sabato 30 gennaio 2021

Al car.mo amico e scrittore del libro "Piscinola, la terra del Salvatore", di Don S. Nappa

In occasione del decennale della pubblicazione e della presentazione del mio libro "Piscinola, la terra del Salvatore", ho deciso di rendere pubblica la bella lettera che mi ha fatto pervenire il carissimo monsignore don Salvatore Nappa, nella primavera del 2012. Oltre alle belle parole di apprezzamento per il mio lavoro, don Salvatore giustamente ha sottolineato che nel libro ci sono pochissimi riferimenti alla sua azione pastorale e sociale nella comunità piscinolese dell'immediato dopoguerra, come aiutante della Parrocchia del SS. Salvatore.
La lettera è una bellissima testimonianza che racconta uno spaccato di vita del quartiere, in un momento difficile che fu quello della fine della seconda guerra mondiale; ma nonostante le ristrettezze e le difficoltà economiche, la comunità, soprattutto i ragazzi e i giovani, seppero reagire, mostrando un forte senso di appartenenza e una gran voglia di riscatto, attraverso la cultura e lo sport. Ai due nostri Sacerdoti, D. Salvatore Nappa e D. Domenico Severino bisogna riconoscere e apprezzare la preziosa opera di guida alla formazione, non solo religiosa, ma anche culturale, sociale e sportiva, dei giovani di quel periodo.
In quanto al riconoscimento della sua personalità a Piscinola, come promesso, ho dedicato il secondo mio libro del Centenario della Piedimonte: "Comm'era bella la Piedimonte" nel 2014 a don Salvatore Nappa, facendogli dono della prima copia stampata, nel suo studio, nella canonica a Marianella.
Ecco il testo integrale della lettera ricevuta da mons. don Salvatore Nappa:

"Finalmente ti posso dire: ho letto tutto il tuo libro "Piscinola la terra del Salvatore", e mi compiaccio sinceramente con te, che non solo ci hai fatto conoscere tante belle cose del passato su Piscinola, ma ci hai confermato tante belle cose dei nostri tempi, che io e i miei contemporanei conosciamo. Quanto studio da parte tua, quanta pazienza, quante belle cose dei nostri contemporanei e specialmente dei nostri antenati.
Ci voleva proprio tu, con la tua pazienza, con il tuo studio, con la tua volontà e la tua capacità, e solo tu ci sei riuscito a portare a termine questo lavoro su Piscinola, perché altri ancora hanno cominciato ma solo superficialmente e dopo poco tempo hanno alzato le mani, tra gli altri ricordo "Monsignor Umberto Scandone", di Piscinola, ma Parroco a Porta Piccola, che scrisse però solo un opuscolo, che io ho letto, e che fece poco effetto, tu invece hai cominciato e superato tutte le difficoltà arrivando gloriosamente alla fine.
Una cosa sola ci hai mancato, che per me è molto importante, ma ti perdono, però solo a metà, perché tra me e te c'è una bella differenza di età e poi io non sono vissuto stabilmente a Piscinola, perché, per volontà dei miei superiori, due anni dopo la Consacrazione e cioè nel 1944, andai a dirigere altre Parrocchie e quindi me ne andai da Piscinola, però tu sapevi della mia presenza, perché una volta ci siamo incontrati, ma non ci siamo parlati, per esempio in quella che fu la sede, per poco tempo, "degli amici" a via Vittorio Veneto, dove mi portò mio nipote "Nappa Salvatore", e dove parlai di tutta la mia vita, ma non ci incontrammo e non parlammo.
Non ho mai saputo niente del lavoro su Piscinola che tu stavi facendo e solo dopo che l'hai presentato e c'era anche mio nipote Salvatore che me ne parlò e mi portò il tuo libro, che io ho letto, come ti ho detto, ed ho apprezzato moltissimo e non solo per le molte e belle notizie piuttosto recenti, ma soprattutto per quelle antichissime che nessuno conosceva.
E adesso, per quanto riguarda me e la mia presenza in Piscinola, devi sapere che io sono stato per una decina di anni e cioè dal 1935 al 1945 protagonista assoluto. Nel 1935, infatti avevo appena terminato la 5^ ginnasiale, con ottimi risultati, quando un padre di un ragazzo che io conoscevo, mi disse "Don Salvatore volete preparare mio figlio per la prima ginnasiale?" Si, risposi, ma con un po' di preoccupazione.
Per la verità, ci riuscii bene e, da quel momento, uno stuolo di ragazzi anche da Marianella e da Miano vennero da me per essere preparati agli esami di riparazione ad ottobre o per l'italiano, o per il latino, o per la matematica.
Diventai poi Sacerdote, oltre a continuare con la scuola ai ragazzi, mi interessai dei giovani dell'Azione Cattolica nel circolo di via Vittorio Emanuele. Erano quasi "200" i giovani ed i ragazzi che frequentavano alla sera, con mio sommo piacere, e che diedero inizio alla filodrammatica e alla recita del Rosario alla sera fino alla chiesetta della Madonna delle Grazie, e non mancava ogni settimana la riunione in sede per studiare il testo di cultura religiosa.
La novità avvenne quando verso la fine dell'anno 1943, vennero i soldati americani a Piscinola e pigliarono possesso dell'Edificio scolastico e dei locali del Municipio, dove misero, per poco tempo, il tavolo di Ping Pong e quindi alla sera, dopo la giornata di servizio, tutti a divertirsi attorno al tavolo.
La presenza dei soldati americani costituì per tutti noi, come è chiaro, non solo una novità, ma anche una grande curiosità per cui alla sera, io e alcuni altri ci avvicinavamo alla caserma e ci fermavamo al di fuori della sala ex teatro dove stava il tavolo ed eravamo curiosi di sentire il tic tac della pallina senza che qualcuno ce lo spiegasse. E solo dopo un po' di tempo, quando riuscimmo a sapere tutto da uno dei nostri ragazzi che era stato in collegio, decidemmo di cominciare a fare i primi passi necessari per mettere, nel nostro circolo, il Ping Pong.
E così una mattina, io, don Mimì (d. Domenico Severino, sacerdote) che stava sempre con me e altri due giovani, andammo a Napoli, a piedi s'intende, perché i ponti e di S. Rocco e di Miano erano stati abbattuti dai tedeschi. Io sapevo che al Museo, nei pressi di Piazza Dante, c'era un negozio di attrezzi sportivi, e senza perdere tempo andammo dentro e ci facemmo prendere tutto l'occorrente ma senza che ci fosse la volontà di comprarlo perché non tenevamo i soldi.
Così vedemmo tutto quello che ci voleva, ringraziammo il padrone del negozio, e andammo via. Ma per la via del ritorno subito tirammo le prime conclusioni, perché don Mimì si offrì a preparare la retina con lo spago che già aveva, a procurare la pallina perché conosceva un soldato americano e poi l'amico Scaglione Angelo, falegname si pigliò il compito di fare le racchette e di aggiustare il tavolo che già tenevamo e dopo che tutto fu pronto si cominciò a giocare. Ma quante risate, e quante volte la pallina cadeva a terra. Ma dopo pochi giorni le cose si misero a posto, prima, secondo le poche regole che ci aveva suggerito il nostro amico del collegio e, poi, con le regole giuste che ci avevano fatto conoscere alcuni soldati americani diventati nostri amici. Devo dire, per la verità, che col passare del tempo alcuni giovani divennero così bravi, che cominciarono a sfidare a livello regionale i giovani delle altre associazioni. Però quando io andai a fare il Parroco nella zona di Poggioreale portai con me il tavolo del Ping Pong e questo trattamento serale, piano piano finì completamente.
Quanto alla palla a canestro: per cominciare si dovette aspettare più tempo perché si dovette aggiustare la piazza avanti all'Edificio scolastico, modificare le lampade elettriche perché si doveva giocare alla sera e recintare il campo.  Fin dalle prime partite, io e don Mimì fummo presenti insieme ad un gruppo di giovani. E quando ci rendemmo edotti di questo nuovo sport, cominciammo a pensare come farlo anche noi, ed il luogo adatto era il cortile della sede dell'Azione Cattolica, accanto alla grossa pianta di fichi, lo allivellammo, lo illuminammo perché bisognava  giocare di sera e tutti d'accordo per cominciare si decise per la sera della vigilia del Santo Natale 1944.
Io guidavo una squadra e don Mimì l'altra, e ci mettemmo a giocare ma una pallonata andò a finire sopra i miei occhiali che caddero a terra e si ruppero e fu questo il battesimo della palla a canestro del Circolo Cattolico di Piscinola.
Nel mese di luglio 1945, io andai via da Piscinola e don Mimì prese l'impegno del Circolo e dei giovani e fondò la squadra "Virtus", che si è fatto e si sta facendo molto onore.

mons. Nappa Salvatore   
     

mercoledì 27 gennaio 2021

Lo cunto della Sòvera ca nun voleva morire…!

‘Nce steva, tantu tiempe fa, ‘na campagna, doce e gentile, cu llà vicine ‘na masseria antica…, ma antica assaje…! Per lo mmiez’’a nu Casale ‘e Napule, de’ chille antiche ‘e ‘na vota…
‘Sta campagna teneve tanta piante e àrbere, cierte vecchie assaje: 'Na pianta ‘e lauro, n’ata ‘e fico, po’ ‘na ceveze, tanta nucelle, e àrbere ‘e chiuppe, chille nire nire, ma ca facevano funge ghianche e doce comm’‘o latte!
Mmiez’’a sta terra nce steva n’at’àrbero, curiuso assaje, pure isso assaje viecchio: teneva ‘na curteccia nera nera, tutta vacante dinto… Tutt’‘a gente ‘e ‘stu posto 'a chiammavano: Sòvera…!
Quant’anne tenarria, nisciune ‘o pùtarria sape’…; ‘e cchiù viecchie parzunale, ca tenevano cchiù ‘e ottant’anne, diceveno ca se ll’arricurdavano sempre accussì, sempe vecchia e scavata dinto, ‘a quanno erano state pure lloro guagliune…!
Miez’’a chella bella terra de ‘stu Casale, nce steva ‘nu guagliunciello peccerillo, ca se chiammave Turillo, ca era nato proprio dint’a chella masseria...
Turillo vuleva bene a tutte ‘e persone ca stavene ‘e case llà dinto e tutti vulevano pure bene ‘a Turillo…
‘O spasso ‘e stu guaglione era chillo ‘e sta’ tutt’o ghiorno sempe miez’'a ll'aria ‘e chella masseria. Turillo era bellillo,... curreve, curreve sempe, d’’a matina ‘a ssera, p’’e llemmate e p’’e sseparelle e ghieve pure ‘ncoppe ‘e bbinarie d’’o treno… Turillo tenevo solo ‘nu pate, pecchè ‘a mamma era morta quann’era assaje peccerillo… E dint’’a chella massaria senteva tutt’‘o calore e ‘na famiglia…!
Turillo vuleve bene a ‘sta natura, a tutte ll’aucielle e pure a tutte l’arbere ‘e chella campagna.. E miez’'a chelle, po’, s’era ‘nnammurato 'e chella pianta vecchia ‘e Sòvera… Pecche’ a trattava comm’a ‘nu nonno viecchio! 
Dimandave spisso nutizie ô pate, e a ll’atre viecchie, ma pure chilli dicevano sulo che ‘a Sòvera era vecchia assaje… Dicevano ancora ca chisto era n’àrbero affatato, pecché se raccontava ca ‘ntiempe antichi, llà ce ne stavano doje d’àrbere comm’’a cchisto, e ‘nu juorno, cierti cuntadini, scavanno ‘e ffuosse miez’’a esse pe’ semmenà ‘e perzeche, truvajene n’anfolla assaje gruossa e antica, ca llà sotto era ‘nterrata… e rumpennela pe’ vede’ che nce stava d’into, truvajene sulo ‘na pòvera gialla, comm’’a ccennèra. Tiempo doppo, se dicette ca chella pòvera, c’avevano pigliato p’’e ccennèra, ‘nvece era oro…, oro ffino…, ma chille però nun l’avevano capito e l’avevano ghittate, sparpaglianno tutto miez’’o turreno…!
L’anne passavano e ‘sta pianta faceva sempre pochi frutti, carevano sempe ambressa e nisciuno riusceva a fa’ ‘e piennule.
Quarcuno dint’a l’autunno raccoglieva pure ‘e foglie ‘a terra, pecchè dicevano che curavano cierti malatie d’'e viecche e d’'e giuvane…
Turillo, ogni tanto ca passava mmiez’’a chella terra, ‘o pensiero suojo era sempe chillo 'e ghi’ a vede’ 'sta pianta comme stava. Era po’ sempe curiuso ‘e guardà dint’’a "scafongia" se ‘nce steva quarcosa annascuso…, ma niente, quacche vota però n’asceva ‘na lucertolella…
Sta pianta, pure se era sturpiata p’’a vvicchiaja, puteva campà ancora pe’ tanta secule; era accussì attaccata ‘a vita, ca pure se teneva meza corteccia cunsumata, cu ‘o vacante mmiezo, era viva e campava sulo cu ‘nu parme ‘e scorza ‘e lato, ma pe’ chillu tanto ca bastava pe’ purta’ nutrimento ‘a cimma soja ‘e ncoppa!
Turillo ‘nu ghiorno, pensanno ca ‘o viento o ‘na tempesta putesse schiantare ‘a pianta, ‘nce attaccaje ‘nu tirante d’‘e acciaro, pe’ ‘a tene’ tirata e ferma, ‘o lato d’’o punto debole…
E accussì facenne se sentiva cchiù sicuro.., ma ‘stu guaglione, ca s’era fatto già grussiciello, nun aveva fatto ‘o cunto ca ‘o nemico ‘e sta pianta era ‘e n’ata specie: nun erano tempeste e sfuriate ‘e viento, ma era chillu “male” ca se chiamma “prugresso”: nu “male” brutto e ‘ncurabile assaje, ca se magna ‘e campagne, cu ‘e sciure e cu ll’àrbere e porta sulo distruzione e malaciorta addo isso passa!
‘O Guaglione, mentre cresceva, accuminciava ‘a sentere sta minaccia avvicinarse sempe ‘e cchiu’, pecché, comme careno è bombe dint’a ‘na guerra, sempe cchiù vicine, propritamente accussì ‘o rummore ‘e 'stà minaccia s’avvicinava sempe ‘e cchiu’…!
Turillo accuminciava a pensa’ ca era già tutto destinato e che ‘sta pianta ‘e Sòvera eva murì priesto, nzieme ‘a terra soja...!
‘Nu ghiorno ‘sta pianta seculare, ca era stata sempe ‘o stesso e nun aveva mai fatte rampule nove, cacciaje ‘nu figliulillo ‘e latte ‘a dint’’e radeche…

....Ll’omme nun sanne, ca ‘e piante teneno ‘nu core e arragionano meglio ‘e lloro, e esse sanno pure ‘ntiempo quann’è arrivata ‘a fine loro…!!

Turillo rimmanette senza parole pe’ sta nuvità, ne parlaje cu ‘o pate, e accussì decidette 'e farlo crescere pe’ n’at'anno, fino a vierno.
‘O guaglione aveva capito ‘o messaggio ca ll’aveva mannato ‘a pianta ‘e Sòvera: ‘A pianta vuleva cuntinua’ a campà, e sapenno ca nun era possibile pe’ essa stessa, aveva pensato ‘e lascià ‘nu figlio suojo, ‘a fa’ crescere ‘a Turillo!
Accussi dint’’a vierno ‘o guaglione sceppaje ‘stu frustillo, ca era fino fino, duppio quanne a ‘nu retillo d''a mano, e sotto a isso teneva ‘nu capillo pe’ radechèlla… Turillo, senza ‘nce penza’ ‘ncoppa, atterraje ‘sta mazzarella d’into ‘o ciardino ca teneva vicina ‘a casa; dint’a chillo ca era ‘o posto cchiù sicuro e arreparato... 
Dint’’a primmavera appriesso ‘sta mazzarella ‘e Sòvera, cacciaje poche buttune ‘e foglie…
Ma doppo n’anno ‘e vita, se seccaje ‘a cimma. Turillo pensaie subbeto che era morta…! Po’ dicette: "nun ‘a scippo ancora, mo ‘a pòta e vedimmo che succère…"
E, infatti, tenette raggione, pecché dint’a chella pprimmavera ca venette appriesso, ‘sta pianticella se vestette n’ata vota ‘e ffronne, e accumenciaje a crescere chianu chianu.
Passajene n’atu pare d’anne, e chillu presentimento c’aveva tenuto ’a pianta ‘e Sòvera, s’appresentaje senza pietà...!
Sappresentaje ‘nu mostro, cu “pale meccaniche”, “ruspe” e “motoseghe”, e tutt’‘a putenza e ’a malignità ca l’ommo caccia, cu a scusa d’’o prugresso e d’’o benessere ‘e l’atre…! E accussì ghittaje ‘nterra, ‘mbaranza, tutte l’àrbere ‘e chella bella campagna…, accerennole!!
Turillo nun vulette abbanduna’ l’àrbere suoje mentre carevano muorte, comme fa ‘nu figlio vicino ‘o llietto ‘e ‘nu pate o ‘na mamma ca ‘sta murenne... E vedenn’‘a piante soja ‘e Sòvera ‘nterra senza vita, chiagneva, chiagneva disperato, chiagneva comm’’a ‘nu criaturiello…!!
Turillo s’era fatto grusso, e ll’àrbero ‘e Sòvera (figlio) era crisciuto e s’era fatto sempe cchiù gruosso. L’anne passavano e ‘sta pianta cresceva sulamente, ma nun faceva maje ‘nu sciore, mai ‘na Sòvera…
Addivinataje n’àrbero assaje gruosso!
Turillo parlava spisso cu ‘o pate e ‘sta cosa strana, e lo diceva:… “Pa’, ma forse è servatica ‘sta pianta, visto ca nun fa maje Sòvere?” E po’: “Pure se l’avessa ‘nzertà, add’’a piglio n’ata Sòvera? Cca attuorno, oramaje, campagne nun nce stanno cchiù… !?
Responneva ‘o pate: ”Turì, tu nun ‘o saje, pecché sì giovane, ma l’àrbero ‘e Sòvera, pe’ caccià ‘e Sòvere, s’adda fa viecchio, ma viecchio assaje…, si no’ è Sòvere nun è fa maje…!!
Doppo quarche anno, Turillo chiagnette n’ata vota, pe’ n’ato dulore forte assaje, pecchè ‘o pate murette e ‘o lasciaje a isso sulo…!
Ancora affranto p’’o dispiacere avuto, ‘o ggiovane l’anno appriesso pensaje ‘e taglià ‘a pianta. Diceva: “Ma ca me serve ‘sta pianta ca nun fa Sòvere, ma fa sulamente ombra e, po’, ‘nu sacco ‘e fronne…?!”. Pero’ nun tenette ‘o curaggio d’’o fa...! Allora pensaje: “Mo faccio passà n’at’anno ‘e tiempo, taglio sulamente quarche rampulo ‘e vascio, e vedimmo ca succère...
Dint’’a chella primmavera, mentre ‘a pianta cacciava ‘e fronne nove, n’abbondanza n’ata vota, Turillo vedette ‘na cosa strana dint’'e rampule: ‘nce stavano llà ‘ncoppo cierte pampuglie ‘e ‘nu culore ghianco e rrosa… ma belle assaje!!
Turillo nun l’aveva maje viste fino ‘a tanno, ma chille erano ‘e sciure d’’a Sorvera, ca erano schiuppate p’’a primma vota!
E accussì chill’anno Turillo magnaje p’‘a primma vota ‘e Sòvere nove ‘e l’àrbero figlio d’’a Sòvera accisa... E accussì, ogn’anno, ‘n'abbondanza…! 
Da tanno, decidette ‘e nun taglià cchiù l’àrbero, ma d’’o tenè pe’ sempe, pe’ ricordo: d’'a terra, d’'a Sòvera vecchia e d’’o pate, ca nun ce stavano cchiù!
 
Chestà ‘e a storia d’a pianta ‘e Sòvera ca nun vuleva murì, ma vuleva campà…!
Ll’àrbere tenene ‘nu core e vonno campa’ pe’ sempe cu ll’ommo! Ll’ommo ‘e surdo e chistu messaggio nun l’ha capito ancora!
 
O’ cunto è furnuto, loro stanno lla’ e nuje stamme cca!
Salvatore Fioretto
 
Il "Cunto" è stato liberamente tratto da una storia realmente accaduta. Tutti i diritti di pubblicazione sono riservati all'autore.


sabato 23 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: le Masserie (seconda parte)

Per descrivere una masseria che sia rappresentativa di tutte quelle che un tempo esistevano nel territorio, ne ricorderemo una che è sopravvissuta fino ai primi mesi del 2002, la masseria “Torre Gualtieri” nel tenimento chiamato "Marchesa di Rutigliano" situata a Piscinola, nell'antica via omonima, oggi via Vecchia Miano.

Veduta della masseria Torre Gualtieri e campagna del suo tenimento Marchesa di Rutigliano, 1995

L’ubicazione

Questa masseria, sicuramente risalente al XVII secolo, riportata nelle mappe e nei documenti più antichi, era situata in Via Vecchia Miano (abbascio Miano). Essa faceva parte di un esteso fondo agricolo che era denominato “Tenimento Marchesa di Rutigliano” (o Rovigliano). Forse per tale motivo la Via Vecchia Miano, nel tratto in questione, un tempo era denominata “Via Rovigliano”.
Questo complesso architettonico costituiva, come si evidenzia nelle mappe, l’unica opera ubicata al di fuori del perimetro dell’edificato storico di Piscinola, ossia l’edificato compreso tra Via Pagliano (Vico degli Operai) e Via Vecchia Miano.

Foto in una masseria di Piscinola, di Giovanni De Stefano

La struttura architettonica e gli spazi esterni
La masseria “Torre Gualtieri” aveva una poderosa struttura difensiva, infatti era dotata di una cortina di mura molto alta e aveva l’ingresso molto caratteristico, perché anch’esso di tipo fortificato, con un massiccio portone di legno a due battenti, incastonato in uno dei due enormi archi a tutto sesto ivi presenti.
La struttura d’ingresso rappresentava la parte più alta e monolitica del complesso architettonico, quasi a simboleggiare una specie di torre d’avvistamento e di difesa. Ad essa si accedeva direttamente dalla strada, attraverso una breve rampa che raggiungeva un terrapieno in tufo alquanto alto.
Notiamo nel territorio circostante Piscinola altre strutture simili alla nostra, come la masseria di S. Giovanni, nella quale è presente una struttura d’ingresso anch’essa a forma di torre, con un portale altissimo a sesto acuto e con due belle volte “a crociera”. Altro esempio è la masseria “Torricelli” di Mugnano, costruita attorno ad un mausoleo cinerario romano a forma di torre, da cui deriva sicuramente il suo nome.
La struttura architettonica della masseria “Torre Gualtieri” appariva alquanto disomogenea, per i diversi volumi degli edifici che la componevano. Alcuni di essi si mostravano come aggiunti un po’ alla rinfusa al “corpo” centrale d’ingresso.
Il resto dei fabbricati erano disposti “a corte”, attorno ad uno spazio centrale, chiamato “aire” e comprendeva una serie di servizi comuni, tra i quali: il bagno, il forno, il pozzo, una o più stalle per il bestiame e il relativo fienile, chiamato “mezzaniello”.
La masseria, poi, aveva diversi giardini (con alberi di fichi, legnasante (cachi), limoni ed aranci) e le attrezzature utilizzate per la pulizia e per il confezionamento delle noci e per la produzione del vino.

Masseria Torre Gualtieri, arco d'ingresso fortificato, via V. Miano, 2000

L’utilizzo degli ambienti coperti
Le stalle erano in muratura e suddivise in varie zone. La parte destinata agli equini (asini, muli e cavalli) era più angusta, perché meno frequentata, mentre quella destinata alle mucche ed agli ovini era più ampia, per permettere la relativa mungitura.
Il maiale era allevato all’interno di recinti coperti, non necessariamante dentro le stalle.
Lo sterco degli animali (strame) era raccolto nelle stalle e trasportato nei campi, mediante carri, detti “carrette” o “riroti”, trainati da muli o cavalli.
Il vino era contenuto in botti, sistemate all’interno di locali sotterranei abbastanza profondi e bui (‘e rotte). Vicino al locale chiamato “basso” (vascio), era presente, poi, un grosso locale chiuso, tipo deposito, destinato ad immagazzinare i prodotti della campagna, prima che venissero trasportati al mercato.

Le abitazioni dei contadini
Le abitazioni si componevano di locali disposti su due livelli.
Il “basso” (vascio) si componeva di una grossa camera, posta al piano terra, corredata di un camino “a campana”, da un lato e da un piccolo locale interno destinato alla cucina. Nella cucina i fornelli erano realizzati in muratura e acciaio e venivano alimentati con legna: quasi sempre avanzi di potatura. Le pentole grandi (caurare) erano collocate in un foro circolare, realizzato dentro il piano di pietra. Questo foro formava, attraverso un cerchio di ferro battuto, una sorta di incastro per la pentola. Le pentole piccole e le padelle si appoggiavano, invece, sopra a dei piatti di acciaio, realizzati mediante anelli concentrici, di ferro battuto, che si incastravano uno dentro l’altro. Sotto queste strutture erano presenti delle camerette, nelle quali si introduceva la legna e si poteva “soffiare” sul fuoco, con un apposito ventaglio composto da vimini e varie fibre.

Interno Masseria, vista dell'"Aire" e pietra per lavorare il lino, 1971
Ad una parete della cucina era collocata una rastrelliera in legno, sopra la quale veniva “esposto” tutto il pentolame di rame, portato in dote dalle donne.

I mobili erano pochi, di manifattura semplice, composti per il “basso” da una credenza o “cristalliera”, utilizzate per il contenimento delle suppellettili, da una grossa tavola in legno e da alcune sedie impagliate; mentre nella camera del piano superiore c’era un armadio, un letto con spalliere in ottone o ferro e un comò del tipo “segreter”.
I materassi erano realizzati con sacchi di canapa riempiti di “stuglie” di granoturco. Le stuglie venivano cambiate ogni anno.
Il bagno era minuscolo, spesso pensile, come in questo esempio, ricavato “a sbalzo” sul corpo di fabbrica, mentre, era consueto che si utilizzassero vasi da notte o pitali, che durante il giorno erano conservati nei comodini ai lati del letto.
Il riscaldamento degli ambienti della “zona giorno” era molto semplice e consisteva nell’accendere il fuoco nel camino. Nelle strutture più antiche il camino era costruito rigorosamente a forma di campana e nel suo interno conteneva due sedili di pietra contrapposti, che permettevano a due persone di sedersi e dialogare.

    Masseria Torre Gualtieri, dalla campagna del suo tenimento, 1995

Negli ambienti dove non si disponeva del camino, si utilizzava un braciere di rame, bruciando della carbonella (vrasiero cu’ ‘e gravunelle). Il braciere si collocava su un supporto di legno o di ferro, sul quale si potevano appoggiare i piedi. Per “attizzare” il carbone si disponeva anche di una palettina in rame o di ferro.

Nelle camere da letto (‘a cammera) si usava lo “scarfalietto”, ossia una sorta di padella in rame, nel quale si poneva del carbone acceso. Lo “scarfalietto” era posizionato sotto le coperte prima di andare a dormire, dentro ad un distanziatore chiamato “monaco”. Quest’ultimo era una sorta di navicella realizzata in doghe di legno e serviva ad alzare le coperte, per non farle stare in contatto con le pareti roventi dello “scarfalietto”. D’inverno gli indumenti e gli altri panni erano messi ad asciugare sopra il braciere, utilizzando una specie di cupola, fatta anch’essa di listelli di legno; mentre durante le giornate assolate gli indumenti venivano esposti (spasi) al sole, nell’”aire”.

   Masseria Torre Gualtieri dalla campagna del suo tenimento, 2000

I momenti di vita comune
I momenti di aggregazione nelle masserie coincidevano con l’utilizzo delle strutture comuni, come il pozzo, il forno e l’aire.
Il forno era adoperato durante i fine settimana, per la cottura del pane e durante le feste dell’anno, per la cottura di dolci e dei piatti rustici locali.

Altro momento di unione degli abitanti della masseria era la lavorazione del granoturco che avveniva a fine estate. Anziani, giovani, donne e bambini la sera si disponevano a formare un grande cerchio, intorno a covoni di mais e procedevano, dapprima, all’asportazione delle “stuglie” esterne delle spighe e, poi, all’asportazione dei chicchi, aiutandosi con utensili appuntiti (chiamati spuntoni).
L’evento era accompagnato dal racconto di aneddoti e ricordi da parte degli anziani. Le pannocchie migliori (‘e spighe ‘e graurine) venivano selezionate per la semina dell’anno successivo ed erano conservate sotto gli androni o volte, appese a forma di grappoli, insieme a “pennoli” di pomodori, sorbe (sovere), cachi (legnasante) e meloni (mullune ‘e pane).

   Scorcio della Masseria vista dalla stradina detta "Carrara", 2000

L’”aria” (detta anche aire) era utilizzata per eseguire l’essiccazione delle derrate agricole prodotte nella campagna. Essa veniva anche utilizzata per bacchiare i cereali ed i legumi e, ancora, per svolgere le attività domestiche e ludiche. Di questo spazio e delle lavorazioni che in esso si eseguivano, daremo un’ampia descrizione nei post futuri.
Negli spazi aperti della masseria era solito assistere al razzolare del pollame, insieme ad anatre ed oche. Spesso, come in primavera, le chiocce portavano in giro i pulcini appena nati.
Il pozzo non era altro che una grossa cisterna interrata in tufo, destinata al contenimento dell’acqua piovana raccolta dai tetti degli edifici, convogliata in esso attraverso una serie di canalizzazioni. L’acqua veniva poi prelevata mediante un secchio legato ad una corda di canapa, attraverso un “mulinello” in legno (Tròciola). L’acqua raccolta dal pozzo era riservato agli usi domestici e per abbeverare il bestiame.
Altra struttura comune era una grossa pietra vesuviana che era presente al centro della masseria. Questa era una grossa pietra lavica, con la superficie a vista ben levigata e veniva utilizzata dalle donne e dalle ragazze per la lavorazione del lino occorrente per realizzare la dote per le nozze.

Una giornata trascorsa in masseria…
Come è logico pensare, la vita nella masseria si svolgeva nel corso della giornata in ambienti diversi, con l’interessamento anche delle campagne ad essa collegate. Durante il giorno, si frequentavano i locali e le zone, poste ai piani bassi della masseria (‘o vascio), mentre, di notte, si era soliti abitare nelle camere poste ai piani superiori (‘a cammera). La sveglia per tutti gli abitanti era fissata di buon mattino, al primo canto del gallo, ossia intorno alle quattro. Occorreva per prima cosa mungere le mucche e, poi, a seguire, pulire e governare tutti gli altri animali presenti nella stalla. 

Masseria Torre Gualtieri, dal lato della via V. Miano a Piscinola, 2000

Alle prime luci dell’alba gli uomini si recavano nei campi per eseguire le attività agricole, mentre le donne si dedicavano alla cura della casa e alla preparazione del pranzo. Intorno a mezzogiorno si faceva un pranzo frugale, consumato sul posto di lavoro.
Le donne trasportavano in grosse zuppiere avvolte in un panno, detto “muccaturo”, un unico pasto destinato ad alimentare tutti gli addetti ai lavori. Il vino, naturalmente, durante e dopo il pasto non doveva mancare mai ed era trasportato in “mummare” di terracotta o in fiaschi impagliati. Non si faceva uso di bicchieri.
Si continuava poi a lavorare fino all’imbrunirne. Le donne preparavano la cena e si dedicavano alle attività secondarie, come al ricamo, oppure alla preparazione delle conserve. Quando gli uomini ritornavano dai campi, si eseguiva la seconda mungitura delle mucche e si governava di nuovo gli animali con fieno e graniglie varie.
Al termine dei lavori, i contadini rincasavano nei “bassi” e si sedevano accanto ai focolari aspettando la cena. La cena era costituita quasi sempre da minestre, oppure da ortaggi vari, cucinati in maniera semplice, posti in un’unica zuppiera ed “esposta” alle posate di tutti i familiari. Al termine del pasto, i vecchi raccontavano alcuni racconti ai bambini seduti attorno al focolare scoppiettante e si andava presto a dormire.

Foto di famiglia nella masseria "Renza 'e Vascio", foto di Ferdinando Kaiser

Le unità di misura adoperate nella società agricola di un tempo
Le unità di misura adoperate nel mondo rurale hanno origini antichissime e variavano sensibilmente in rapporto al territorio. Citiamo quelle più utilizzate nella nostra zona e, quindi, nel nostro esempio citato:
Misure di superfici:
1 moggio (aversano) detto “mojo”     3.364 m2, ossia 0,3364 ettari
1 “quarta di terra”                               336 m2
Misure di capacità:
1 “tummolo"    (misura di granaglie) 0,54 ettolitri, ossia 54  kg ca.
1 “votta”                                             500 litri circa
1 “mezza votta”                                  250 litri circa
1 “carrato”                                          308 litri circa
1 “varrile”                                           44 litri circa
1 “carratiello”                                      35 litri circa
1 “quartarulo”                                     11 litri circa.

Foto dei ruderi della Masseria, in fase di demolizione, marzo 2002

Purtroppo l’antica masseria “Torre Gualtieri” nel tenimento "Marchesa di Rutigliano" di Piscinola, è stata miserevolmente abbattuta nella primavera del 2002, per far posto ad un “piccolo e oscurato” giardino pubblico, ancora senza nome, progettato e realizzato nell’ambito del “programma di ricostruzione del dopo terremoto”.

Forse l'utilizzo dell'antica struttura poteva essere più utile per la comunità e soprattutto più nobile per la sua storia, se finalizzato alla conservazione e alla realizzazione di un "Museo stabile della tradizione contadina del territorio", come è stato fatto a San Pietro a Patierno nella "Masseria Luce", oppure come si propose nella mostra estemporanea dell'anno 2004, di realizzare un "Museo del ricordo di Piscinola-Marianella". 
Masseria Torre Gualtieri nella mappa dell''800 di Piscinola
Purtroppo questo progetto, tutt'oggi, è stato sempre trascurato e disatteso da parte di tutti...

Il contenuto del presente post è stato completamente tratto dal libro: "Piscinola, la terra del Salvatore. Una terra, la sua gente, le sue tradizione", di S. Fioretto, ed. The Boopen, 2010.

Per questioni di spazio del blog, seguirà una "terza parte" del post, con il continuo dell'elenco delle masserie esistenti nel territorio e tante altre foto.
Salvatore Fioretto

 

Bozzetto allegorico di Piscinola, composizione grafica di S. Fioretto


venerdì 22 gennaio 2021

Don Luigino Iommelli, un marianellese innamorato di Sant'Alfonso...

Già qualche tempo fa scrivemmo un post dedicato a  tutti i "frutti" che sono nati dall'esempio trasmesso dal grande Sant'Alfonso. A quell'elenco di Santi e di Beati dobbiamo aggiungere anche la storia di questo povero ragazzo, anch'egli nativo di Marianella che, appassionato della vita del gran Santo redentorista, volle dedicarvi tutta la sua giovanissima e breve vita, frequentando l'educandato alfonsiano, con la speranza di farsi presto Missionario Redentorista. Si chiamava Luigi Iommelli. Il giovane seminarista, purtroppo, morì prematuramente per un brutto male, quando non aveva compiutò ancora 27 anni. Lo ricordiamo oggi, riportando la cronaca dell'epoca, al momento della sua dipartita, scritta nel giornale periodico di Pagani, del mese di settembre 1950:

E’ volato al cielo il piccolo missionario Luigino Iommelli.

Marianella 7 novembre 1933, Napoli 11 agosto 1950.
11 agosto 1950. Un altro piccolo missionario del nostro Educandato volava al cielo ad accrescere la schiera dei 7 compagni che ivi fanno corona a S. Alfonso.
Ebbe comune la terra natia con S. Alfonso, Marianella di Napoli, dove sbocciava il 7 febbraio 1933. Nella chiesetta del Santo trascorse la sua fanciullezza quale chierichetto, eccellendo fra tutti per la sua pietà. I suoi genitori non ebbero di che rimproverarlo. E S. Alfonso lo scelse per la sua Congregazione.
Sacrificando gli affetti più cari entrava nel nostro Educandato, dove nei cinque che sono di ginnasio seppe valorizzata la sua innata bontà col fermo proposito di diventare ogni giorno migliore.
Fu devotissimo del S. Cuore e della Madonna. Nei mesi di maggio e giugno era solito ornare a sue spese la cappella dell’Educandato.
Le missioni estere, il suo sogno costante. Con quanto entusiasmo me ne parlava un giorno a Marianella. Lo confidò al M. R. P. Provinciale e negli ultimi giorni, anche per iscritto a un nostro missionario della Calabria.
E come era grande il suo attaccamento alla vocazione! Ne sono eloquente testimonianza le parole confidate in un intimo colloquio al P. Direttore: “Padre, ieri  sera ho pianto ed ho pregato il Signore di farmi piuttosto morire che abbandonare la Congregazione…". Per assicurare la sua permanenza nell’Istituto volle sottoporsi alla difficile operazione, le lo portò alla tomba.
Con questo coraggio accettò il grande sacrificio. Non volle che altri lo ponessero sul tavolo operatorio, ma vi volle salire da se’.
Prima si inginocchiò  e si raccolse un istante in preghiera. Forse – divino segreto noto agli Angeli – avrà ripetuto con più fervore la sua totale donazione a Gesù per la vita e per la morte. A chi voleva compiatirlo nei suoi acerbi dolori dopo l’operazione, seppe rivolgere queste mirabili parole: “Che cosa è il mio dolore in confronto di quello di Gesù? Non voglio essere compatito…".
Gesù lo vide troppo bello e lo colse per sé. “Vedete, il S. Cuore mi chiama e mi vuole vicino a se…" furono le sue ultime
parole.

Scritto da P. Vittorio M. Errichiello (p. redentorista), in "S. Alfonso, rivista di apostolato alfonsiano", mensile, anno XXI, n.9, settembre 1950, Pagani (SA).

Questi sono i personaggi che ci trasmettono un grande esempio di vita e pertanto li teniamo cari nei ricordi della storia del territorio, e nei nostri ricordi, nei nostri cuori...

Salvatore Fioretto

sabato 16 gennaio 2021

Le "aziende agricole" del passato: Le Masserie (prima parte)

Masseria "Renza 'e Vascio" (Lenza di Basso), foto Ferdinando Kaiser
Tra l’XI e il XIII secolo, a seguito dell’abolizione della “servitù della gleba” e alla nascita dei Comuni, si giunse ad una più libera conduzione dei fondi agricoli, con l’introduzione del contratto enfiteutico, mentre subentrò, anche nell'Italia meridionale, seppur con caratteri ancora feudali, un’organizzazione del lavoro di tipo autarchico, volto allo sfruttamento intensivo di grosse estensioni di terreni. Questo tipo di organizzazione del lavoro nelle campagne comportò una sorta di “ricolonizzazione” del territorio e la nascita di costruzioni edilizie di tipo fortificato, disposte “a corte”, che furono identificate con il termine di “masserie”. 
Mappa della Terra di Lavoro olim Campania Felix, 1666
Tuttavia queste tipologie di costruzioni non erano tanto una novità per il nostro territorio, perché in epoche anteriori esistevano, pur non numerose, delle strutture edilizie molto simili, di origine antiche, rappresentate dalle cosiddette “villae rusticae” di epoca romana. 
I recenti scavi archeologici, condotti dalla Sovrintendenza nella zona della masseria del “Carduino” (o Cardovito) a Marianella,  hanno portato alla luce una struttura complessa, di questo tipo, realizzata “a corte”, datata I-II secolo d.C.; mentre resti di un'altra struttura antica, verosimilmente di questo tipo, datata I secolo d.C., è stata rinvenuta in via Gobetti a Scampia.
La parola “masseria” indica una piccola azienda condotta da un “massaro”, termine derivante dal Latino Medievale: “massarus”, dalla parola “massa”, ovvero: insieme di fondi.
Ecco come definisce il termine di “Masseria” la famosa enciclopedia Treccani: "Masserìa (ant. o region. massarìa) s. f. [der. di massaio, massaro]. – 1. L’azienda rurale diretta da un contadino (massaro) secondo il contratto di colonìa parziaria. 
2. Con sign. storici: a. Tributo in natura e in prestazioni personali che il massaro doveva al signore. b. L’ufficio del massaio sia come amministratore di una massa (insieme di fondi), sia come amministratore delle pubbliche entrate; anche l’amministrazione stessa e il modo di amministrare."
A differenza dei Casali, che erano aggregazioni preesistenti di periodo antico o tardo-antico, legate alla comunità da un vincolo di tipo politico-amministrativo, le "masserie" erano invece delle strutture più recenti, meno stabili dei primi e legate più alle colture agricole che al governo del territorio. Erano, in pratica, delle strutture organizzate per la conduzione dei fondi e per le lavorazioni delle derrate prodotte, un po' come quelle che oggi noi chiamiamo con il termine di "Azienda agricola".
Resti archeologici della villa rustica romana al Carduino

Il processo di trasformazione del territorio fu molto letto, infatti occorrerà attendere il XVI-XVIII secolo per vedere completata la realizzazione di quelle strutture edilizie caratterizzanti il nostro territorio agricolo, che sono le note masserie.
Nelle campagne del territorio attorno Napoli, come in quelle di Piscinola, Marianella, Frullone, San Rocco, Chiaiano, Miano..., sorgevano in passato numerose masserie. Nel caso di Piscinola, ad esempio, alcune masserie erano possedute dai parroci di Piscinola, come quella di Don Carmine Danese ubicata a sud, nella zona detta del “Viscariello”
Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser
Un altro sacerdote, Don Giuseppe Castigliano (o Castigliardo), possedeva una masseria che in antico tempo era del marchese di Carmignano, poi del conte D’Afflitto e poi, ancora, divenuta di proprietà della famiglia dei principi De Luna. Pure i conventi ed i monasteri cittadini possedevano a Piscinola diverse masserie e terreni annessi (“tenimenti”), come il monastero di S. Patrizia (15 moggi), il monastero di S. Agostino alla Zecca (120 moggi), il monastero di San Pietro a Castello (3 moggi), il monastero di S. Giovanni a Carbonara, il monastero di S. Maria degli Angeli, così pure anche i monasteri della Misericordia e quello di Donnaregina, possedevano a Piscinola dei loro “tenimenti”.
In un manoscritto del Tutini è annotato che: “…una tale Filippella, moglie di Giovanni Acciapaccia di Sorrento e madre di Maddalena, nel 1464 donò un terreno a Piscinola all’abate di S. Cristoforo a Capuana
Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser
(
Ms. Tutini III fl. 243 v., De Lellis Discorsi I, 244).
I Gesuiti possedevano nel Casale di Piscinola, al momento della loro espulsione dal Regno delle Due Sicilie (1767), ben 58 moggi di terreno, con un reddito di 693 ducati, sicuramente includevano anche delle masserie per la loro conduzione.
Interessante è la contesa sorta tra la parrocchia di Piscinola e quella di Marianella sulla giurisdizione ecclesiastica della masseria di S. Giovanni, poi ritenuta definitivamente appartenere al territorio piscinolese.
Alcune di queste masserie sono sopravvissute fino ai nostri giorni, anche se sono state profondamente trasformate ed adattate agli usi moderni; altre, invece, sono state distrutte negli ultimi decenni per fare posto ai programmi di edilizia popolare o semplicemente per realizzare infrastrutture di pubblica utilità, come strade o ferrovie.
Masseria Renza 'e Vascio, a Marianella, foto di F. Kaiser
 Nella mappa redatta dall’ingegnere Camerale Giambattista Porpora nel 1779, si possono individuare, con un po’ di attenzione, le masserie un tempo situate a Piscinola e zone adiacenti essa, in particolare nella zona meridionale del Casale e quelle dei sobborghi di San Rocco e del Frullone. 
Troviamo le masserie denominate: “del Principe di Belvedere”, “del Monte dei Carafa”, “del Principe De Luna”, “dei Padri di S. Agostino alla Zecca”, “dei Padri di S. Giovanni a Carbonara”, “di Gennaro Gugliemaccio”, “di Don Nicola Pacifico”, “del Parroco di Piscinola Don Carmine Danese”, “di Lorenzo Castigliardo” (erede del sac. Don Giuseppe Castigliardo, già appartenuta al marchese Di Carmignano). Si rilevano, anche, la “Casa e Cappella De Luna” ed i ponti di “Piscinola” e di “S. Rocco”.
Ecco alcuni brani tratti dal manoscritto di Giambattista Porpora: “Premessa alla Configurazione della città di Napoli e i suoi casali per l’Arrendamento della farina anno 1779”. Il percorso descritto può esser seguito sulla mappa redatta dallo stesso G. Porpora.
Masseria Renza 'e Coppa, a Marianella, foto di F. Kaiser
“[…]Sulla via pubblica a destra che conduce nel Casale di Piscinola secondo la direzion di Settentrione, nell’angolo di detta via sta situato l’arco di fabbrica chiamato arco di Piscinola, che il Tavolario D’Urso li diede il nome di Portone della Masseria di Don Benedetto Valtitaro […], mediante la distanza di 56 passi si arriva nella prima via a sinistra, della descrizione in un vallone d’acqua, che passa sotto il ponte di fabbrica denominato anche di Piscinola, ed indi si perde nelle masserie, per la quale via camminandosi secondo la direzione d’Occidente dopo la distanza di passi 60 si giunge nel confine tra la masseria, che porzione se ne possiede da D. Domenico Sorrentino e porzione è dedotta nel patrimonio di D. Belaggio Sorrentino, che nel 1698 era degli eredi del sig. Francesco de Liguoro, e la masseria che presentemente è nel dominio del Razionale D. Domenico Paziente, e nel 1698 si possedeva da D. Benedetto Valdetara, oggi marchese Valdetara […], 
Mappa dei dintorni di Napoli
seguitandosi a camminare per la stessa via, e poi per il vallone d’acqua che la sussegue secondo la direzion d’Occidente, dopo la distanza di passi 80 si giunge su anzidetto ponte, e proprio nella via pubblica, che a sinistra porta nella cappella chiamata di S. Rocco ed a destra conduce a Piscinola […]. 
Da detto ponte rivoltando a man destra, e camminandosi per la via pubblica che porta a Piscinola colla direzione di Settentrione, dopo la distanza di passi 85 si trova a man sinistra la via pubblica per cui si va a Marianella, ed indi mediante la distanza d’altri 215 passi si giunge in un bivio, donde lasciandosi la finora scorsa via che conduce a Piscinola secondo la direzione di Settentrione, e proseguendosi il cammino per quella a sinistra, la quale anche porta a Piscinola, ma colla direzione d’Occidente, dopo la distanza di passi 95 si trova la prima via pubblica anche a destra, tutt’e due le quali siccome portano parimenti a Piscinola, così lateralmente s’inserrano il giardino colla casa e cappella del Principe di Luna. 
Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser
Termina in questo luogo la linea di confinazione entra il Ristretto di Napoli e ‘l Tenimento del Casale di Piscinola, la quale principia dall’anzidetto ponte, includendo ella a sinistra nella giurisdizion dell’ Arrendamento le due masserie che nel 1700 caddero anche nella controversia, come dissi di sopra, cioè quella del Monastero di S. Agostino alla Zecca e quella del Monastero di S. Giovanni a Carbonara, ed escludendo a destra la linea di confinazione medesima in Tenimento di Piscinola la stessa poc’anzi descritta massaria del R.do Parroco di Piscinola D. Carmine Danese, quella di D. Giuseppe Castigliardo, che anticamente era di Carmignano porzion della massaria del Monte di Carafa e la massaria col giardino, casa e cappella del Principe di Luna, come osservasi nella pianta che sussiegue […]”.
Mappa topografica dell'Area Nord di Napoli con evidenziate le masserie sopravvissute, XX sec

Un tempo le masserie erano molto diffuse nel territorio della provincia di Napoli, ma anche in tutto il meridione di Italia, basti pensare che nel solo agro giuglianese, nell'anno 1793, risultavano censite circa 119 masserie.

Mappa topografica con evidenziate le masserie sopravvissute, XX sec (in rosso ferrovia Piedimonte)
Le masserie erano un tempo considerate delle emergenze architettoniche e pertanto utilizzate per identificare il territorio, che come è noto era estesamente ed intensamente tutto agricolo; esse venivano menzionate nei documenti ufficiali, come nelle carte rogate, o nelle prammatiche, i loro nomi venivano utilizzati dalla popolazione per identificare le località e col tempo essi sono diventati dei toponimi dei luoghi, anche se le relative strutture non esistono più. A Miano, ad esempio, c'è ancora un posto che viene indicato dagli abitanti di Piscinola, "'Ncopp''a masseria 'e Miano" (incrocio via Janfolla con via Veneto), perché in quel luogo in passato era presente una di queste strutture antiche.

Nel seguito riportiamo l'elenco, che risulta ovviamente approssimativo, delle antiche masserie che un tempo erano presenti nel territorio compreso tra Mugnano, Piscinola, Scampia, Marianella e Miano. Molte di queste strutture non esistono più perché abbattute o perché sono state trasformate nel corso dei secoli; per conoscere la loro esistenza e la denominazione si è fatto ricorso alla consultazione delle mappe dei dintorni di Napoli del XVIII-XIX secolo. Non escludiamo che nell'elenco qualche massarie sia stata ripetuta con denominazioni diverse avute nel tempo.

Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser

Piscinola e Scampia:
-Masseria Splendore (Cascella)
-Masseria Grande (detta "Ciucciaro")
-Masseria Carrasiello
-Masseria della Filanda
-
Masseria Torre Gualtieri (Marchesa di Rutigliano)
-
Masseria Belle Donne (o Perillo)
-Masseria di proprietà della famiglia De Luna di Aragona
-Masseria San Giovanni a Carbonara
-Masseria Donnaromita (Scampia)
-Masseria "li Bianchi" (Scampia)
-Masseria Vecchione (Scampia)
-Masseria Scampia, con annessa cappella di S. Antonio
-Masseria Aja
-Masseria Fruscio

Marianella:
-Masseria Croce
-Masseria Iodice (detta in gergo "Case Durece")
-Masseria Cardovito (o Carduino)

-Masseria Renza ‘e Vascia (Lenza Basso)
-Masseria ‘a Coppa (detta Renza 'e Coppa)

-Masseria San Giovanni, a Marianella
-Masseria S. Agostino della Zecca (Frullone).

Masseria "del Maranese" (Miano)

Da alcuni documenti storici si rilevano le seguenti masserie, esistenti tra Piscinola, Marianella e lo Scampia, non identificate fisicamente:
-Masseria Olim (dei padri Agostiniani a Scampia), con cappella di Santa Monaca
-Masseria Olim (dei padri Carbonaristi a Scampia), con cappella di San Giovanni
-Masseria Moscariello (forse per il nome dell’antica località di Piscinola chiamata "Mascarella")
-Masseria di don Giuseppe Castigliardo (già proprietà del marchese di Carmignano)
-Masseria dei Liguori (di proprietà di D. Francesco de Liguori). 

Mugnano:
-Masseria Torricelli (detta anche "Torricello")
-Masseria
"Caracciolillo"
-Masseria Vialletta (detta anche "Valletta" o "Galletta")
-Masseria Siciliano
-Masseria l'Epitaffio (dove morì Giuseppina Bianco)
-Masseria Conte di Lucina (detta anche
"San Gaudioso")
-Masseria del Fi
co
-Masseria dei Vulpes (annessa alla casa nobiliare, detta anche "Turco")

-Masseria Croce

Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser

-Masseria Gangiano 
-Masseria Ruggiero
-Masseria Menna
-Masseria Stasio
-Masseria Mascati (forse masseria Grande)

-Masseria Maisto

-Masseria Mango
-Masseria Scotto
-Masseria Terracciano
-Masseria Paparelle

-Masseria Napolano
-Masseria Parisi
-Masseria Pastena
-Masseria Nova (lato Melito)

-Masseria Campo d'Isola
-Masseria Severino

-Masseria Pilone
-Masseria Bianca

Probabilmente la masseria del "Conte di Lucina" e quella di "Campo d'Isola" coincidono.

Miano:
-Masseria San Pietro Martire (detta "‘o Monaco", era appartenente ai domenicani di San Pietro Martire)
-Masseria Cardone
-Masseria Russillo
-Masserie del Monte (della famiglia Carafa)
-Masseria
Barese (o Barrese)
-Masseria Perrone
-Masseria
Macedonio (della famiglia Macedonio), con annessa cappella di Sant’Antonio
Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser

-Masseria Monaca
-Masseria
Sarnataro (Frullone)
-Massaria
"lo Maranese" (Bellaria)
-Masseria
Polanella (dall’antico Casale di Pollanella)
-Masseria Didio

-Masseria Paziente
-Masseria Valderaro
-Masseria Marinola
-Masseria Roma

-Masseria de Angelis
-Masseria Salzano
-Masseria Tutore
-Masseria Banca
-Masseria Tramontano
-Masseria Luzio
-Masseria Cavarella
-Masseria Russo
-Masseria Merolla
-Masseria S. Angelo
-Masseria Ronca
Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser
Nella seconda parte del post, dedicato alle masserie, descriveremo l'organizzazione degli spazi e le attività svolte negli ambienti di una masseria tipo, prendendo ad esempio una struttura agricola un tempo esistente nel quartiere di Piscinola. Continueremo, inoltre, con l'elenco delle masserie del territorio, riportando quelle esistenti a Chiaiano, Capodimonte, Mianella e Secondigliano.
 
Un ringraziamento speciale all'amico fotografo, Ferdinando Kaiser, per averci consentito di inserire le sue foto in questo post, con alcune riprese delle masserie del Carduino e di Renza  Vascio e Renza Coppa, di Marianella.

Salvatore Fioretto

Masseria del Carduino, Marianella, foto di F. Kaiser