domenica 11 aprile 2021

Intervista ad una anziana di Piscinola, il 1 maggio 2013...

Piazza B. Tafuri, Congrega e edificio T. Tasso. Creazione grafica di S. Fioretto
In quel primo maggio
2013, giorno di festa civile, al tramonto, passeggiando nel centro storico di Piscinola, in compagnia di una cara amica, incontrammo questa signora anziana, che stava fuori alla sua casa, che era un'antica abitazione con cortile e stanze, al piano basso e al piano superiore; ella ci ospitò con molto entusiasmo, facendoci accomodare nel suo bel cortile, su delle sedie di paglia, e li' ci regalò questa bella e particolare testimonianza della sua adolescenza e quindi della vita a Piscinola negli anni '40 e '50 dello scorso secolo. Ecco il racconto. Tra le parentesi sono riportati dei commenti e delle precisazioni per la pubblicazione.

"Nel 1943 morirono a Piscinola 12 bambini per un bombardamento in vico Primo Plebiscito, mentre due bambini morirono in via Vecchia Miano, a causa dello scoppio di mine che i bambini avevano accidentalmente trovato e fatti esplodere durante i loro giochi. Nell'incidente di via Vecchia Miano un terzo bambino fu ferito, perdendo un occhio.
Palladino Domenico abitava in via Vecchia Miano nel palazzo detto della “Meza capa” (palazzo Di Febbraro), assieme ad altri partigiani, inseguirono un tedesco, il quale salì nell’appartamento, e si nascose sotto il letto, ma nello scontro si spararono a vicenda e morirono insieme (secondo le cronache, in uno stabile in via Vittorio Veneto). Un altro piscinolese, soprannominato "‘o zuoppo", rimase ferito, perché si trovò in mezzo a una sparatoria tra tedeschi e partigiani.
La Piedimonte fu bombardata nella stazione di Secondigliano e ci furono i morti.
Durante la Guerra, con la mia famiglia, assieme a tanti altri, ci recavamo in un rifugio ricavato "dint’o Monte", detto così perchè questo rifugio era stato ricavanto in una cava abbandonata, situata in località Boscariello: stava appena dopo l’incrocio, scendendo, sulla destra della strada, da lì si accedeva al rifugio antiaereo.

La signora maestra Altamura era di Calvizzano e veniva alla scuola Tasso con il treno della Piedimonte. Anche le altre maestre venivano con la Piedimonte, molte da Aversa. Le mie due maestre si chiamavano Vastarella e…(non ricordava il nome). Molte insegnanti dormivano nella casa costruita nell’ex giardino della Piedimonte e lì facevano anche doposcuola.

Palazzo Villa Vittoria, detto "Grammatico" (Foto di repertorio)

Padre Juvè era un monaco (era un gesuita) che organizzava le Missioni, ogni volta metteva le croci in ricordo di quei raduni, come sotto al campanile della chiesa di Piscinola e su via Napoli a Marianella. Convertiva le persone e andava a convincere le persone che si riunivano nei luoghi di gioco ad abbandonare il vizio e a partecipare alle funzioni liturgiche in Chiesa.
Ricordo il vecchio parroco Carandente, originario di Calvizzano, aveva una grande ferita alla testa come il segno di una croce… Poi vennero i due Ferrillo. Angelo, divenuto parroco, e il fratello (era invece il cugino, anche lui di nome Angelo) …., detto “’o piccerillo”, che poi andò a fare il parroco nella parrocchia di Chiaiano.
Con il treno della ferrovia Piedimonte si andava fino a Piedimonte, sotto alla montagna del Matese, dove c’era un tram (?) che portava sul lago del Matese. Spesso ci recavamo anche a Caiazzo. "Come era bello e comodo quel treno, che peccato che lo tolsero da mezzo!".

Stazione di Giugliano, foto di H. Roherer, 1972

Durante la festa del Salvatore la giuria dei fuochi si metteva sul terrazzo della scuola elementare Torquato Tasso. I fuochisti erano 6, allora erano molti e di più dell’odierna festa del Cuore di Gesù di Mugnano: loro hanno copiato da noi…! A Piscinola venivano per vederli molte persone, anche da fuori Napoli. Erano belli i fuochi, la gente di Piscinola concorrevano tutti alle spese, perche ci tenevano al SS. Salvatore e al loro paese. Non spendevano i soldi per cose inutili e i soldi ci stavano…!
Il lunedì facevano la vendita all’asta e i fuochi. Il martedì c’era il concertino. Prima al concertino partecipavano solo i cantanti maschi, poi, man mano, si aprirono anche alla partecipazione di cantanti donne, vennero: Gloria Cristian, Angela Luce, Maria Paris;  tra i cantanti uomini vennero a cantare: Aurelio Fierro…..
A Pasquetta andavamo alla festa dell’"Archetiello" a Miano, dove si compravano giocattoli semplici e poco costosi. Spesso si ci allungavamo anche alla chiesa che stava giù al Cavone.
Festeggiamenti della Madonna di Loreto in vico Operai, anni '50

Ogni zona di Piscinola aveva una sua festa: ‘o Capo 'a Chianca: il Crocifisso e facevano anche la funzione del Crocifisso; 'a Madonna delle Grazie: la festa della Madonna e facevano ’a funzione di Campoleone; ‘o vvico ‘a Pagliaro: la Madonna de Loreto; ‘o Capo ‘e Coppa: il SS. Sacramento e ‘Mmieza ‘a Piazza: l’Addolorata. Abbascio Miano si festeggiava la Madonna del Carmine e S. Anna. Durante ogni festa si faceva una grande processione, dove i soci delle varie associazioni si vestivano tutti uguali, in abito nero e portavano i fiocchi dello stendardo. Quello del Crocifisso indossavano, come distintivo, oltre a un crocifisso al collo, anche una lampadina rossa all’occhiello.
Con la mia famiglia coltivavamo ben 33 moggi di terreno a Scampia (equivalente della superficie di 10 ettari) e vi accedevamo attraversando via Cupa Acquarola. Il proprietario era un certo sig. Frignano, presidente della Cassa del Mezzogiorno e della Banca dei Paesi Vesuviani. Era chiamato "‘o Signore d’’a terra".  La mia famiglia aveva anche diversi appezzamenti di terreno di proprietà, che dicevamo "‘a terra franca". Il terreno della fondazione Ruggero non fu donato, ma venduto alla fondazione da Ruggero(?), perché i proprietari delle campagne erano tutti “tirati”, e non donavano niente a nessuno!
Spesso portavo liberamente il maiale per le strade, attraversando via Cupa Acquarola e, giunti in campagna, gli davo da mangiare "'e papagne" (dei papaveri) ed altre erbe. Si diceva anche il detto: ‘a ll’Annunziata leva ‘o puorco ‘a dint’’o pprato!
La mucca, quando la portavamo a montarla, si diceva: "porta'’a ‘ntaurà” 'a vacca" (il termine deriverebbe da "tauros"= toro). La gestazione della mucca durava nove mesi e dopo il parto avveniva l'allattamento del vitello; la mucca si faceva accoppiare di nuovo, dopo un anno. Durante la gestazione, la mucca produceva il latte, anche se in quantità ridotta. 
Il latte si beveva appena munto ed era ancora caldo. Mio fratello si fece fare un secchiello dallo stagnaro, detto "Zichibbacco", ricavandolo da una lattina, detta "buatta" e mettendoci anche un manico. Oggi ognuno beve in un bicchiere diverso, e guai se si sospetta che qualcuno l’ha utilizzato, se ne prende un altro pulito…! Prima si beveva tutti in un unico contenitore, conoscenti e estranei, e nessuno mai si è infettato o ha preso malattie...!
Raccolto della Canapa, foto nelle campagne del Casertano

In campagna, seminavamo il granoturco, dopo l'avvenuta raccolta del grano. Si chiamavano i portatori di buoi, con il "prussiano", (aratro) per fare "porche" (solchi). Noi, che seguivamo i buoi, seminavamo i chicchi di granoturco. I buoi venivano da un paese di Caserta.
La Canapa si seminava sul terreno, dopo averlo zappato e "schianiato" (terreno livellato e appianato dalle zolle), a tale scopo tiravamo a mano il "mangano" (una specie di erpice) e nei solchi che si facevano, seminavamo i semi della Canapa. Io ero bravissima a seminare i chicchi, non ne sprecavo nemmeno uno, tutti sistemati nei piccoli solchi formati. Poi i semi si coprivano di terreno, facendo uso dei nostri piedi. Infine, passavamo sulla superficie di terreno un fascio di rametti di erba selvatica, chiamata "‘e fetiente", che uniformava il tutto e rendeva fine la superficie, perché così era richiesto per la coltivazione della Canapa, questo per poter fare germogliare facilmente i semi.
Messa a macero della canapa ai Lagni:i massi appesantivano i fusti in acqua

Quando si raccoglieva la Canapa, la portavamo a macerare ai Lagni (Regi Lagni) e, poi, una volta mecerata e seccata, era riportata nell'aia della nostra masseria, dove si estraevano le fibre dal tessuto degli steli; mentre con “i capizzi”, ossia i fusti della Canapa, si formava il “letto”, sul quale erano messe le mele annurche a maturare e, poi, dopo l'utilizzo, si bruciavano nel camino.
Io spesso estraevo dalle matasse un po’ di Canapa e la portavo a farla tessere nel palazzo Chiarolanza, dove c’erano "‘e vicchiarelle", che avevano un telaio e tessevano dei teli. Non ricordo della produzione del lino a Piscinola.
Nella nostra campagna seminavamo anche i ceci che non venivano alti, ma erano come i piselli nani, però si metteva lo stesso dei supporti in legno per reggerli; i ceci si ricavavano dai baccelli, come avviene per i piselli.
Prima non c’era il frigorifero e per la conservazione durante l'inverno si seccava al sole tutto il raccolto durante l'estate. Con le fave piccole, dette "‘e favielli", oltre a essere utilizzati per concimare la terra, si seccavano e si cuocevano in inverno. I zucchini si facevano a fette e pure erano esposti al sole per essere seccati, erano chiamati "‘e felle".
Anche i pomodori e i peperoni si seccavano e si conservavano per l’inverno, ridotti in polvere. I pomodori si conservavano soprattutto attraverso la produzione di conserve, riempiendo delle bottiglie.
L’urina raccolta nelle stalle, dentro un pozzetto interrato chiamato "pisciniello", era trasportata nei campi, a spalla, dentro un contenitore di legno (detto ‘o varricchione), sostenuto con un asse di legno da due portatori e serviva come concime delle colture
(elemento ricco di azoto e potassio).
Durante i lavori nei campi, agli operai si cucinava "pasta e patate" o "pasta e fagioli" e quindi si portava il pasto in un'unica "zuppiera", racchiusa in un telo. Dalla "zuppiera" mangiavano tutti insieme, ognuno con una propria posata. Si beveva in una grande otre ("mummara") di terracotta, detta "aulara"
(altri chiamavano "‘o Zerretiello"), che era anche molto pesante da portare. L’acqua si manteneva fresca, anche con il caldo estivo.
Chi restava a casa, durante la settimana, mangiava "pasta e patate", "pasta e fagioli", a volte "pasta e ceci", broccoli lessi, rape lesse, e altri piatti semplici. Spesso nel forno a legna si cuoceva un "ruoto di patate" (patate al forno), con l'aggiunta di sugna: non si crederà, ma l’odore genuino e accattivante si diffondeva per tutta Piscinola…!!
Si cucinava condendo le pietanze sempre con sugna e lardo, pochissime volte si utilizzava l’olio d'oliva. Nessuno aveva il colesterolo alto e altre patologie…!
La carne si mangiava solo la domenica e sembrava veramente una festa: Allora si vedeva che era domenica…!.
La pasta si faceva in casa con farina e uova, e si formavano "le pettule"
(specie di sfoglie di pasta per fare delle fettuccine).
Stazione di Santa Maria C. Vetere, S. Andrea de Lagni
Poi si tagliavano e si mettevano a seccare su un asse di legno, appoggiato tra due sedie. Si preparava il ragù mettendo dentro due salsicce di maiale. L’olio  era utilizzato qualche volta e si andava a prenderlo a Caiazzo.
Nel forno a legna, dopo aver sfornato il pane, si mettevano a cuocere anche le cotogne e le mele.
La "quagliata" era un formaggio molto liquido, realizzato con il latte avanzato; questo formaggio si rapprendeva mettendo dentro il "caglio". Il "caglio" ci veniva dato dai caprari, e in cambio noi li facevamo accedere
nelle nostre terre, per far pascolare le loro pecore e capre. Il "caglio" era usato un poco alla volta, ogni volta che si faceva il formaggio della "quagliata". Sovente la "quagliata" si portava anche nei campi e si mangiava in mezzo a due fette di pane.
Spesso, quando si era nei campi, anche i pomodori si mangiavano schiacciati in mezzo al pane. Non si lavava niente!
I ravanelli si raccoglievano dal terreno, si pulivano, strofinandoli sui vestiti e si mangiavano così… Oggi invece utilizzano l’Amuchina per disinfettare…, hii!
Non esistevano i frigo, la roba si metteva al fresco, nel pozzo. Oggi vanno a vedere le scadenze delle uova, allora si raccoglievano nei pagliai a decine e decine e mica si sapeva di preciso da quando stavano in quel luogo…?
Le nostre mele, dette "Austegne", erano molto saporite, e maturavano a fine di agosto: erano piccoline, bianche, con macchioline rosse. Non si sono viste più da anni...!
Seminavamo una qualità di patate che erano dette "Ghianculelle", avevano la pasta bianchissima, che non si sono viste più da allora! C’erano anche la qualità dette "‘e Riccioni".
Le patate per la semina non si compravano, ma ogni anno si conservava una certa quantità, di ogni qualità, per utilizzarle nella semina dell’anno seguente.
Con uva "Tindarella" usavamo colorare e dosare il vino. Il vino era buono e durava tutto l’anno.
Da ragazza eseguivo anch'io i lavori nei campi particolarmente faticosi, come l’irrorazione delle viti, con pompa a mano, utilizzando calce e "Verderame". Il "Verderame" e la calce si facevano sciogliere nell’acqua, dal giorno prima.
In via Cupa Acquarola molti andavano a fare i bisogni all'aperto, perché non c’erano i bagni pubblici.
Quando pioveva molti realizzavano delle specie di canalizzazioni, con piccoli argini di terreno, per incanalare quell’acqua concimata nei loro campi…
Prima il netturbino comunale
(forse anche di ditta appaltante) andava per tutte le case, con il sacco a tracolla, scendendo e salendo scale dei palazzi; i rifiuti si mettevano dentro a un carro detto "carrone", che aveva le sponde alte e si portavano via. Per avere quel rifiuto, che serviva a concimare i campi, si doveva pagare!
I rifiuti si deponevano prima in cumuli, in un posto specifico, per farli fermentare, e si diceva "'a 'ntufà"; quando erano "maturi", si distribuivano per i campi, prima di zappare (in pratica, da noi si eseguiva la raccolta differenziata e si realizzava quello che oggi chiamano "Compost", già prima della seconda Guerra Mondiale..!).
La "Maternità" in via Vittorio Veneto occupava tutto il primo piano del palazzo, lì si curavano e si visitavano le madri incinte o allattanti e i bambini piccoli. La chiusero negli anni cinquanta, perché la struttura fu spostata nel vecchio Municipio in piazza Tafuri: la nuova sede si trovava dietro la scala al piano terra del cortile"

Purtroppo, da qualche anno, la cara anziana piscinolese ci ha lasciati, resteranno di lei questi belli e nitidi ricordi, scritti e conservati nelle pagine di questo blog, per tutti coloro che vorranno leggerli in futuro.
Ciao, cara G. L.

Salvatore Fioretto

sabato 3 aprile 2021

Uno splendore di masseria, ovvero la "Masseria Splendore" di Piscinola

Alcuni anni fa ricevemmo la testimonianza di un lettore di Piscinolablog, di nome Vincenzo, che descriveva la famosa masseria chiamata Splendore, attraverso i ricordi della sua infanzia. E' l'unica testimonianza finora trovata e quindi abbiamo pensato di riproporla in questo post, sicuri di interpretare il desiderio del nostro interlocutore, che all'epoca volle farci questo prezioso dono. Al  momento purtroppo non abbiamo trovato foto di questa masseria.

La Masseria Splendore era la prima masseria che s'incontrava alla fine di via Plebiscito, dopo l'incrocio con via G. A. Campano. Andando diritto si oltrepassava il ponte della Piedimonte e alla biforcazione della cupa Perillo per Mugnano e quella che chiamavamo "la via vecchia", che era una cupa piccola che andava verso Melito e, quindi, si incontrava l'edificato della celebre struttura agricola. Oggi si troverebbe sulla rotonda di fronte all'ingresso della metropolitana che incrocia l'asse mediano che viene da Mugnano. L'ingresso aveva una grande arcata in tufo con un grande cancello di ferro (che io non ho mai visto chiuso perché malridotto. 

La grande arcata era coperta da rovi che facevano delle more spettacolari. Dopo l'ingresso, al lato destro c'erano i fienili, mentre a sinistra un'aia sopraelevata, dove si stendevano i panni, dove si mettevano ad essiccare fieno e cose varie. Dopo quindici/venti metri di vialetto in leggera salita, si arrivava al centro, dove c'era il "puoio" e un grande albero che non so se era un olmo o altro. Il "puoio" era un enorme masso di pietra lavica, con superficie piana che, oltre fare da sedile, serviva per la procedura di macellazione dei maiali. Poi c'era un pozzo, un forno, diversi pollai (uno per ciascuno delle tre famiglie che vi abitavano tra cui la famiglia di Pasquale, soprannominato "'e l'aglio".
Nel lato opposto, la masseria terminava con una via di uscita, delimitata da un cancello. Questa via attraversava dei magazzini e dei pagliai e portava direttamente nella campagna aperta, verso il "Perillo", in direzione tra Mugnano e Melito.
Sotto il caseggiato della Masseria, accessibile da una scalinata in tufo, c'era la "'rotta" (grotta), una cantina ad archi, umida (perché diversi metri sottoterra), in cui ognuno aveva il suo spazio per le botti del vino. "Pascale e l'aglio" (raccontato da Sica nel Borgo perduto), ricordo che piantava asparagi (quando nessuno li trattava), aveva un melaio di annurche depositate su canapa secca tranciata che venivano rigirate ad una ad una ogni tot giorni; vedere il colore che prendevano le mele sul biancore della canapa era spettacolo e ti veniva voglia di superare la recinzione di filo spinato, per prenderne di nascosto qualcuna.
Uno dei figli di "Pasquale e l'aglio", di nome Sabatino, di diversi anni più grande di me, è stato allievo del maestro Santoro, e suona la tromba. Non era raro sentire provenire dalla Masseria Splendore qualche melodia durante le sue esercitazioni.
Posso aggiungere, per averlo anche visto, che nella campagna coltivata da Pasquale (da ragazzino ero amico del figlio), spesso la mattina si trovavano buche scavate da tombaroli, che dopo la denuncia venivano presidiate dalle forze dell'ordine e poi dopo, penso ai conseguenti rilievi, erano ricoperte. Nella zona capitava di sovente di assistere a queste scene.
Una storia mia, che posso raccontare è questa: quando da ragazzino mi coglieva la sera ed ero ancora in campagna da solo, per tornare prendevo la "cupa vecchia", che era più bassa del livello dei terreni di almeno tre metri, e le siepi ai lati spesso avevano noccioli che si univano con le cime e facevano buio anche quando c'era giorno. Bene, a metà del percorso, su un pezzo di siepe dove la terra era venuta giù, si intravedevano dei lastroni di granito, che io nella mia fantasia di ragazzo, mettendo insieme le storie sentite, su fantasmi, tombe ritrovate, quelle scavate viste, racconti su persone che avevano trovato gioielli antichi ecc., mi figuravo che quel posto nascondesse una tomba e, quindi, con il buio, quando vi ero vicino, prendevo fiato e cominciavo a correre... E' una cosa che è durata per molto tempo della mia infanzia. 

Vincenzo

Un'altra testimonianza raccolta che descrive anche se in parte la zona della masseria Splendore, fu raccolta durante un'intervista condotta al compianto don Salvatore Nappa. Don Salvatore ci raccontò che dopo il ponte della Piedimonte, nella zona dove sorgevano le due masserie, quella denominata Splendore e l'altra che dalle mappe deduciamo che fosse denominata "Carrusiello", nel punto dove la strada di Cupa Perillo di biforcava, era presente una edicola muraria, in tufo o mattoni, con sopra l'intonaco dipinto un affresco, raffigurante una  Crocifissione. Quando espropriarono la zona per costruire la nuova viabilità, questa edicola, che si veniva a trovare sottoposta rispetto alla nuova configurazione stradale, fu interrata, senza però distruggerla.

Ringraziamo l'amico Vincenzo, che ci ha donato questo suo bel ricordo d'infanzia e cogliamo l'occasione per salutarlo e chiedere di contattarci per riprendere questo interessante argomento. Ringraziamo ancora il caro e compianto Don Salvatore Nappa.

E' l'occasione per porgere gli auguri di serena Pasqua a tutti i cari lettori di "Piscinolablog". Auguri!

Salvatore Fioretto 

sabato 27 marzo 2021

Per la rassegna: una strada, un personaggio... Emilio Scaglione, poeta e scrittore... (IV^ Parte)

Per ricordare lo scrittore Emiglio Scaglione (n. 1891 m. 1946), a cui è dedicato un tratto dell'importante arteria che collega la città di Napoli con il suo hinterland settentrionale, ecco due suoi scritti: il primo è una sua lettera dal titolo "L'800 a Napoli", che fu pubblicata sulla rivista "Napoli e i Napoletani", nell'anno 1946, trasmessa pochi giorni prima che lo scrittore morisse; l'altro è un testo pubblicato, tra il 1916 e il 1917, sulla rivista "L'Arte Muta", dal titolo "Il Cinematografo in Provincia".

"L''800 a Napoli.

“ .... Quando mi ritrovo in mezzo agli artisti, ritrovo la nostalgia di un'età perduta, l'immagine della giovinezza lucente. Diciannovenne, giungendo a Napoli, i capelli e le cravatte di tanto svolazzanti di quanto l'intelletto era esiguo e l'esperienza acerba, io caddi ai primi del novecento in pieno in una gaia brigata : pittori, scultori, musicisti , poeti.
Sbarcavo dalla Sicilia, trasognato. La metropoli mi si sciorinò davanti col suo volto più tradizionalmente suggestivo: non solo l'arco fatato dei colli e la magia di giacinto delle marine, ma il trionfo giovane delle sue arti canore e figurative, l'irruenza del suo inesausto genio. L'ottocento a Napoli non si rassegnava a morire. Anzi, dalla Serao a Scarfoglio, da Costa a De Leva, da Dalbono a Mancini, da Pasquariello a Maldacea, da D'Orsi a Gemito, da Imbriani a G. Bovio, da Athos di San Malato a Napoleone Colaianni, da Russo a di Giacomo, rimaneva più vivo che mai.
Dispute d'arte ; accademie di scherma; partite d'arme fragorose , accapigliamenti di verseggiatori vernacoli; scintillio di giornalismo umoristico; il goliardesimo più fitto e più chiassoso del mondo; popolarità di insigni avvocati; furia di promotrici; ultime risse di fieri democratici e cavallottiani , implacabili contro Crispi, pur morto da poco ; frotte rivoluzionarie di artisti che esaurivano il loro furore in fiaschi di vino, in chops di birra ed in pranzi pantagruelici, nelle Osterie dei sobborghi o nelle tavolate a mare; serate di attrici e di formose dive delle canzoni del popolo; e il Gambrinus, il Teatro Nuovo, il Caffettuccio, il Mons. Perrelli, la Cronaca Bizantina, le corse dei cavalli al campo di Marte; e le stagioni di Piedigrotta, le quali avevano per il popolo un interesse superiore a qualsiasi dramma internazionale - ricordate che scandalo quando la Poliphon tedesca tentò il monopolio delle edizioni Bideri, cioè la scalata alle canzoni ? - e mandolinisti a Mergellina, barcarole a Toledo, gite in calesse e break – l'automobile era ancora lusso di pochi! - verso Portici e Resina, nei mesi in cui le facciate delle ville  settecentesche diluviano di ortensie, di gaggie e di mimose; e la tradizione già vaga dei cantastorie dei paladini di Francia sul molo, del cappellone proverbiale del Duca di San Donato , degli epigrammi del Duca di Maddaloni e del Marchese di Caccavone.
Venne la guerra del 1915 a sterminare gli ultimi fanatici del clima umbertino. Ci smarrimmo nelle trincee. D'allora , sì da allora, non ci siamo più ritrovati . Da allora, la vita ci è stata storpiata, deviata per sempre. Parecchi di noi eran forse venuti al mondo per intrecciar fiori e strofi intorno alle trecce di una donna bella ; per levare al cielo, in coppe di topazio e di rubino, un inno alla felicità di vivere ; per celebrare le albe di amianto e i crepuscoli variegati di nuvole rosee , romanzeschi come canti dell'Odissea.
Le guerre e le tirannidi ci hanno chiuso il cuore; e di tutti noi, che eravamo genuinamente poeti e amavamo l'umanità, hanno fatto animali così detti politici, che hanno messo l'epiteto virulento, la fionda e la daga al posto della tavolozza, della tastiera e della cetra : insomma la cupa passione di parte in luogo della sorridente gentilezza latina, della larga espansività napoletana. In un'ora come questa, sentiamo d'aver barattato tutto per nulla ; d'aver ben più ragione allora, pur dissennati giovani ed adolescenti, che non oggi, adulti, stanchi, rancunieri , attossicati; che la vita degna d'esser vissuta era quella, non questa buia ed atroce che trasciniamo, senza gioie e senza amore, senza mèta e senza speranza. Riformuliamone, almeno per i nostri figli, l'augurio! Che sia riserbato ad essi un migliore destino! Per quanto assurdo possa apparir questo voto , se rievochiamo le cose orrende che abbiamo vissute, se ci prospettiamo le cose orrende che forse dovremo ancora vivere, esprimiamo, tuttavia, la fede che almeno ai nostri figli possa esser reso un ideale di esistenza serena ; che essi tornino ad innamorarsi di una vela gonfia di libeccio, di un gorgheggio d'usignolo, di un fascio di fiori, di una fanciulla, di una pagina alata, d'una tela, d'un bronzo, d’una melodia, d'un canto ….!

Emilio SCAGLIONE

« Così Emilio Scaglione, pochi giorni prima che, all'improvviso, la morte si immaturamente lo avesse a ghermire, ci inviava questo delicato e aggraziato scritto. Era ancora una prova dell'affetto sincero e cordiale che ci legava. Con quale rimpianto e con quanta commozione, rileggiamo la sua prosa nitida e rilucente ! Napoli ha molto perduto per la dipartita di questo perfetto scrittore e di questa bella tempra di verace italiano.” 
(Nota della Redazione della Rivista).

------------------------------------ = --------------------------------------

"Il cinematografo in provincia", pubblicato su “L’Arte Muta” (Napoli), n. 6-7, 15 dicembre 1916 – 15 gennaio 1917, pp. 14-16.

"Da quando il cinematografo, quasi ogni sera, ha sosti­tuito la tombola, la provincia è finita.
Esso ha fatto sui costumi il lavorio del bulino sui
metalli preziosi: li ha disciolti dalle scorie e dalla tradizione, li ha sveltiti, affinati, messi al sole.
Lo spettroscopio balenante ha finalmente dato il passo di valtzer alla eterna mazurka in sordina della provincia. I visi composti, i cuori metodici, i desideri sobri, le aspi­razioni piatte, gli affetti rettilinei, gli amori sbiaditi, sono da un pezzo in rotta, inseguiti dalle cavalcate di passione che scorazzano sul lenzuolo della cinematografia.
Il cinematografo ha riempito la vita di provincia di sensi nuovi. Ha creato mondi di esperienze fittizie. Pagode indiane e salotti parigini, splendenti oasi desertiche e oscuri drammi russi, storie d'amore, d'odio, di gioco, di danaro. La provincia non avrebbe mai creduto che tante cose alte e vibranti esistessero oltre la cerchia dei suoi dazi. Per la prima volta essa è entrata nella vita e se ne è ritratta, bat­tendo le ciglia.
Uscire, vacillando, da una sala cinematografica e ritro­
vare a casa i fascetti di spighe secche, agli angoli delle pa­reti, l'uva passa che impergola il soffitto, le pere vernine che ingialliscono sulle scansie, nel tepore del camino! No: è troppo forte. Chi può più rassegnarsi ? La provincia è perduta. Ha sentito il tanfo del suo stesso stantio.
L
a pellicola ha segnato per sempre la morte della mela cotogna. Il cinematografo in provincia ha risoluto il più terribile dei problemi: il problema dei contatti.
Vi prego di non ridere. Si afferma qui, anzi, una
verità molto seria. In provincia due persone di sesso differente che non siano padre e figlia, fratello e sorella, zia e nipote, cugini o almeno cognati, quante volte possono vedersi da vicino? La provincia non ha i vostri mezzi termini: o consanguineo, o marito, o fidanzato ufficiale, o niente. In altre condizioni, ammirarsi a bell'agio è quasi impossibile. Discorrere è assurdo. Una stretta di mano ? Favole ! Un bacio ? Miti. Si spiegano così le passioni contrastate, morigerate, profonde, taciturne che durano sette, otto, dieci anni prima di giungere del resto al loro legittimo compimento: il matrimonio. Perchè, in fondo quei sette, otto o dieci ami non si riducono che ai sette, otto o dieci giorni in cui fu possibile vedersi, scambiarsi una promessa di costanza, serrarsi furtivamente la mano, di sera, all'angolo di una via o tra le sbarre di un cancello, su cui il fitto fogliame delle roselline mal celava il geloso fitto dei fili di ferro custodi. Quanti poemi d' amore non rimasero che abbozzi, nelle fantasie giovinette, per mancanza d'incontri ! Quanti ovali, lattei e rosei, non avvizzirono un poco ogni giorno sui testi di garofani, alla finestra, e si scavarono di rughe solo perchè la via sottostante non era una via di traffico di passaggio!
Quante pile non svaporarono
inutilmente l'elettricità dei vent'anni, solo perchè mancò loro l'attrito che avrebbe potuto far scaturire la scintilla.
Il cinematografo ha permesso quasi tutto questo ed anche altro. Esso ha messo la provincia fuori di casa e dal suo isolamento, la ha raccolta in una sala e su seggiole poltroncine che si toccano; fa finalmente sedere insieme uomini e donne che si vedono per la prima volta o che si conoscono soltanto di vista o che in ogni modo si salutano appena. Che bouleversement,, immaginate! Due che  non avrebbero mai potuto varcare i dieci metri che dal balcone alla via s'interpolavano tra i loro desideri, si sentono ora a pochi millimetri, tanto pochi che è persino possibile scambiarsi reciprocamente, e per un' oretta, il calore di un ginocchio e di un gomito. E questo può ripetersi per sere e sere giacchè il tenue costo dei biglietti non esulcera, come a teatro, la suscettibilità paterna. Inoltrando l'ora, le ptit si fa più vicino, più insistente, più accorato; la petite trema, trasalisce, si confonde: lo scompiglio che prende le nostre fanciulle provinciali, quando commettono una marachella qualunque, tolgano dalla fruttiera una pesca o rubino dal borsellino di mamma due lire per un pezzo di nastro, il suo primo orgasmo di donna a contatto con un uomo, gl'intimi suoi rossori di vergine, la paura che i suoi, seduti dall' altra parte, la sorprendano; questa folla di sentimenti differenti lei scambia per amore, per un amore infinito, straziante, che la mette fuor di sé, verso l'uomo che le è al fianco. In questa fede, nel fondo dell'anima, trova per lui accenti e nel fondo delle pupille lampi così sinceri e vibranti che anche egli si ammollisce intero e si disfà dalla gioia di sentirsi tanto amato. E poichè nessun amore sulla terra può rassomigliare al loro, è deciso. Si sposano. Entro una settimana la chiederà al padre. Se il padre tergiversa, una sera dal cinematografo se la trascinerà in carrozza, e sarà fatta. Il ratto consensuale, in provincia, è ancora una istituzione. Su cento matrimoni, almeno quaranta son preceduti da una fuga. Così, mentre l'imperituro Cretinetti scialacqua sul candido tappeto il suo serotino patrimonio di sciocchezze, si conclude il destino di due vite.
Giuro, perciò, che se non fosse intervenuta la guerra euro­
pea, o meglio, se prima del 1914 si fosse desunta una stati­stica esatta dello stato civile, si sarebbe notato un notevole aumento nei matrimoni in provincia. Datene la giusta parte di merito al cinematografo. Oggi che l'esterminio della guerra aumenta in proporzioni irrimediabili la differenza numerica dei due sessi e la terra sta per diventare una sconsolata tebaide dove i pochi trappisti superstiti son già condannati ad una forma nuovissima d'ascetismo, la poligamia , la funzione del cinematografo comincia ad apparire veramente sconfinata.
Per questo riguardo il cinenatografo completa l'evolu­
zione della provincia, già cominciata dal tram elettrico. Ogni cittadina nostra, appena ha i suoi trams si mette bravamente in corsa, su ogni vettura rigurgitante, verso forme di vita metropolita.
I lucenti binarii danno un tono alle vie melanconiche.
Meno grigio è il silenzio delle piazze, rotto ogni tanto dalle campanelle squillanti. Perfino le distanze sembrano in­verosimilmente accresciute, ora che possono misurarsi a tariffa. Ma appunto nei suoi pregi sono i suoi difetti. Il tram cammina. E’ troppo veloce. Fa troppo chiasso. Non c'è ribalta che attiri gli occhi e distragga i circostanti. Se si adatta a qualche incontro, rarissimamente si adatta ad un colloquio.
Francamente: il cinematografo vale di più. A parte tutto, ha almeno una superiorità indiscutibile: il buio.
Il cinematografo,
dimostrando alle donne che si può rimanere al buio a pochi centimetri da uomini non consan­guinei, senza per questo dover svenire di paura, contribui­sce all'educazione morale in provincia, irrobustisce la co­scienza dei propri doveri, tempera i caratteri.
Il buio cinematografico è uno scacco matto continuo dato alla gelosia.
In provincia era necessario
un po’ di buio nelle sale di ritrovo. Era, parola d'onore, necessario più che la si­stemazione idraulica, gli acquedotti, il rimboschimento, le ferrovie a scartamento, i milioni alla scuola meridionale, la lotta alle arvicole e alla peronospora, l'educazione poli­tica, l'igiene etica dei municipi, lo spezzamento del lati­fondo. Giacchè tutto questo ha di mira nemici ben noti e che si possono vincere alla fine : la mancanza di forza motrice, la siccità, il tifo, la malaria, la scarsezza di trasporti, l'analfabetismo, la carestia, il rialzo dei prezzi, il mercimonio elettorale, le malversazioni, il feudalismo. Mentre il buio ha da vincere il mostro centimane che forse è tutto questo insieme, ma che sonnecchia accovacciato nella più profonda coscienza provinciale: la tradizione. Il cinema­tografo può esser considerato come una conquista del femminismo.
Mi pare che il cinematografo tolga le nostre donne dalla campana di cristallo, nella cui aria viziata di rinchiuso chi ne ha diritto la tiene abitualmente, e le restituisca, sia pure per un'ora, en pleine air. Esso dà loro improvvisa­mente la sensazione che possono anche essere riservate e fedeli per elezione o sia pure per capriccio, quando invece debbono di solito esserlo per forza. Spesso al cinematografo soltanto si convincono che il fratello, il padre, perfino il marito son forse i meno peggiori degli uomini. In ogni modo il cinematografo in provincia mette la donna a discrezione di sè stessa. Le dà facoltà di scelta, sviluppa il suo senso d'iniziativa. Questo, io chiamo educazione morale.
Quando in provincia ci si convincerà che la donna no­
stra può arditamente fissare in faccia un uomo senza che ne debba arrossire, trasalire, pensare a tradirci ?
Per la provincia il cinematografo è uno spettacolo com­
pleto. Tutti i componenti una buona famiglia borghese ci trovano qualche cosa. Il padre ha la gioia di condurre allo spettacolo tutta la famiglia con due lire, e può a suo agio, sfogare in sbadigli il tedio dell'ufficio, senza che la moglie, affianco a qualche malevolo, gli appioppi l'accusa che è incapace di sentire gli affetti domestici. La moglie, anziana, messa in vena dagli episodi patetici, esala in lagrime non viste ed in sospironi non uditi, il trafiggente rimpianto di giorni giovani. La nonna per un paio d'ore, nelle traversie della scena, annichila il petulante chiacchie­rio sul fastidio suo non di stare al mondo, ma di starvi ormai così male. Le figlie un po’ seguono l'azione un pò si danno a respirare l'oscurità come il più profumato degli incensi. Il bimbo è immerso in un sonno, pieno della stupefazione che lo si lasci finalmente dormire in pace, senza chicche stantie e senza scrollate che gli sloghino i braccini.
La bambinaia si lascia pizzicare da qualcuno che non co­nosce e che non distingue nell'ombra. E tutti si divertono.
E’ il cinematografo sufficiente a stabilire in provincia il regime dell' avventura
extra naoenia dell'amore legit­timo ?
Io non credo. La provincia è positiva. Guarda al sodo. Non perde la testa che raramente. E anche se fosse ? Lo scandaletto di un'avventura amorosa, scoppiettante tra gli alari della maldicenza scaltra, è necessario in provincia. Esso riempie, tutto un inverno, i salotti. Tiene accesa la causerie dei pomeriggi. Fa più intime le amiche che chiac­chierano intorno a colei di cui si chiacchiera, subito sola. Intanto accresce la moda del cinematografo.
Del resto, se mi date per vero che la virtù, se non messa mai alle prese col vizio, si rilascia, cede in tensione, perde in energia, mi darete per dimostrato che l'avventura in provincia è qualche volta necessaria, appunto per dare risalto al regime normale.
In provincia, essendo tutte le donne spaventosamente
oneste e fedeli, uno solo è il pericolo: che si perda il senso della bellezza, della fede reciproca dandola per assiomatica sempre. Un'avventura di origine cinematografica, creando qualche dubbio e qualche rischio, porta dunque olio nuovo a tal fiamma di fede.
L'avventura è il romanzo
: anche quando disgusta, ap­passiona la provincia, ligia per temperamento alla storia.
L'avventura ci crea intorno tali inspiegabili getti di odio
concentrato, e così appariscenti onde di nausea, che i suoi risultati sono alla fine seriamente morali: e mai come dopo uno scandaletto, c'è in giro tanto sfoggio di attaccamento al pacifico spiganardo coniugale.
In fine il cinematografo ristabilisce in provincia un gusto
ignoto o defunto da un pezzo : il gusto dell'ozio.
In provincia gli uomini lavorano sul serio e si lavora troppo da tutti. Non c'è perdigiorni e non ci sono pause. E anche quando non si lavora, ogni azione ha uno scopo pratico. Come non si spende un centesimo senza rendi­mento netto, così non si fa niente per niente. Le ore di ri­poso si impiegano a cose utili. A Napoli, a Roma, a Milano il passeggio, la ciarla, l'occheggiar vago, lungo, distratto, il perdere tempo con convinzione, l'indugiarsi con gioia, il batter con la punta del bastone il marciapiedi per mezz'ora in fila: tutto questo ha un valore. Nessun provinciale sensato, invece, vi dirà che va a passeggio per sgranchire le gambe: ma o cerca qualcuno, o ha da mettersi in mostra per scopi suoi, o accompagna un'ammalata che ha bisogno d'aria o aspetta nervosamente gli strilloni. Il più delle volte ci si va per i bambini: « che fare? questi bimbi si annoiano: bisogna condurli a spasso ». Ecco una delle molle. I bimbi   - voi sapete —sono assai spesso in ballo ed in nome dei figli troppo numerosi quante cose atroci non commettono oggi ! A teatro non si va per la pièce, diamine ! Nessun ingenuo lo crederebbe. Ma dall'alto del palco di seconda fila, c'è da sottolineare la propria posizione consolidata. O da far morire d'invidia con la nuova toilette. O, nella più comune delle ipotesi, da organizzare negli ambulatori certi incontri -- oh ! fortuiti - che sarebbero altrimenti impossibili e che condurranno poi al fidanzamento. Niente va perduto in provincia. Tutto è utile. Sopra tutto il tempo: oro senza scorie, come in Inghilterra.
II cinematografo ha rivoluzionato cotesta mentalità positiva. Quasi sempre nel cinematografo non si va che per andare al cinematografo.
I prezzi sono tenui. Non c'è da fare sfarzo. Non c'è da
sfoggiare toilettes: è buio. Le amiche da ingelosire non vi scoprono. I bimbi più che divertirsi dormono. Non c’è mete pratiche.
La mezz'ora del cinematografo è quasi sempre la mez
z'ora dell'ozio completo. Comodamente i corpi si adagiano sulle poltroncine senza ritegni mondani. I gomiti contratti si distendono. Le mani s'incrociano sul ventre. La bocca automaticamente si socchiude sino ad una espressione ebete su cui volteggiano le volute del sigaro. Si riposa davvero! Si ozia davvero ! E’ il preludio del sonno. A domani l'elastica tensione di ogni giorno. A domani gli affama le pirchierie, il dispetto della vita immiserita in beghe municipali, tra quattro case: il piccolo guadagno, i piccoli rancori, le piccole miserie, i piccoli fasti.

Emilio SCAGLIONE

In un successivo post pubblicheremo la biografia del celebre personaggio.

Salvatore Fioretto