domenica 16 settembre 2018

San Gennaro, il Concittadino, il Patrono, il Difensore (Card. Castaldo, lettera pastorale alla città, settembre 1964)



Per la solennità di San Gennaro, che è alle porte, pubblichiamo un'appassionata lettera scritta dal cardinale di Napoli, Alfonso Castaldo, in occasione della ricognizione canonica delle reliquie di San Gennaro, avvenuta nel "Succorpo" della Cattedrale, nel mese di marzo dell'anno 1964.
Grazie al card. Castaldo, i resti di San Gennaro (quelli scoperti nel 1497 dietro all'altare maggiore di Montevergine e poi, una volta condotti in città, murati nel "Succorpo" del Duomo di Napoli), furono rinvenuti, dopo diversi tentativi di indagini, ed esposti al pubblico culto dei napoletani, come si vede tutt'oggi.
Card. Alfonso Castaldo
Furono sistemati in una preziosa urna d'argento, costellata di coralli e cammei, dono personale di Castaldo alla città.

Alfonso Castaldo, nacque nella vicina cittadina di Casoria, il 6 novembre 1890. Dopo essere stato vescovo di Pozzuoli, fu nominato arcivescovo di Napoli, nel maggio nel 1952. Ha retto la diocesi napoletana per 14 anni.  Morì a Napoli, il 3 marzo 1966.

Con la lettura del testo, richiamiamo l'attenzione sul termine di "Concittadino", che ricorre più volte e a pieno titolo nella lettera del card. Castaldo.
Reliquiario d'argento dono del Card. Castaldo
Le parole del Presule confermano, assieme alla tradizione, alla leggenda e alle testimonianze monumentali, anche se dedotte, che San Gennaro è napoletano, perché nato a Neapolis.
Anche gli Atti del Martirio (Passio "Atti Bolognesi") lo fanno ampiamente dedurre, riportando nel racconto del martirio del Santo e dei commartiri, avvenuto l'anno 305 d.C., che, nel mentre i Misenati e i Puteolani prelevarono i resti dei loro concittadini martiri (Sossio, Procolo, Eutiche, Acuzio) e, alla pari, i Beneventani, prelevarono quelli del loro diacono Festo e del lettore Desiderio (anch'essi loro concittadini), ai Napoletani furono riservati i resti del Vescovo Gennaro... Potevano mai i Beneventani lasciare in modo pacifico ai napoletani, se non avessero avuto titolo, i resti del loro autorevole cittadino, il loro Vescovo, pensando solo a un diacono e a un lettore...?
Cappella del Tesoro di S. Gennaro. Domenico
Zampieri (detto Domenichino),
San Gennaro abbraccia il diacono Sossio
E' scritto infatti che: "... Di notte poi, mentre ciascun popolo premurosamente si preoccupava di rapire i propri patroni, i napoletani meritarono dal Signore di prendere il beato Gennaro come Patrono... (Noctu vero cum unc quaeque plebs sollicite suos sibi Patronos rapere festinarent, Neapolitani beatum Januarium sibi Patronum tollentes a Domino merue-runt). 
Oggi, invece, da più parti, anche da fonti e personaggi autorevoli, si attribuisce a Benevento la natalità di San Gennaro, questo senza fondamento e senza alcuna prova certa... 

Ecco il testo della lettera pastorale del card. Castaldo:
"San Gennaro, il Concittadino, il Patrono, il Difensore.

Accanto all'altare del succorpo abbiamo, nella sera del 25 febbraio 1964, gridato con umiltà e commozione: "Te votis mentis et cordis expetitum inventumque recognovi - Clero Populo ostendi, Ianuarii, civem, patronum, vindicem". Come dire: "Cercavamo con la mente e col cuore: trovammo ciò che avevamo desiderato e al Clero e al Popolo indicammo il cittadino, il patrono, il vindice.
Ricordate! 
Il nostro Concittadino.
Il cittadino, perché San Gennaro è figlio della nostra Napoli, e fu certo tra i figli che più illustrarono questa città meravigliosa per bellezze naturali, per storiche vicende, per imprese generose, soprattutto per quella Fede che non le è mai venuta meno, ma che ha scritto pagine luminose di trionfi e di vittorie. San Gennaro è al centro della nostra storia, per cui è impossibile non vedere la Sua presenza nella lunga serie di 17 secoli, attraverso vicende ora liete, ora dolorose, ora umili, ora fatidiche, mentre a Napoli lo scettro di un Regno che fu, passava dai Bizantini ai Normanni, dagli Svevi agli Angioini, dagli Aragonesi ai Viceré di Spagna. E tutti si inchinarono alla gloria del Martire invitto. 
Il nostro Patrono.
Il Patrono, il Patrono vigile, il Patrono potente che arresta la lava distruggitrice del Vesuvio, che vince le pestilenze, libera dai terremoti, difende dai saraceni, doma i bellici furori. Egli, pietoso ed efficace nelle pubbliche calamità, non dimentica i singoli protetti, che sono suoi fratelli, che sono suoi figlioli. Su ogni casa Gennaro rivolge il suo sguardo, allunga la sua mano, stende il suo manto. Preserva dai mali non solo del corpo, ma anche dell'anima, alimentando una Fede, forse semplice, forse ingenua, ma viva, cristallina, come il nostro cielo, come il nostro mare, luminosa come il nostro sole, ardente con il nostro vulcano.
Questa Fede Egli ha alimentato nei nostri petti, suscitando nei tempi, in Napoli, una fioritura di santità e di opere di beneficenza per recare conforto a ogni miseria e a tutti i dolori della vita. 
Il nostro Difensore. 
Cittadino, Patrono; non basta: Egli è il Vindice, è il Difensore, che sopra tutto difende la nostra libertà di Figli di Dio, con la forza del miracolo che più volte vediamo rinnovarsi sotto i nostri occhi, che ricorda la trascendenza dello spirito sulla materia, della Fede sulla ragione, della Grazia sulle naturali risorse, del divino sull'umano. E' vera, autentica libertà, che anche tra le strette della povertà dà alla nostra gente la forza e il coraggio di resistere alle insidie malevoli di coloro che mentre parlano di libertà preparano le ritorte della schiavitù. San Gennaro ci fa cantare tra le tribolazioni, sotto il nostro Cielo, dinnanzi al nostro mare, perché oltre il Cielo ci fa intravedere il Paradiso, di cui, al di là dell'oceano, ci indica il porto."
card. Alfonso Castaldo

Auguri a tutti i lettori che portano il nome di "Gennaro"!



Basilica di S. Restituta: Lello da Orvieto, la Madonna del Principio tra i santi Gennaro e Santa Restituta (mosaico, 1323).



domenica 9 settembre 2018

Quel Poggio tanto amato da re Carlo di Borbone!


La collina di Capodimonte, che per tanti secoli ha fatto da contraltare naturale al panorama della città, si erge in mezzo alle colline di Poggioreale e di Sant’Elmo, ma, nonostante questa posizione predominante sulla città, essa è sempre stata poco valorizzata, con opere di interesse di Stato, dalle varie dinastie che si sono succedute nei secoli alla guida del Regno o Viceregno di Napoli, prima del XVIII secolo.
Con l’avvento della dinastia dei Borboni, questo sito, come vedremo, diventerà un "baricentro" del nascente Regno, almeno fino al completamento della reggia di Caserta.
Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna, Filippo V e di Elisabetta Farnese, ebbe a ereditare, per l'abile diplomazia materna, il ducato di Parma e Piacenza, ma, poi, grazie a una serie di eventi storici a Lui favorevoli, riuscì a conquistare il regno di Napoli, nel maggio del 1734, allora in mano agli austriaci da circa 30 anni, con un traballante viceregno.
Con Carlo le sorti di questa collina cambieranno radicalmente, fino ad ospitare la prima residenza reale voluta dal giovane monarca, assieme al giardino e al boschetto, adatto per soddisfare il suo vezzo per la caccia. Seguiranno poi le regge di Portici, San Leucio e Caserta, e i casini di caccia di Carditiello, Fusaro, Licola e tanti altri.
Conosciuta fin dall’antichità, con il toponimo di Ara Vetus, qui in periodo medioevale era presente un piccolo villaggio, chiamato Ianula, purtuttavia il sito di Capodimonte, con il suo circostante distretto e Casali, erano penalizzati a causa della tortuosità della vie di accesso dalla città, che erano per lo più antichi letti di torrenti o ruscelletti, che defluendo da secoli avevano scavato dei percorsi nel tufo giallo napoletano, utilizzati poi come vie di comunicazione, tra cui lo Scudillo, alla Sanità e il Moiariello, ai Vergini/Sanità.
Capodimonte era (e lo è tutt’oggi) un luogo ameno e incantato, dai cui terrazzamenti e risalti naturali si poteva godere un magnifica veduta del golfo, diremo quasi a "180 gradi", includendo le viste di Sant’Elmo, dei Camaldoli, di Capri, di Sorrento, di Monte Faito, del Vesuvio, fino alla catena dei monti Lattari, ma non era per niente agevole raggiungerlo! Proprio per questa difficoltà, fino alla nascita del sito reale, non fu luogo appetibile dai nobili e dagli aristocratici per erigere le loro ville estive, fatta eccezione per il reggente Miradois, che per la sua residenza seppe sfruttare l’isolamento del luogo, allo scopo di difendersi da eventuali rappresaglie popolari.
Per la scelta di Capodimonte quale sede de primo sito reale della corte borbonica (il primo in assoluto fu la riserva di caccia di Procida confiscato alla famiglia Avalos, perché filo-austriaca), fu determinante la grande passione venatoria nutrita dal giovane Carlo; fu proprio questa passione a far decidere che questa diventasse una riserva di caccia reale, anche perché situata non lontano dalla Capitale.
La sua scelta risale al 1735, appena un anno dopo l’insediamento di Carlo sul trono di Napoli. Già a settembre del 1734 Carlo fu ospite a Capodimonte nella residenza della famiglia Carmignano e potè apprezzare e appassionarsi al sito, come si può leggere nel libro, “Lettere ai sovrani di Spagna, 1720-1734”, ed. Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2001: “Il 17 e il 18 (settembre 1734) Carlo andò «alla caccia de' volatili» nella villa del Marchese Carmignano a Capodimonte”.
La collina di Capodimonte dava posto, a settentrione, a una fertilissima campagna leggermente degradante verso la piana casertana, disseminata di masserie e tenimenti di proprietà di chiese napoletane, conventi e famiglie nobili dell’aristocrazia napoletana di seggio e non, e poi costellata da un fitto numero di Casali e di borghi. Come è facile immaginare, la nascita del sito reale fece mutare un equilibrio socio-economico del territorio consolidato da secoli, territorio che godeva di una intensiva, anche se poco organizzata, produzione agricola locale; questo perché diversi ettari di campagna furono espropriati per fare largo a viali, aiuole, aree boschive, edifici vari e anche una chiesa, mentre tanti altri appezzamenti furono frazionati per dare spazio a nuove strade di accesso e larghi pubblici.
Tra i fondi, tenimenti e masserie espropriate, troviamo i seguenti beni: il fondo appartenuto alla Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro (ottenuto per lascito), circa ottanta moggia, comprendente una masseria (Masseria della Torre) e una specie di fortino, che saranno inglobati e adattati al parco; il fondo era coltivato con colture (nocciole, orzo, lino e viti), arbusti, giardino e un bosco.
La Masseria della Torre fu subito utilizzata per la produzione agricola, infatti aveva fruttifere e un giardino segreto, inoltre era fortificata con mura alte, a scopo difensivo. 
Stessa sorte toccò al fondo della masseria San Potito (quarantacinque moggia), anch’esso coltivato a vigna. Poi c’era il fondo della monastero di Monte Vergine (nove moggia), del quale ne furono espropriati solo due. Ma il maggior contributo alla realizzazione del parco fu dato dal fondo di proprietà della famiglia Carmignano, marchesi di Acquaviva, con un territorio di estensione pari a ben 103 moggia, confinante con la strada per Miano. La proprietà rientrante nei confini del parco fu presa interamente, comprendendo un vigneto, una casa palazzata con giardino. La restante proprietà dei Carmignano, inizialmente esclusa perché fuori dal parco, fu successivamente requisita durante il Decurionato Francese, per far posto al Casino dei Principi e ad altri edifici.
Fu sacrificata anche la masseria Scannapieco (diciotto moggia), piantumata con fichi, viti (della qualità Lacrima Bianca e Lacrima Rossa), noccioli, pruni, e altri alberi da frutta, nonché un bosco di castagni.
Del fondo della masseria Ammendola furono in parte espropriati sette moggia, sui ventitré presenti.
Del fondo della masseria Favilla, appartenente ai duca di Presenzano, furono espropriati sessanta moggia.
Per la realizzazione del parco, con strade e ponti annessi, fu incaricato fin dal 1735, l’architetto di corte, Giovanni Antonio Medrano, autore poi del progetto (originario) del palazzo reale di Capodimonte, al quale fu presto affiancato l’architetto Canevari.
Purtroppo della conformazione settecentesca del parco di Capodimonte rimane l'impostazione, perché in parte modificata con la realizzazione del giardino romantico ottocentesco.
Il cosiddetto "Bosco di Capodimonte" fu circondato da una cortina di mura, in tufo, costruita tra il febbraio e l’aprile del 1736, la cui la lunghezza ammontante a ben sei miglia. Anche per la cortina di mura si interessò il Medrano.
Come è accaduto per la realizzazione della Reggia di Portici, che favorì la nascita del “Miglio d’Oro”, la realizzazione del sito reale a Capodimonte stimolò la nobiltà napoletana a realizzare nuove ville e residenze estive nei paraggi della reggia, in un territorio all’epoca in gran parte incontaminato. Molte di queste residenze sono degne di attenzione, anche se attendono dei restauri e una rivalutazione storica.
Dopo la costruzione della tenuta di caccia a Capodimonte, il re Carlo, nel 1737, decise di far costruire anche un “casino per comodo e diporto”, richiesta trasformata poi in una Reggia. Furono acquisite altre aree e posta una guardiania al territorio, nel mentre veniva ampliata la cortina muraria di recinzione.
Il marchese Carmignano di Acquaviva, che conservava la sua residenza all’interno del parco, fu incaricato dal re, nella primavera del 1736, ad acquistare e piantumare circa 52000 essenze botaniche (tra cui alberi da frutto, Alloro e Faggi), alcune delle quali sono ancora oggi nel parco che tutti ammiriamo… Furono poi introdotti molti volatili e alcuni esemplari di cinghiali.
Dopo aver realizzato il Casino delle delizie, re Carlo provvide a far partire i lavori della fabbrica del palazzo reale di Capodimonte. Per la costruzione del palazzo furono impiegati 400 operai e molti schiavi provenienti dalla Turchia.
Una volta liquidato il Medrano, nel 1742, entrò in scena l’architetto Ferdinando Sanfelice, che provvide a dirigere i lavori, e a progettare la chiesetta dedicata a San Gennaro (1745) e la Real Manifattura di Porcellane, adattando un fortino preesistente.
In quel periodo il parco era ancora in uno stadio iniziale, con un'estensione ampiamente inferiore a come lo conosciamo oggi; al parco si accedeva attraverso una “Porta grande”, oggi chiamata “Porta di mezzo”, ai cui lati c’erano i due edifici adibiti al ricovero del personale di guardia. La strada che vi accedeva era chiamata Real Strada di Capodimonte. Ai lati, poi, era posta una strada che conduceva a Napoli.
Per congiungere il parco all’area dove sarebbe sorto poi il palazzo reale, fu necessario abbattere la chiesa e il monastero di Sant’Antonio. L'operazione fu condotta durante il Decurionato Francese.
La Strada Reale di Capodimonte, che si sviluppava come si è detto all’interno del bosco, continuava verso Miano, attraversando con un ponte, il Vallone di Capodimonte. Anche la strada periferica al bosco continuava verso Miano (Croce di Miano), intervallando salite, a gradonate. Entrambe le vie attraversavano posti di dogana, perché entravano in territori soggetti a differenti giurisdizioni.
Il progetto originale del Sanfelice presentava, secondo la concezione settecentesca, allora in gran voga, un dedalo di viali che si aprivano a ventaglio, che creavano all’interno geometrie concentriche regolari, con assi perpendicolari e diagonali e con un equilibrato rapporto tra viali centrali, giardini murati, fruttifere e aree coltivate; il tutto contornato da alberi ad alto fusto che si componevano con altre geometrie disegnate e realizzavano una sorte di architettura all’aperto. Anche grazie alla sua esperienza scenografica, Sanfelice creò “fuochi” di prospettive e belvederi panoramici, con affaccio sulla città.
Per la direzione del Palazzo Reale, una volta morto il Sanfelice, subentrò l’architetto Astarita, ma i lavori procedevano sempre più a rilento, anche perché il re puntò la sua attenzione sulla realizzazione della Reggia di Caserta, che doveva apparire agli occhi del mondo come la "nuova" Versailles italiana.
Tuttavia il sito di Capodimonte fu utilizzato dal monarca come tenuta di caccia, nella quale si eseguivano, insieme a battute di caccia, anche feste e mense reali.
Intanto, tra il 1755 e il 1757, fu deciso di spostare nei locali appena terminati del real palazzo, la quadreria della Collezione Farnese, ereditata da Carlo, e la Reale biblioteca. Si deve però attendere l’avvento dei francesi per vedere adibita la reggia a residenza reale.Dal 1761 la direzione della interminabile real fabbrica di Capodimonte fu assunta dall’architetto di casa reale, Ferdinando Fuga, che restò per circa venti anni a dirigere l'opera, fino al 1780, quando per problemi di vecchiaia dovette rinunciare all’incarico.
Fuga arricchì la scenografia del parco, conformando a siepe (spalliere) la chioma degli alberi, ampliando i cortili con punti di sosta e belvederi e introducendo le statue in marmo all’inizio dei viali, nonché la poderosa statua del Gigante.
Al mantenimento del sito di Capodimonte, alla sua manutenzione e all'esercizio, fu necessario, fin dall’anno 1751, assumere un capo giardiniere e uno staff dedicato di operai; sappiamo che il primo capo giardiniere fu un francese, un certo Martin Biancour, a cui subentrò l’anno seguente il fratello Giovanni, perché Martin fu spostato, per lo stesso incarico nella Reggia di Caserta.
Il capogiardiniere era responsabile della manutenzione del verde del parco, della messa a dimora di nuove essenze; dirigeva quindi il lavoro di diverse squadre di operai giardinieri: in pratica era responsabile di una vera e propria azienda agricola interna al parco, il cui complesso produttivo era concentrato nella Masseria Della Torre.
Si doveva provvedere prima al soddisfacimento della “Mensa del Re” e, poi, alla commercializzazione dei prodotti eccedenti. Questa masseria, che conserva i caratteri settecenteschi, è stata recentemente restaurata.
Per migliorare la viabilità d'accesso al sito reale, bisogna attendere il Decennio Francese, nell'anno 1807 (regnava Giuseppe Bonaparte), per vedere realizzata una nuova strada per Capodimonte, con un ardito ponte in tufo, che superava il vallone della Sanità; una degna opera viaria (all'epoca corso Napoleone), che finalmente collegava agevolmente la città alla collina e al suo entroterra settentrionale.
A re Carlo di Borbone, meglio noto come Carlo III, per via della sua successione al trono di Spagna, si deve quindi la nascita di uno dei gioielli architettonici più ammirati e conosciuti in Italia e nel mondo, grazie alla collezione Farnese e grazie al fiorente e lussureggiante parco (Bosco), che domina e splende su uno degli scenari cittadini più belli e incantati del mondo: Capodimonte!
Salvatore Fioretto

Per la strutturazione del racconto e per diverse notizie, si è preso in riferimento il bel libro: "Il sito reale di Capodimonte", di Francesca Capano, ed. Federico II University press, a cui rimandiamo il lettore appassionato, la lettura di approfondimento.

Il racconto integra e completa il precedente post pubblicato, dal titolo "Piscinola, Secondigliano, Miano e Marianella: il giardino di caccia di Sua Maestà, il Re!" (http://piscinola.blogspot.com/2015/03/piscinola-secondigliano-miano-e.html).

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