunedì 3 maggio 2021

Quel cinema di Miano: "CINEMA VITTORIA", chiamato "PIDOCCHIETTO" (di Mario Vastarella)

Largo centro storico (sul fondo chiesa SS. Assunta)
Il centro storico di Miano aveva una sala cinematografica tutta sua, anche se di capienza ridotta, che si chiamava "Cinema Vittoria", ma era da tutti chiamata bonariamente "Pidocchietto". Non si è mai saputo di preciso l'origine del curioso soprannome del Cinema, forse esso deriva dalle sue piccole dimensioni e, contrariamente, ironia della sorte, si stipava di tanta gente, soprattutto di anziani e di mamme, che accompagnavano numerosi pargoli; addirittura portavano con sé anche il cibo cucinato da casa, che consumavano durante la visione del film!
Io in questo locale ci lavoravo, quando uscivo dalla scuola elementare. Vendevo caramelle, ed un altro compagno mio, che vendeva gassose, si chiamava "Zepechione" e abitava al vico Parisi, dove ci abitava pure il musicista James Senese ed il poeta Giuseppe Capaldo, che scrisse la famosa canzone conosciuta per il mondo: "’A tazza ‘e cafè".
Centro storico di Miano visto dall'alto, foto metà anni '50 (particolare da cartolina Peroni)
Ritornando al cinema “Pidocchietto”, era sempre pieno di militari, anzi, c'è da aggiungere che nel quartiere di Miano la presenza di militari era ormai  di casa, considerata la vicinanza di ben tre caserme.
Mi ricordo che il tecnico del cinema si chiamava Michele, e aveva una vespa motom; lo andavano a prendere in qualche cantina nelle vicinanze, perché spesso, e diverse volte, montava la pellicola del film che si stava proiettando in sala al contrario. Immaginate quello che succedeva nella sala tra il pubblico...?! Succedeva il finimondo! Lo schiamazzo perdurava fino a quando non si aggiustava la pellicola.
Stabilimento Birra Peroni, visto dall'alto e centro storico di Miano

Io prendevo come paga 200 lire a settimana, in compenso, però, mi vedevo tutti i film gratis e, poi,… di tanto in tanto, mi succhiavo mezza caramella, per poi rincartarla di nuovo…

Una confessione, da non condannare, per la mia tenera età di allora…

Le bigliettaie della sala all'epoca erano le sorelle Brizzi, mentre, il gestore, era un certo “Don Gennaro”.

Poi ci stava Don Armando, detto ‘o Nasone, che era il mio titolare.

Ricordo ancora le lunghe trattative di compravendita di biglietti, specie tra ragazzi, le frasi ricorrenti che si sentivano erano: “Te 'o vvuò vennere ‘o posto?” oppure “Te 'o vvuò accattà ‘o posto?” Questo succedeva quasi alla fine di un film.

Ricordo, in particolare, gli immancabili film Western, e quelli di guerra tra sudisti e nordisti americani. Durante la marcia dei soldati, io e gli altri amici seduti in sala ci mettevano a fare un assordante rumore con i sedili e poi ci mettevamo a gridare tutti insieme: "Arrivano 'e nuoste"!
Da Miano a Piscinola all'epoca ricordo che c'erano quattro sale cinematografiche: “Vittoria”, “Avvenire”, “Europa” e “Selis”. Tante volte, da un film all’altro che uscivano nelle sale cinematografiche, queste quattro sale del territoro si passavano le pellicole tra loro.

Ho voglia di quella mezza caramella
Mario Vastarella

Ringraziamo l'amico Mario per averci raccontato questa bella testimonianza della sua gioventù e della vita a Miano di alcuni decenni fa. 
 
Centro Storico di Miano, a lato edificio Villa Russo (foto attuale antichizzata)
 



venerdì 30 aprile 2021

1527. Patto di sangue tra i napoletani e il loro Protettore, San Gennaro...

Stampa ottocentesca di San Gennaro
Domani, sabato che antecede la prima domenica di maggio, la Chiesa Napoletana commemora, come dall'antico calendario liturgico locale, in un'unica ricorrenza, il ricordo delle tante traslazioni che hanno interessato i resti del Vescovo e Martire Gennaro; festa già istituita nel VIII secolo, ricordando la prima traslazione avvenuta nel V secolo, dal luogo di sepoltura di Gennaro e compagni, dopo il martirio, chiamato Marcianum, fino alle Catacombe situate ai piedi dei "Colli Ameni", nella ridente Capodimonte. In verità la festa inizialmente fu fissata il 13 aprile. Purtroppo la continua sua sovrapposizione ai riti della ricorrenza pasquale, spesso capitava durante la settimana in Albis, hanno consigliato nei secoli recenti di spostarla al "primo" sabato di maggio, come detto sopra. Non tutti lo sanno, però, che a volte, quando il primo maggio capita di domenica, la festa della Traslazione si celebra il 30 aprile...,  perchè il riferimento a cui bisogna osservare è la prima domenica di maggio e non il sabato in cui si festeggia.
Le reliquie di Gennaro furono conservate a Capodimonte, fino al IX secolo, ma non comprendevano i resti della capo del Martire e nemmeno il Suo sangue, perchè, come risulta dalle fonti antiche, essi furono sempre custoditi in un ambiente del vecchio duomo medioevale napoletano, è precisamente in quello che veniva chiamato "Stefania", perché edificato dal vescovo di Napoli chiamato Stefano I, in contrapposizione con l'altra cattedrale, anch'essa molto antica (intorno al VI sec.), che era chiamata "Ecclesia Sancti Salvatoris", ovvero la "Basilica di Santa Restituta Africana"; secondo una leggenda essa fu edificata dall'imperatore Costantino.
Nell'anno 831, come scritto in altro post dedicato alla figura di Gennaro, le sue reliquie, poste nelle catacombe di Capodimonte, furono rubate dai Longobardi, condotti dal principe beneventano Sicone e trasportate nella città Sannita.
Quando nel XIII secolo i regnanti angioini, precisamente re Carlo II d'Angiò, soprannominato "lo zoppo", decisero di edificare l'odierna Cattedrale, fu demolita interamente la struttura della "Stefania" e inglobato nel nuovo tempio quel che restava della basilica di Santa Restituta, rimaneggiata per l'adattamento: ovvero, monca del quadriportico e di un tratto di lunghezza delle cinque navate, nel lato d'ingresso. Quando il duomo angioino fu completato, le reliquie del capo del Martire e del suo sangue furono sistemate in un ambiente appositamente ricavato, posto a un livello superiore della navata laterale di sinistra (guardando l'altare maggiore), a cui si accedeva attraverso una scala a chiocciola molto tortuosa e stretta. In questo locale, che fu chiamato "Tesoro Vecchio", c'era un altare con due nicchie ai lati, dove si conservavano le due reliquie (L'ambiente risulta oggi ancora conservato, anche se rimaneggiato nel periodo barocco).
Incominciava in quel tempo a formarsi anche quello che fu poi chiamato "Tesoro di San Gennaro", con i busti dei primi sei santi compatroni della città (Agrippino, Efebo (o Eufebio), Aspreno, Agnello Abate, Atanasio, Severo), aventi il "mezzo busto" realizzato in legno, mentre il capo e le mani erano eseguiti in argento, fuso e cesellato. Poi c'erano anche dei gioielli e degli oggetti, in metallo e pietre preziose, donati da più parti. A custodia di questo ambiente e di quanto ivi contenuto, fu istituita la figura del "Cimiliarca", ovvero il custode del "Tesoro Vecchio".
Quando, durante i casi di calamità pubblica (eruzioni, terremoti, epidemie, carestie, alluvioni e guerre...), il popolo reclamava la benedizione della città con le reliquie di San Gennaro, un sacerdote si affacciava da questo ambiente, che dava sulla navata  della cattedrale e attraverso un finestrone, ancora oggi esistente, mostrava le reliquie del sangue e impartiva a tutti la benedizione richiesta.
Questa sistemazione logistica si protrasse fino al XVI secolo, con qualche nota di cronaca particolare (riferite dai cosiddetti "diari" dell'epoca), come ad esempio l'episodio che capitò proprio durante una festa della Traslazione, quando il prelato, che aveva il compito di prelevare la teca con le ampolline del Sangue del Martire dal "Tesoro Vecchio" e condurla in processione, sotto al pallio, per le strade della Città, non afferrò bene la teca d'argento (realizzata da re Roberto d'Angiò) e la fece rovinare a terra! La procedura prevedeva che la teca dovesse essere portata strettamente in petto, raccolta dentro una scola in tessuto ricamato, ma quella volta non furono ben adottate queste precauzioni... Insomma si temette il peggio, perchè la detta reliquia, non solo cadde a terra, ma addirittura rotolò per tutti i gradini della scala a chiocciola! Fu una vera fortuna che le ampolle non accusarono alcun danno alla loro integrità, né si ebbero ripercussioni nel ripetersi del celebre "prodigio". Qualcuno pensò a un miracolo del Santo.
Nella seconda decade del XVI secolo, precisamente il 13 gennaio del 1527, la città di Napoli era stremata da una epidemia di peste e da una carestia, mai viste fino a quel momento; la sanguinosa guerra tra Spagna e Francia, che vedeva convolta anche Napoli, diffondeva i suoi nefasti danni e sciagure, quindi i napoletani esasperati dagli eventi, decisero di chiedere l'aiuto divino e di stipulare, a garanzia del sicuro intervento, una specie di "patto": un patto alquanto insolito, perchè la "controparte" non era vivente fisicamente, ma era un Santo..., ovvero, con San Gennaro in persona...! I napoletani erano convinti che, laddove non si potesse arrivare a risolvere i problemi con le forze umane e terrene, solo l'aiuto divino poteva dare sollievo ai casi più disperati...! Parliamo ovviamente dei problemi civici e politici dell'epoca. Quindi essi non si scoraggiarono e organizzarono un "comitato" di alto profilo civico e rappresentativo, formato da dodici "deputati", scelti tra le famiglie più nobili dell'aristocrazia cittadina del tempo, chiamati "Eletti", tra quelle ascritte ai sei Sedili che governavano la Città e anche dei rappresentanti del popolo. Furono quindi nominati due componenti per ognuno dei cinque Sedili nobili: Capuana, Nilo, Porto, Portanova e Montagna, e due del Sedile del Popolo. Nacque così quella che sarà chiamata "Real Deputazione del Tesoro di San Gennaro". Questi rappresentanti si riunirono alla presenza del notaio, che si chiamava  Vincenzo de Bossis, davanti alle reliquie di San Gennaro, che furono esposte sull'altare maggiore della Cattedrale, stilarono e sottoscrissero un vero e proprio contratto ufficiale (Pubblico Istrumento).
Si impegnarono, affinché fosse debellata l'epidemia e la carestia, a realizzare un nuovo tabernacolo in argento dorato, del valore di 1000 scudi, per contenere la teca della reliquia del Sangue, e di depositare la somma iniziale di 10.000 scudi, destinati alla realizzazione di una nuova e sontuosa Cappella, con ingresso a lato della Cattedrale, per accogliere degnamente le reliquie del loro Santo Patrono e delle statue dei Santi Compatroni della città, che intanto andavano aumentando di numero. In realtà a conclusione dei lavori della Cappella, furono spesi ben oltre 480.000 scudi...! A rappresentare San Gennaro, durante la stipula dell'atto, fu sufficiente esporre le reliquie della testa e quella del Sangue, tanto si riteneva che il sangue liquefatto era segno di una conferma della volontà del Santo... Dopo poco tempo, quando l'epidemia e le altre calamità cessarono, i napoletani onorarono la promessa fatta a San Gennaro, edificando quello che verrà poi detto "Tesoro Nuovo", ovvero la "Real Cappella del Tesoro di San Gennaro". La cappella, con pianta "a croce greca", è di proprietà della Municipalità di Napoli, ovvero di tutti i napoletani, mentre l'organismo che l'amministra, resta ininterrottamente in auge da ben cinque secoli, ed è la "Deputazione del Tesoro di San Gennaro": Deputazione risultante tra le più longeve del mondo, che è presieduta dal Sindaco di Napoli in carica. Questa ultima disposizione fu però introdotta solo durante il Decennio Francese, perchè prima di quel periodo, il presidente della Deputazione era il Sovrano in persona.
Stampa con le due cattedrali della Stefania e della Ecc. S. Salvatoris

L'opera per la costruzione della Cappella di San Gennaro tardò ad essere iniziata e dovettero passare ben 81 anni, dalla firma del "patto", per vedere posata la prima pietra e iniziati i lavori (8 giugno 1608). La progettazione e la direzione dei lavori fu affidata all'architetto teatino Francesco Grimaldi; ma tra lentezze burocratiche, gli espropri, i problemi tecnici, le crisi politiche e anche gli attentati terroristici... (compiuti da alcuni artisti napoletani esclusi dalla committenza), orrorsero ben 38 anni per vederla completata (benedetta nel 16 dicembre 1646), con tutti gli abbellimenti che la compongono. Oggi, infatti, ammiriamo un degno capolavoro cittadino dell'arte barocca, composto da: stucchi, marmi pregiati, bronzi, argenti, e poi: il cancello in ottone (di C. Fanzago), il paliotto d'altare maggiore in argento (vero capolavoro di Giandomenico Vinaccia), le statue d'argento dei 53 Santi Compatroni (ognuna un capolavoro di argenteria napoletana), i dipinti su rame del Domenichino, l'affresco del "paradiso" nella cupola (pregevole opera dell'emiliano Giovanni Lanfranco, completato nel 1643). E, poi, la serie di statue dei santi in bronzo, le statue in marmo (Finelli & C.), i due organi del sei-settecento, gli oggetti ex voto e i gioielli ornati con pietre preziose di valore inestimabile, sono un tutt'uno di questo "capolavoro" d'arte, che dimostra la grande venerazione che il popolo napoletano, insieme ai regnanti e all'aristocrazia napoletana di ogni tempo, hanno sempre avuto verso il grande Santo e Protettore, San Gennaro. La frase scolpita sulla sommità dell'ingresso della Cappella è una sintesi di questo riconoscimento popolare e recita così:

"Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis. Civi, Patroni, Vindici", che tradotta vuol significare: "San Gennaro, dalla fame della carestia, dalla peste, dal fuoco del Vesuvio, per opera del tuo Sangue miracoloso, Napoli riconoscente eresse. Al Cittadino, al Patrono, al Difensore della Patria."
Abbiamo cercato di narrare con parole semplici e senza tanti appesantimenti, un passaggio importante della storia di Napoli, speriamo vivamente di aver raggiunto il nostro obiettivo. L'abbiamo voluto dedicare alla città di Napoli, a tutti i napoletani e a tutti i devoti di San Gennaro sparsi per il mondo, in occasione dell'antica ricorrenza napoletana.
Intanto diciamo, grazie San Gennaro!
Salvatore Fioretto