sabato 24 ottobre 2020

Alcuni racconti, per ricordare i primi dieci anni del libro "Piscinola, la terra del Salvatore"!

In questo post riportiamo alcuni racconti tramandati dalla tradizione orale raccolta direttamente dai ricordi dei nostri anziani. Alcuni racconti sono delle leggende, altri invece appartengono alle cronache degli anni scorsi... Essi sono tratti dal mio libro: "Piscinola, la terra del Salvatore, una terra, la sua gente, le sue tradizioni", edizione The Boopen, anno 2010, che in queste settimane festeggia i primi dieci anni di vita...! La pubblicazione del libro è stata una esperienza bellissima, che mi ha portato tante belle soddisfazioni, oltre all'arricchimento umano, per le tante persone conosciute. Grazie al libro, tante nuove notizie e testimonianze mi sono arrivate, e poi tanto interesse ha suscitato nel quartiere, con la riscoperta della storia di Piscinola soprattutto da parte dei giovani.
Diretta conseguenza di questa bella esperienza, è stata la creazione del blog: "Piscinolablog" e della pagina rivista facebook: "Amici di Piscinolablog". Grazie!
Ecco i racconti:

La leggenda del “Cippo sotto ‘o campanaro”

Tanto tempo fa, prima dell’ampliamento della chiesa del SS. Salvatore, ossia prima dei lavori di costruzione della nuova facciata neoclassica, l’antico campanile si presentava avanzato rispetto a questa e alla sua base presentava una grossa volta “a botte”, con un arco a tutto sesto. Alla base dell’arco a volta, che fungeva anche da passaggio pedonale, esisteva un vecchio cippo marmoreo. Questa pietra, a forma un po’ cilindrica, era forse l’avanzo di un altare paleocristiano, di cui si ignorava la provenienza. Si presentava già a quei tempi in pessimo stato di conservazione, rotta in due metà, a causa degli “acciacchi” subiti nel corso dei secoli. Spesso essa era oggetto di gioco dei bambini ed era utilizzato dagli scugnizzi dell’epoca per improvvisare qualche esibizione di destrezza fisica!
Campanile e arco chiesa SS. Salvatore, anni '40

Secondo la leggenda, una notte di tanto tempo fa, un gruppo di ladruncoli agirono indisturbati e riuscirono a spaccare il mausoleo in due parti e ad estrarre un vero e proprio “tesoro”, che vi era nascosto all’interno. Si narra che dentro al cippo furono trovate numerose monete d’oro, dette “marenghi” ed una pisside d’oro, contenente ostie consacrate. Questi ladri portarono rapidamente via tutto il “tesoro”, servendosi di un carro trainato da buoi. Tuttavia, durante la fuga, lungo la vecchia “cupa” per Miano, in corrispondenza di un saliscendi lì esistente, i buoi “s’inchiantarono”, ossia si impuntarono e non permettevano al carro ed ai suoi conduttori di proseguire il tragitto. A nulla valsero i tentativi dei ladri per far avanzare le bestie, anche con colpi di frusta e botte. Ad un certo momento uno di questi ladri ebbe un’idea brillante, immaginando a chissà quale misterioso arcano si nascondesse nella pisside d’oro, pensò bene di prelevare dal tesoro l’oggetto d’oro, con il suo contenuto sacro e di poggiarlo sul muretto che costeggiava la “cupa”. Così facendo i buoi ripresero a trainare il carro e proseguirono il loro tragitto, senza opporvi altra resistenza. I Piscinolesi ed il Parroco del tempo, dal canto loro, avvertiti dell’avvenimento dagli abitanti del luogo, accorsero in processione a prelevare la pisside d’oro ed a riportarla in chiesa, tra l’acclamazione dei fedeli, che gridarono al miracolo. Di questa pisside, se veramente esistita, si è persa ogni traccia. Del famoso “cippo” sappiamo solo che, a seguito dei lavori di ampliamento della navata della chiesa, fu sotterrato nelle fondamenta della nuova facciata e tutt’oggi giace ancora lì.

La leggenda della “Casa dei serpenti”

Questo rudere archeologico è situato in mezzo allo spartitraffico di Via Tancredi Galimberti ed è stato in parte interrato a seguito della costruzione di quest’asse stradale, avvenuta agli inizi degli anni ’70. Secondo le ricerche archeologiche condotte dagli studiosi negli scorsi decenni, questi resti appartengono, con ogni probabilità, ad una casa romana di censo agiato. Ne sono testimoni anche la conformazione delle mura, costruite in “opus reticolatum”. 
Ruderi di villa rustica romana in via T. Galimberti
Infatti in vicinanza di queste mura, durante la costruzione del “Rione 167”, sono stati rinvenuti molti resti di una necropoli osco-romana. In occasione della prima guerra mondiale, si sa che i giovani si rifugiarono nelle cavità presenti al suo interno, per nascondersi e sfuggire alle perquisizioni dei Carabinieri, che andavano in giro alla ricerca dei disertori di guerra. Il rudere era detto anche “Casa dei serpenti”, per lo stato di abbandono in cui versava e per la presenza di rovi e di tane di serpenti al suo interno. Un alone di mistero ha sempre aleggiato intorno a queste vestigia, con leggende tramandate di generazione in generazione. Una di questa è da ricondursi al fatto che il rudere presentava un’enorme cavità al suo interno e veniva utilizzato dalla gente per eliminare i cani randagi. Infatti, una volta che venivano qui gettate, le povere bestiole non potevano più fuoriuscirne e morivano di fame e di sete. Queste perciò ululavano e abbaiavano per giorni interi. I loro “lamenti” venivano interpretati dai bambini, ma anche dagli adulti, come voci di fantasmi e di entità misteriose.

Un ricco tesoro sotto la “Piazza”…!

Piazza B. Tafuri, foto con effetto artistico di S. F.

Secondo alcune testimonianze, da un lucernario esistente nel sottotetto del palazzo “Chiarolanza” sporgeva, fino agli anni cinquanta, una statua a mezzo busto di un curioso e strano personaggio.
Qualcuno, addirittura, guardandolo, riconosceva le sembianze di un goffo monaco. Questa figura era stata scolpita con il braccio e l’indice protesi in avanti, come per indicare un punto preciso, posto nel centro della Piazza B. Tafuri. La credenza popolare asseriva che questa statua volesse ricordare ai posteri che lì, proprio in  mezzo alla piazza principale, vi fosse sepolta un’antica vasca, nel cui interno si celasse un ricchissimo tesoro! Chissà se questa leggenda ha qualche legame con quell’ipotesi che fa derivare il toponimo di Piscinola da un’antica vasca o cisterna dell’acqua…!

Il furto della statua d’argento del Salvatore

 Si racconta che molto tempo fa nella chiesa di Piscinola esisteva una statua d’argento del SS. Salvatore. Una notte vennero i ladri e la portarono via su un carro, trainato da cavalli molto veloci. A metà strada, però, i cavalli si fermarono e non volevano più proseguire la corsa, forse per il peso del carico aumentato miracolosamente a dismisura…. Uno dei ladri, dopo varie insistenze, non riuscendo a riprendere la corsa, si rivolse verso la statua ed esclamò: “Ma sì Santo ‘o sì diavule…?” (Sei un Santo oppure sei un demonio?), al ché i cavalli subito ripresero velocemente la fuga, raggiungendo la meta prefissata dai ladri. Si dice che poco tempo dopo il bandito blasfemo morì dannato, dopo aver molto patito…!

La leggenda della marchesa di Rutigliano

La masseria di via Vecchia Miano, prima dell'abbattimento, 2002

Dopo l’effimera Repubblica Partenopea dichiarata nel 1799 e la breve restaurazione borbonica, il Regno di Napoli fu occupato dalle truppe francesi di Giuseppe Bonaparte, cugino di Napoleone.
I Francesi, una volta insediati nell’ex Regno delle Due Sicilie, iniziarono una dura e spietata opera di repressione, specie nei confronti dell’aristocrazia e del clero, secondo i dettami della Rivoluzione Francese. Molti furono i nobili catturati e mandati al patibolo o alla ghigliottina. Alcuni di essi, vicini alla famiglia regnate, riuscirono però a fuggire, riparando in Sicilia, che intanto era rimasta nelle mani del re Borbonico. Forse anche nel nostro territorio questo mutamento politico-amministrativo ebbe delle conseguenze storiche pesanti. Secondo un antico racconto, un po’ leggendario, la marchesa di Rutigliano (o Rovigliano), che abitava nel suo casale di campagna in Via Vecchia Miano, preferì la morte, anziché essere catturata e giustiziata sul patibolo dai “giacobini”. All’approssimarsi dei Francesi, in preda al terrore, si lanciò dal balcone della sua residenza, gridando: “…Arrivano llì Francesi, …arrivano llì Francesi…!!

Qualcuno scrisse: “Viva i garibaldini”…!

Via del Salvatore, lato chiesa
Una scritta anonima, tracciata con vernice rossa, richiamava la frase patriottica di “VIVA I GARIBALDINI” e si poteva leggerla ancora chiaramente, fino alla metà degli anni ’80, sull’imponente muro di tufo in Via SS. Salvatore. Una volta demolito il muro, intorno al 1988, la scritta è entrata a far parte a pieno titolo tra i misteri e le leggende che accompagnano la storia di Piscinola. Nessuno sa dire con certezza se essa sia stata scritta per mano di qualche filo-garibaldino piscinolese che, nel lontano 1860, acclamò in questo modo la venuta di Garibaldi a Napoli, oppure fu uno slogan elettorale del partito “Fronte Democratico Popolare”, scritta forse durante le elezioni politiche del 1948, quando questo partito presentò come suo emblema elettorale il volto Garibaldi. Il mistero resta…!

Uno sciopero al rovescio…!

Targa toponomastica in via Plebiscito a Piscinola
Questo episodio, alquanto atipico, è accaduto al principio degli anni cinquanta in Via Madonna delle Grazie. Un gruppo di giovani piscinolesi, disoccupati, pensarono bene di inscenare una forma di protesta, per attirare l’attenzione delle forze politiche sul loro bisogno di lavoro. 
Invece di organizzare la consueta manifestazione di protesta, con blocchi e slogan per le strade, come siamo abituati ai nostri tempi (anche perché allora era modesto il numero di autoveicoli circolanti), pensarono di mettersi a lavorare gratuitamente al servizio della collettività. Ripararono a loro spese il selciato della Via Madonna delle Grazie che si trovava in pessimo stato di conservazione (allora la strada aveva ancora i caratteri di una “cupa”). Se si adottasse anche oggi questa brillante iniziativa per protestare, oltre a non avere i soliti blocchi stradali, di cui siamo purtroppo anche vittime, ci troveremmo di fronte a manifestazioni pacifiche e utili alla collettività. Ma forse a quei tempi la vita si svolgeva secondo altri canoni e con altre concezioni sul significato di rispetto civico...

“Aspetta, ca dimane t’ ’o ddico …!”

Portale ligneo del palazzo de Luna d'Aragona
Si racconta che un vecchio piscinolese non sposato (zito), che viveva con la madre anziana, una sera fu coinvolto casualmente in una rissa, che si accese in un locale da gioco di Piscinola. Costui, mentre cercava di far da paciere, fu selvaggiamente pugnalato. Tornato a casa, la madre si accorse del suo stato e iniziò a supplicarlo di dire chi era stato a pugnalarlo. Egli, incurante della gravità della ferita, che intanto sanguinava abbondantemente, disse impassibile alla madre, di non preoccuparsi e che le avrebbe raccontato tutto con calma il giorno seguente. Pare che esclamò, dicendo: “Aspetta, ca dimane ‘a matina t’ ’o ddico…! L’uomo, purtroppo, morì nella notte. Da allora è rimasto il detto: “Faje comm’ ’a chillo ca dicette: aspetta ca dimane ‘a matina t’ ’o ddico…!

Un incontro reale: la regina Elena di Savoia e due contadinelle di Piscinola!!

La regina d’Italia, Elena di Montenegro, ebbe a soggiornare spesso nella Reggia di Capodimonte. Si sa che quando era a Napoli prendeva lezioni di dialetto napoletano, perché pensava che i re e le regine dovevano parlare i dialetti dei loro sudditi come lingua propria... Era amante della cultura partenopea, anche perché, prima che diventasse regina, ebbe il titolo di “Principessa di Napoli”.

Palazzo reale e parco (bosco) di Capodimonte, 1964
Si racconta che la Regina un giorno si recò per una passeggiata nella parte della Reggia di Capodimonte, che era chiamata il “Boschetto” e, lungo il tragitto, incontrò due contadinelle di Piscinola, che erano prese a estirpare l’erba in una radura. Pensò di sperimentare con queste donne il livello di acquisizione del “suo” dialetto; si fermò e chiese loro: “Che facitè…?” Esse levarono il capo da terra e una le rispose: “Signò, scippamme l’éverà” (“Signora, stiamo estirpando l’erba”). Lei continuò chiedendo: “A che ora site venute?” (Da quanto tempo siete qui?) e queste risposero: “Da quanno fa juorno” (Dall’alba) e poi ancora: “Quando ve ne andrete?” e loro: “Quanne fa notte” (A notte). Elena chiese ancora quanto guadagnassero per un lavoro così lungo e pesante e le ragazze risposero che guadagnavano soltanto dodici soldi al giorno“E’ poco, è poco, poverette!” esclamò Elena. Ella poi aggiunse: “Torno subito”. La regina Elena rimase affascinata dalla semplicità di quell’incontro. Rincasò nella Reggia e poco dopo fece ritorno nello stesso luogo, portando con sé un sacchettino di confetti, che distribuì alle due donne. Riflettendo ad Elena parve curioso elargire soltanto dei confetti e così aggiunse anche del denaro, che le ragazze accettarono volentieri. Continuò, quindi, a conversare piacevolmente, stando seduta tra le ragazze. Dopo poco queste compresero, molto stupite, che stavano parlando a tu per tu con la regina d’Italia in persona! 

Salvatore Fioretto 

Il racconto della regina Elena è stato liberamente tratto dal racconto contenuto nel libro “Elena e Vittorio. Mezzo secolo di Regno tra storia e diplomazia”, di  G. ARTIERI e P. CACACE. Ediz. Luni, anno 1999. Si ringraziano sempre gli amici Natale Mele e Pasquale di Fenzo per la loro generosa collaborazione, presente e passata.

 

 

 


sabato 17 ottobre 2020

Correva l'anno 1779... Una passeggiata lungo la linea dell'Arrendamento...


Le tasse e i balzelli sono stati sempre avvertiti dalla popolazione dei secoli passati come una vessazione opprimente e poco digeribile, specialmente dai popolani appartenenti agli strati più poveri e indigenti della società. La città di Napoli ebbe però l’antico privilegio, a partire dalla dominazione Aragonese, di avere l’esenzione dalle tasse, con la sola eccezione del cosiddetto “donativo”, ossia della richiesta di finanziamento avanzata dagli occupanti per rimpinguare le casse reali, oppure di quelle spese necessarie per la manutenzione straordinaria della cortina muraria della città. Questa esenzione dalle tasse demaniali, come è noto, fu estesa anche ai Casali circonvicini alla Città che si trovavano nello stato di “Casale Demaniale o Regio”. I Casali baronali, invece, erano sottoposti alla tassazione dei feudatari.
Queste tasse, che oggi diremmo “imposte indirette di consumo”, erano legate al commercio di alcune derrate e alla fruizione di servizi ed erano raggruppate nei cosiddetti “Arrendamenti” (l’etimologia  del termine deriva da “appaltare la rendita”) a cui facevano capo delle vere e proprie amministrazione con responsabili, deputati all'applicazione delle disposizioni (Prammatiche) e alla raccolta delle somme (
Esazione degli estagli). Dell’esistenza degli Arrendamenti nel regno di Napoli si hanno tracce fin da periodo Normanno-Svevo, anche se lo sviluppo maggiore si ebbe durante il periodo vicereale spagnolo.

Vicerè Petro Tellez Giron, duca di Osuna

Con il trascorrere dei secoli la raccolta delle tasse fu data in concessione o appaltata ai privati, che spesso erano famiglie facoltose o membri della aristocrazia cittadina e pertanto gli stessi balzelli erano gravati anche dal costo del servizio di raccolta prestato e dagli utili reclamati. L’Assegnazione del servizio (privative) avveniva attraverso bandi pubblici. Quando le gare andavano deserte, il demanio si faceva carico della riscossione dei dazi, nominando un responsabile, in tal caso si diceva “Arrendamendo in Demanio” e il funzionario  chiamato “Governatore del Regio Arrendamento del…”. Anche nell’arrendatore in privativa, il responsabile era chiamato “Governatore”; era inoltre presente un consiglio di amministrazione che lo nominava. Il governatore (che potevano essere anche più di uno), durava in carica dai quattro ai sei anni. L’organizzazione interna prevedeva anche una figura di notaio, e dei luogotenenti: un "vicesegreto",  un "credenziero",  un "substituto", ecc.
Con la prammatica XXII del 1649 si disciplinò tutta la materia: alcuni arrendamenti furono soppressi, altri modificati, altri ancora creati ex novo. La novità fondamentale introdotta con questo provvedimento fu costituita dalla "datio in solutum", per mezzo della quale lo Stato cedette ai suoi creditori, come veri e propri titoli di rendita pubblica, le partite degli arrendamenti, riservandosi solo di ricavare da alcuni di essi un'entrata annua da destinare alla Cassa militare. Tuttavia, malgrado l'avvenuta alienazione, lo Stato continuò a mantenere un controllo preventivo e ispettivo sull'organizzazione degli arrendamenti, dati gli ovvi risvolti che il loro andamento esercitava sul fisco, sui banchi e sull'intera vita economica del paese.
Tra i tanti Arrendamenti, all’epoca esistenti, ricordiamo quello più importanti: della farina (Panizandi), del vino, delle carni  (Macellatico), dei latticini e formaggi (Cacia), dell’olio, della seta, dell’acquavite, del sale, del tabacco, della pece, del ferro, delle carte da giuoco, della frutta, del Pane a rotolo (pane a minuto), ecc. e quelli dei servizi, ad esempio: del pascolo (Erbatico), della famiglia (Focatico), degli spazi della città (Portolania) e tanti altri ancora. Come si potrà immaginare, la popolazione era stremata da questi balzelli, e non era infrequente il verificarsi di tumulti e di rivolte a causa dell’aumento dei dazi; tra queste la più famosa e cruenta è stata la rivolta di Masaniello. Molti, poi, erano coloro che cercavano di evitare di pagare questi balzelli, attraverso la pratica del contrabbando e il passaggio incontrollato delle merci tra i confini poco controllati.
Altra problematica fu l’elusione di alcuni cittadini, compiuta sfruttando abilmente l’ambigua e poco esatta determinazione del confinamento territoriale tra la Capitale e i Casali non demaniali, ossia la zona soggetta alle tasse da quella invece che ne era esentata. Questa linea di confine fu, nei decenni a cavallo dei secoli XVII e XVIII, più volte verificata ed evidenziata fisicamente, in particolare da parte dei governatori degli Arrendamenti della farina e del vino.

Furono elaborate delle dettagliate mappe colorate e furono apposti ex novo dei termini identificativi (picchetti) ben visibili e inamovibili. Non mancarono querelle e contestazioni contro i  governatori dell’Arrendamento, da parte dei proprietari di edifici e di masserie che si dichiaravano situati nella parte esentata; come, ad esempio, la protesta formulata dalle masserie di San Giovanni a Carbonara e di S. Agostino della Zecca, entrambe situate nel tenimento del Casale di Marianella. Tra gli elaborati grafici, detti “tavolari”, che furono redatti in quell’epoca, troviamo: il Tavolario d’Urso, (anno 1698), il Tavolario di Biaggio Zizza (anno 1712) e il Tavolario di Manni (anno 1733), Tutti questi personaggi eseguirono la identificazione della linea di confinazione apponendo dei "termini" fissi, senza però elaborare una mappatura su carta, come era state richiesta dai governatori degli arrendamenti del vino e della farina. Ovviamente con il trascorrere dei decenni questi "termini" venivano divelti a seguito di incidenti con i carri o volutamente spostati... 
Vicerè Pedro Fernandez de Castro, conte di Lemos
Poiché la controversia restava sempre attuale e accesa, i governatori dell’Arrendamento della Farina, nell’anno 1776, affidarono l’incarico di elaborare un nuovo Tavolario (Platea) all’ing. Camerale Giambattista Porpora. Questo topografo tre anni dopo, nel 1779, concludeva brillantemente l’incarico, con l’elaborazione di una poderosa mappatura della confinazione del "Distretto" della Città di Napoli e dei Casali, e una relazione manoscritta che descriveva con minuzia le strade dei confini, misurandole in “passi”. 
L’opera originale è oggi conservata nella Biblioteca della “Società di Storia Patria” di Napoli. Purtroppo è andata persa la mappa generale, mentre sono pervenute le sedici mappe minori, indicanti gli esatti confini topografici della Capitale con i territori dei tredici casali limitrofi (Portici, Barra, Ponticello, S. Pietro a Patierno, Secondigliano, Miano, Piscinola, Polvica, Chiajano, Marano, Pianura, Soccavo).

Ecco la descrizione integrale della confinazione dell’Ing. Giambattista Porpora per quanto riguarda Secondigliano, Miano, Marianella, Piscinola, Polvica e Chiajano. L'opera si intitola "Premessa alla Configurazione dalla Città di Napoli e i suoi casali per l'Arrendamento della farina", datata 28 giugno 1779.

V. Confinazione col casale di Secondigliano.- Dal detto termine 34.º (dalla descrizione della precedente confinazione, riguardante il Casale di San Pietro a Patierno - n.d.r.) camminandosi verso la sinistra per la via Regia di Caserta , tra occidente e mezzogiorno, si giunge nella croce di Capo di Chio, donde lasciando a destra la via Regia che porta in Aversa e quella che conduce in Arzano e la via Regia a sinistra per cui si viene in Napoli , e proseguendosi il cammino quasi a dritto per la cupa detta di S. Felice o di Miano nella direzione di occidente , nel di cui angolo a destra sono le case di D. Salvatore Caruso e nell'angolo a sinistra quelle del patrimonio di D. Camillo Sanfelice, in una delle quali sta situata la sbarra di detto Arrendamento, dopo passi 76 si giunge nel termine 35.º piantato nella fine del muro che chiude il territorio dello stesso signor Caruso a fronte di detta cupa . Seguitandosi indi per la stessa cupa verso occidente , dopo passi 109, incontrasi il termine 36.º situato nel piede della siepe del detto territorio in petto all'angolo del muro del territorio di Sanfelice . Indi rivoltando a sinistra e camminando verso mezzogiorno lungo il muro , che divide il territorio suddetto da quello dei signori Vecchione , dopo passi 137 1/2 , si cala con diverse direzioni nel Cavone di Miano o sia letto della lava , in cui nella fine del riferito muro è situato il termine 37.º Da questo girando a destra e camminando verso occidente per il suddetto Cavone , dopo passi 110 , si giunge nella cuparella a destra denominata di S. Cesareo , ove termina questa linea di confinazione tra il Ristretto ed il casale di Secondigliano .

VI . Confinazione col casale di Miano.- Dalla cennata cuparella di S. Cesareo proseguendosi tortuosamente il cammino per lo stesso letto della lava , che costeggia il muro del Real Bosco di Capodimonte , mediante varie direzioni e il lungo tratto di passi 870 si giunge al 38.º termine piantato in mezzo al medesimo letto di lava , propria mente nel luogo detto la Croce di Miano all'incontro il casamento del Marchese Valdetaro, dove stà situata la sbarra dell'Arrendamento, l'osteria ed altri bassi per uso di abitazione , ed indi seguitandosi a camminare verso la sinistra per il medesimo letto della lava colla direzione di occidente , dopo passi 85, si giunge in un bivio , donde lasciando si lo stesso letto di lava a sinistra e proseguendosi il cammino per la via pubblica a destra che conduce nel casale di Piscinola secondo la direzione di settentrione, nell'angolo della quale via sta situato l'arco di fabbrica, chiamato arco di Piscinola , mediante la di stanza di passi 55 s'arriva nella prima via a sinistra , che termina in un vallone d'acqua, che passa per sotto il ponte di fabbrica , denominato anche di Piscinola , per la quale via camminandosi verso occidente dopo passi 60 si giunge nel confine tra la massaria Sorrentino e quella del signor Paziente, oggi Marchese Valdetaro. Di là seguitandosi a camminare per la stessa via e poi per il vallone d'acqua che la sussegue nella direzione d'occidente , dopo passi 80, si giunge sull'anzidetto ponte e proprio nella via pubblica che a sinistra porta nella Cappella di S. Rocco ed a destra conduce a Piscinola ; nel qual ponte termina la linea di confinazione tra il Ristretto di Napoli ed il casale di Miano. 

VII . Confinazione col casale di Piscinola. - Dal detto ponte rivoltando a man de straper la via pubblica , che porta a Piscinola, nella direzione di settentrione, dopo passi 85 , si trova a man sinistra la via per cui si va a Marianella , ed indi dopo passi 215 si giunge in un bivio , donde lasciandosi la via di Piscinola e proseguendosi per quella a sinistra che anche porta a Piscinola ma colla direzione d'occidente , dopo passi 95 , si trova la prima via pubblica a man destra, e poi dopo altri passi 55 si arriva nella seconda via pubblica anche a destra , le quali ambedue portano a Piscinola e rinserrano il giardino colla casa e cappella del Principe di Luna, ove termina la linea di confinazione tra il Ristretto di Napoli ed il casale di Piscinola .

VIII . Confinazione col casale di Marianella.- Dalla casa del Principe di Luna proseguendosi il cammino in direzione d'occidente dopo passi 84 si giunge nel confine della massaria dei PP. di S. Giovanni a Carbonara , che passa al di dietro dei bassi situati alla sinistra di detta via pubblica , camminandosi lungo il qual confine nella dire zione di mezzogiorno dopo passi 40, ed indi rivoltando a destra e seguitando a camminare per lo stesso confine , secondo la direzione dell'occidente , dopo passi 21 , si arriva all'angolo esteriore della casa rurale di detta massaria a fronte della via pubblica che dopo passi 41 in direzione di mezzogiorno s'incontra nell'altra via pubblica , che a destra porta a Marianella ed a sinistra va ad uscire nella via Regia che viene da Capodimonte. Dal l'incontro di dette due vie pubbliche girando a sinistra e camminando nella direzione tra mezzogiorno ed occidente per la via pubblica a sinistra s' incontra dopo passi 195 quella per cui s'esce alla Cappella di S. Rocco ed indi per altri passi 200 nella stessa direzione s'esce nella via Regia che viene da Capodimonte e proprio rimpetto all'osteria, chiamata volgarmente del Portone , ove termina la linea di confinazione tra il Ristretto di Napoli ed il casale di Marianella .

IX .  Confinazione col casale di Polvica.- Dalla cennata osteria camminandosi tra oriente e mezzogiorno per la via pubblica , che radendo l'osteria medesima va ad uscire alla Caracciola , dopo passi 30 , s’incontra anche la via pubblica a destra che porta a Polvica , donde rivoltandosi e per essa proseguendosi il cammino , prima tra mezzogiorno ed occidente , poi con varie altre direzioni , si giunge per un tortuoso e lunghissimo tratto di strada di passi 620 nella Cappella detta di S. Maria a Toscanella a sinistra di detta via ed a fronte di un bivio , che a sinistra porta a S. Croce ed a destra a Polvica, donde camminandosi per quella a destra nella direzione di occidente , dopo passi 15, si giunge nel pontone della massaria di Giuseppe Cerullo e proprio nella via a sinistra, che conduce nelle massarie , per la quale camminandosi tra mezzogiorno ed occidente per passi 50 s' arriva nella siepe a destra di detta via che divide la massaria dei PP. Teresiani da quella della Duchessa di Minervino , ove ascendendosi da detta via nelle riferite massarie e camminandosi lungo la detta siepe verso occidente e poi con altre direzioni si giunge per passi 160 in fine di detta siepe e proprio a fronte della via che da S. Croce va a Polvica. Calandosi in detta via e seguitandosi per la medesima verso la sinistra per passi 60 nella direzione di mezzogiorno si giunge nel principio della siepe a destra di detta via , la quale divide la massaria di Bernardo de Cristofaro da quella di D. Pasquale Balsamo, accosto la quale caminandosi tra mezzogiorno ed occidente , dopo passi 130, si giunge alla fine di essa siepe attaccata alla casa di Balsamo a fronte dell'altra via che da S. Croce porta anche a Polvica. Da detta siepe calandosi nella via pubblica e seguitando il cammino a destra , prinia in direzione di settentrione per passi 5 e poi in direzione tra settentrione ed occidente per passi 165 , si arriva alla casa di D. Gaetano Micale e poi dopo altri passi 170 nella fine della siepe che divide la massaria di Micale dalla selva di D. Giuseppe Ametrano , chiamata lo Parmentiello, a fronte del cavone detto dello Pesaturo . Nell'incontro di detta via pubblica col suddetto cavone termina la linea di confinazione del Ristretto di Napoli col casale di Polvica. 

X. Confinazione col casale di Chiajano.- Dall'incontro del detto cavone colla via , che da S. Croce va a Polvica , camminandosi per lo stesso cavone o sia via devastata , per cui anticamente s'andava a Chiaiano , nella direzione d'occidente , e poi con altra direzione dopo tortuoso , disagevole e lungo sentiero di passi 500, si giunge nel monte detto dei Vitro , donde girando a destra e salendosi per il vallone della Contessa verso occidente , costeggiando sempre il confine della selva degli eredi Colangelo , mediante passi 120, si giunge in una via pubblica , per la quale camminandosi s' incontra dopo piccol tratto il confine tra la stessa selva e quella del Principe di Castagneto, donde proseguendosi il cammino lungo la detta siepe verso occidente, mediante passi 110, si trova un canale d'acqua, che divide la selva del monastero del Gesù delle Monache da quella dei PP. Certosini , detta la Rotondella , per il qual canale seguitandosi nella stessa dire zione , dopo passi 150 , si giunge nella via pubblica della Piscinella , situata in pie della selva dei PP. Camaldolesi denominata di S. Caterina e proprio nel 39.º termine pian tato in detta via . Da questo proseguendosi il cammino per dentro la selva chiamata di S. Caterina nella direzione d'occidente , dopo passi 160 , s'esce nella via sopra la stessa selva , detta anche di S. Caterina e proprio all'incontro della Cappella sotto questo ti tolo , ove è situato il 40.º termine poco distante da una pescina di fabbrica mezzo di ruta . Da questo termine camminandosi verso la sinistra per l'anzidetta via nella dire zione di mezzogiorno , dopo passi 31 1/2 , si trova il 41.º termine nell'angolo della stessa selva di S. Caterina , che vien formato dalla detta via e dall'altra che incontra quasi ad angolo retto , la quale da Marano porta a Napoli e proprio rimpetto all' angolo della massaria prima Palermo e poscia Franchini . Nell'incontro di queste due vie pubbliche termina la linea della confinazione tra il Ristretto di Napoli ed il casale di Chiaiano.

Questo post che abbiamo pubblicato è un’altra rara testimonianza storica del nostro territorio, e descrive come esso appariva circa tre secoli fa, precisamente negli anni 1776-79. Un luogo ameno, pieno di verde e con tanti paesini (Casali) sparsi in mezzo ad una verdeggiante e fitta vegetazione. Quello che colpisce ancora di più, in questa descrizione del territorio, è la presenza di manufatti e opere oggi non più esistenti, tra cui ponti, archi di fabbrica, cuparelle, masserie, cappelle e chiesette.

Salvatore Fioretto