venerdì 29 maggio 2020

Quel "mercato del lunedì", tanto atteso e mai arrivato... nel Comune di Piscinola!



Certe volte la storia di una comunità prende una strada che imprevedibilmente porta verso delle méte che non sono quelle attese nel momento iniziale... Basta un elemento non valutato, un anello che non si chiude, ed ecco che ci si ritrova ad affrontare scenari inattesi... Spesso, purtroppo, le ripercussioni di certe scelte, fatte a volte a cuor leggero, si ripercuotono per decenni e anche per secoli...
Questa è la storia di un atto amministrativo, che sanciva la richiesta per un mercato comunale da realizzarsi nel territorio del Comune di Piscinola, da tenersi nel giorno del lunedì, in simbiosi con altri due mercati, nei giorni del mercoledì e del venerdì, rispettivamente nei comuni di Mugnano e di Melito. 
Ricordiamo che Piscinola, al momento dell'Unità di Italia, era un Comune autonomo, con un sindaco e un consiglio comunale eletti. Il Comune di Piscinola era quindi aggregato al Mandamento di Mugnano, a cui facevano parte, oltre allo stesso Comune di Mugnano, anche i comuni di Calvizzano e di Melito. Il Mandamento di Mugnano dipendeva, poi, dal Distretto di Casoria. E' questa la struttura della Provincia di Napoli, ossia della suddivisione amministrativa realizzata dai francesi a inizio '800, durante il periodo del "Decennio Francese" e che è sopravvissuta quasi intatta fino a qualche anno fa: parliamo della Provincia di Napoli. Il Distretto di Casoria costituiva uno dei quattro "Distretti" che componevano la Provincia di Napoli; gli altri tre erano: Napoli, che inglobava tutti i quartieri cittadini, poi il Distretto di Pozzuoli e, infine, il Distretto di Castellammare. Dei quattro Comuni che costituivano il Mandamento di Mugnano, tre sono rimasti Comuni autonomi (Mugnano, Calvizzano e Melito), mentre Piscinola è stato annesso nel Comune di Napoli.


Piscinola vista dall'alto, foto di Ciro Pernice
La richiesta presentata dai Comuni di Piscinola, di Mugnano e di Melito, attraverso la relazione del consigliere Rossi, fece scaturire, come si leggerà, una lunghissima discussione politica e addirittura accese un serio caso di interpretazione delle leggi...! In pratica, nella fattispecie, si metteva in discussione il ruolo centrale avuto dalla Pronvincia, che appariva in tal modo, a detta di qualche consigliere, abbastanza secondario, in rapporto alle decisioni riguardanti la costruzione di mercati e di fiere nel territorio amministrato, che spettava al governo centrale, quasi delegando la Provincia a mero organo consultivo e non deliberativo. 
Purtroppo, come ci risulta ad oggi, quel mercato nel Comune di Piscinola non fu realizzato. La presenza di un mercato comunale avrebbe sicuramente svolto un ruolo trainante per l'economia del territorio, spingendo la formazione di una classe imprenditoriale che a Piscinola è stata sempre assente... Avrebbe sicuramente rafforzata l'autonomia amministrativa, con l'apporto di risorse che avrebbero aiutato a bilanciare le poco floride casse comunali. Il mercato avrebbe quindi garantito la sopravvivenza del Comune di Piscinola.
Probabilmente il processo di annessione del territorio del Comune di Piscinola nel Comune di Napoli, che sarà avviato proprio in quella seduta dell'amministrazione provinciale, segnerà l'arenarsi di questa opera di progresso commerciale ed economico, all'epoca tanto attesa dai cittadini per lo sviluppo del loro territorio. 
Ma questa è un'altra storia, a cui dedicheremo un post approfondito. 
Non sappiamo, inoltre, quale genere di mercato si intendeva richiedere, se promiscuo, di generi alimentari e prodotti per la casa, oppure ittico, come poi fu realizzato a Mugnano, oppure di generi agricoli, come fu realizzato nelle vicine Chiaiano, Marano e Giugliano. Non sappiamo nemmeno il luogo scelto per la sua realizzazione, se stanziale con proprie infrastrutture, oppure provvisionale, in alcune strade e con ambulanti.
Salvatore Fioretto

Ecco il testo che descrive i fatti:

Dagli Atti del Consiglio Provinciale di Napoli

Nella sessione ordinaria del 1861 (Napoli, dalla Stamperia dell’Iride, strada Magnocavallo, 29 -1862) 
Consiglio Provinciale di Napoli
Quarta tornata - Anno milleottocentosessantuno, il giorno dieci settembre in Napoli.
(Da pag. 73 a pag. 82).
[...] Continuando il Segretario, ha riferito che il medesimo sig. Rossi aveva presentate tre proposte accompagnate da tre deliberazioni rendute nei Comuni di Piscinola, Mugnano e Melito per tenersi un mercato rispettivamente nel lunedì, mercoledì e venerdì.
Il Governatore contro tali proposte ha invocato il fine di non ricevere, essendo i mercati riunioni pregiudiziali, o proficue a più centri abitati. Che essi costituiscono tal fatto di esercizio di pubblica amministrazione da dover soggiacere, e per la iniziativa e per lo svolgimento, all’azione Governamentale. Che, occorrendo un processo d’indagini, numerose disposizioni regolamentarie vennero successivamente rendute e vigevano. Che però concessa pure la ipotesi della potestà al Consiglio di versare sopra simili faccende pubbliche, non potevasi sull’affare rendere niuna deliberazione essendo immaturo.
Il Consigliere Cicarelli sorge a dire che la facoltà al Consiglio di conoscere il fatto dei mercati è concessa dal n. 6 dell’art. 168; che la legge concede al Consiglio, e non vuole che le venisse dall’autorità governativa.
Il sig. Imbriani osserva che non può rivocarsi in alcun dubbio che il Consiglio nel simile fatto del mercato non possa che esser richiesto dal Governo, mentre interessando la statuizione di una fiera le convenienze economiche di molti Comuni, vengono colle manifestazioni dirette al Governo dagl’interessi messi in rilievo pugnanti ed opposti interessi. Che tale lotta fornisce una materia essenzialmente economica, e dà occasione di promuovere sottili ricerche che poi rendono necessaria al Governo la condizione di consultare un corpo addetto ed istituito propriamente per ciò.
Che i fatti di fiera non essendo faccende da deliberarsi con la dimanda di farne una non è materia da deliberare. Il processo sopra la dimanda espletato, e che solo il Governo, a tenore degli stabilimenti esistenti, è organo appropriato a poterlo ammanire e ritenere, costituisce la pruova del privilegio d’iniziativa a favore del solo Governo. In altri termini, il quesito di una fiera naturalmente ricade nell’iniziativa unica del Governo, appunto perché mediante le sue pratiche, la dimanda si è convertita in fatto possibile da essere discusso, dopo istruito.
Il sig. Cicarelli riprende a dire che non sia il Consiglio un istituto accademico.
Esso può istruire ed avvisare, rimanendo al Governo accogliere o respingere il parere sull’obietto.
Il Consigliere Avellino reputa la quistione gravissima. Esso ne determina la importanza con due mezzi. Se la facoltà consultiva attribuita al Consiglio con l’articolo 168, fosse a libertà della iniziativa di ciascun Consigliere, sarebbe agevole di temere che non si avesse a rifare la carta topografica del Reame in corti periodi.
In seconda vista dichiara che la sobrietà del Consiglio di pronunziare sopra fatti che non può volere, ne sostengono la gravità. Il consigliere Goyzueta ha preso a dire: che gli onorevoli Vice-Presidente, e Consigliere Avellino avevano dottamente nel merito svolte le ragioni per le quali alla Autorità governativa competeva la facoltà di chiedere al Consiglio parere, trattandosi, che un Comune domandi voler stabilire nel suo territorio una fiera o mercato, attingendo dette argomentazioni alle fonti del dritto, di cui sono profondi conoscitori; che dopo le osservazioni dei prelodati Consiglieri, egli chiedea la venia al Consiglio per appoggiare le teoriche svolte con l’autorità di due circolari al Ministri di Agricoltura e Commercio dei 6 novembre 1849, e 1° novembre 1850, e decreto dei 20 febbraio 1832 coi quali si prescrive quanto segue: “Le dimande relative allo stabilimento o cambiamento di fiere o mercati debbono essere deliberate dai Consigli Comunali. L’Intendente del Circondario ordina la pubblicazione di tali dimande nei Comuni circonvicini nel raggio di 16 chilometri per lo meno. Il suo decreto designa particolarmente i comuni in cui deve seguire la pubblicazione, fissando quindici giorni di tempo utili per i richiami. Il Segretario d’Intendenza attesterà, mediante certificato, se siano o no insorte opposizioni nei Comuni, ed in caso affermativo unità alle domande ed ai documenti relativi i ricorsi in opposizione. Il Consiglio provinciale prenderà ad esame le deliberazioni dei Comuni, e darà il suo avviso sul merito delle osservazioni degli opponenti. Così regolarizzata la pratica, verrà trasmessa al Ministero delle Finanze il quale provvederà in modo definitivo”.
L’oratore intendeva appieno che quei regolamenti in suo nelle Provincie settentrionali non erano stati finora promulgati nelle meridionali: ma trattandosi di dover commentare una legge a noi venuta dall’Italia superiore è savio metodo ricorrere alle disposizioni date dal Governo, il quale è nel dritto d’interpretare le leggi. Che dall’esposizione di siffatte circolari e decreti sorgeva chiara la idea che il Consiglio fosse chiamato ad emettere il suo parere sull’obietto tosto che veniva dall’Autorità governativa richiesto. Che se altrimenti dovesse procedere, dandosi facoltà al Comune d’interpellare per mezzo di un Consigliere il Consiglio, ne avverrebbe, che questi sarà obbligati a dar fuori un avviso, che forse il Governo metterà in non cale una alla proposta medesima.
Diversi consiglieri fanno rilevare le date degli atti letti e citati all’adunanza dal sig. Goyzueta – cioè 1848 e 1852.
Il sig. Imbriani riprende a dire, che tre facoltà possiede il Consiglio. La deliberativa sulle materie indicate negli otto numeri dell’art. 165. Che in queste materie però soggiace a due limitazioni. Quelle espresse dagli articoli 181 w 182, cioè un bilancio vincolato oltre un quinquennio, ed i nuovi stabilimenti provinciali. La seconda è quella di dar parere. Che questa facoltà non possa esercitarsi che sulla richiesta del Governo. Che ciò sia chiaro perché, se partisse la iniziativa da ciascun Consigliere essa non potrebbe tradursi in un parere. Il Consigliere ed il Consiglio si unificano; e perché il parere, come lo dice la parola, si dà ad altri che lo richiede, così il Consiglio, per poter dirsi di aver dato un parere, bisogna che siaglisi richiesto da altri fuori di sé, ossia fuori dei suoi componenti. La terza facoltà del Consiglio è poi quella di dar voto giusta l’ultimo comma dell’art. 168. Può quindi il Consiglio inoltrare al Governo qualche suo pensamento, ed i suoi bisogni. In tali assunti può da sé iniziare un pensiero. Può il Consiglio manifestare qualsiasi suo bisogno ed aspirazione. Può far voto. 
E’ insufficiente il chiarire, egli dice, poche idee per stabilire la posizione della quistione presente e scernere le ragioni del decidere. Si tratta del voto di un Consiglio comunale perché si stabilisca una fiera od un mercato, ed un Consigliere provinciale ci propone di dare il nostro parere prima che la dimanda passi all’Autorità governativa, la quale solo ha il dritto di statuire una fiera o un mercato. Non cade dubbio alcuno che il Consiglio debba dare il suo parere nel caso di fiera o mercato da stabilirsi, poiché questo dritto gli viene dall’art. 168, comma 6, Legge provinciale. Ma si quistiona se il parere debba essere preventivo o succecutivo alla domanda da farsi al Governo. Io credo che non possa essere che sussecutivo, e non preventivo, invocando i principi della materia, le disposizioni di legge, le ragioni di espedienza.
La domanda per una fiera non potendo essere fatta che al Governo il quale deve decidere su di essa, è chiaro che prima della sua presentazione la procedura amministrativa non è ancor cominciata. La domanda presentata al Governo è dunque il primo atto di procedimento, e sopra di esse in linea di espediente pubblico il Governo istruisce, domanda parere, e poi decide. Questa istruzione è conseguenziale alla presentazione, ed è fatta dal Governo. E come prima della nuova legge il Governo dimandava, innanzi di decidere, il parere della Consulta, e poi del Consiglio superiore amministrativo, e talvolta anche della Camera consultiva di Commercio, e per fino delle Società economiche; così al presente sono i Consigli provinciali incaricati di dare parere, e si è imposto l’obbligo al Governo di dimandarlo. A questo modo la legge ha inteso che quest’ultimo interroghi i rappresentanti della Provincia intera in cui si vuole istituire la fiera o mercato, per dare un parere adeguato e ponderato, poiché i Consiglieri eletti dal popolo debbono conoscere i bisogni economici e materiali della Provincia, e provvedere al loro migliore soddisfacimento. Ma questa interrogazione non può essere fatta se non quando al Governo è presentata la dimanda per mercato o fiera, poiché allora solamente l’istruzione comincia, e sino al suo termine continua presso l’Autorità governativa.
L’invio per parere al Consiglio non è (giova ripeterlo) per uno degli atti d’istruzione. Oltre queste ragioni sostanziali che sono fondate sulla costituzione dei poteri pubblici nella loro legittima esplicazione, ve ne sono altre di mera espedienza che non possono andar neglette. Quando l’istruzione è avanzata, quando sono stati raccolti dal Governo ad istanza del Comune richiedente tutti gli elementi di fatto, tutti gli schiarimenti economici intorno alla opportunità della fiera o mercato richiesti – quando in fine si sono esaminati gl’interessi degli altri comuni vicini e questi sono stati sentiti ove abbia fatto mestieri, - allora il processo così compiuto si manda al Consiglio per parere, e quindi questo Consesso può maturamente darlo sopra i dati raccolti nella pratica e trasmessi.
Per siffatte ragioni il sig. Imbriani conchiude che allo stato non vi sia luogo a parere del Consiglio sulla proposta in esame.
Il Consigliere Tito Cacace prende a dire – Che la dimanda fatta dal Consigliere Rossi, fa sorgere l’esame di una quistione assai grave che consiste nel definire le facoltà ed i poteri del Consiglio provinciale.
La legge concede al Consiglio due poteri diversi. In taluni casi il Consiglio delibera, ossia decide in modo assoluti ed irrevocabile sopra alcuni determinati oggetti; in altri casi non delibera, non decide, ma si limita unicamente a dare un parere, una opinione, un avviso, il quale può non essere seguito dall’Autorità governativa.
Questi due poteri del Consiglio sono determinati da due diversi articoli di legge. Nell’art. 165 sono indicati gli oggetto sui quali il Consiglio delibera. Nell’art. 168 sono designanti quelli su cui dà parere. Ora la quistione sta in ciò. Nei casi in cui il Consiglio è chiamato a dar parere può darlo sopra una proposta qualunque, che venga fatta da alcuno di coloro cui la legge la permette, ovvero è limitati l’esercizio di questo dritto al solo caso in cui il suo parere sia chiesto dal Governatore?
Non si può ammettere questa seconda opinione senza portare una restrizione all’esercizio de’ dritti del Consiglio, la quale non risulta né dalla lettera, né dallo spirito della legge. Infatti la legge concede la iniziativa delle proposte da sottoporre al Consiglio in prima luogo all’Autorità governativa, indi al Presidente, infine a ciascun Consigliere. Or la proposta può riguardare o un oggetto sul quale il Consiglio delibera, ovvero un oggetto sul quale il Consiglio non è chiamato che a dare un parere, ossia semplice avviso. Limitare adunque il dritto del Consiglio a dare unicamente il suo parere quando il Governatore lo domandi, importa in altri termini restringere il dritto ampio della proposta, che la legge concede ad ogni Consigliere, limitandolo unicamente a quei casi in cui il Consiglio è chiamato a fare una deliberazione, ed escludendolo, in quelli in cui è invitato solamente ad avvisare. In altri termini, converrebbe ammettere il principio che l’art. 168 abbia derogato all’art. 203.
Né questa limitazione può ricavarsi dall’ultimo comma dell’art. 168, il quale anzi conforta sempre più il principio che sostengo. Perciocché mentre la legge enumera gli oggetti sui quali il Consiglio è chiamato a dare un parere, soggiunge poi – e generalmente sugli oggetti sui quali il suo voto…. Va domandato dal Governatore, con che è espresso chiaramente il concetto che la proposta di tutti gli altri oggetti indicati nei diversi numeri di quell’articolo va conceduta a chiunque. E se si concede il dritto alla proposta che viene dall’art. 203, deve di necessità non solo concedersi il dritto, ma imporre al Consiglio il dovere di rispondere sia deliberando, sia semplicemente avvisando. E sarebbe incivile interpretare la legge in modo che apportasse una restrizione all’esercizio di quel fritto, che essa ha inteso di concedere in un modo così assoluto e senza alcuna maniera di restrizione.
Diversi Consiglieri domandarono la parola tuttavia dopo i sei oratori menzionati.
Il Vice-Presidente mette a voti la chiusura, la quale rimase esclusa con 29 voti contro 5.
Il Consigliere Scotti Galletta imprende a sostenere: che la quistione dovea verificarsi sulla vera intelligenza dell’art. 168 della legge del 23 ottobre 1859 – Questo articolo autorizza il Consiglio provinciale a dar parere sopra determinate materie, che in esso sono distinte e indicate.
Ora il Consiglio provinciale, se quando trattasi deliberare, come è sanzionato negli articoli 165 e 166 dell’enunciata legge, è un Collegio attivo, poiché di propria autorità discute e delibera, non è che passivo quando trattasi da dar pareri. Imperocché non si danno pareri di propria volontà, ma bisogna che ne venga fatta la richiesta nei modi conformi alla legge ed alla ragione.
Ma da chi potrà chiedersi un parere al Consiglio? Non certamente da ciascuno del popolo. Ciò sarebbe lo stesso che attribuire un dritto che non danno le leggi. Dall’altra banda non possono chiedersi siffatti pareri da un Consigliere dello stesso Consiglio. Imperocché. Se il Consiglio intero è passivo quando trattasi di dar parere, non potrebbe attribuirsi uno dei suoi membri il dritto di chiedere dal Consiglio stesso. In tal caso si avvererebbe l’inconcepibile assurdo che il Consiglio è passivo e attivo nel tempo stesso. Passivo nel Collegio intero, attivo in ciascuno dei suoi componenti.
Il Consiglio provinciale è un Collegio supremo della Provincia. Dunque non può essere obbligato a dar pareri, né da ciascun popolo, né da alcuna autorità ad esso inferiore. Che vi rimane adunque se non che il Governo? Quindi questo solo può chiedergli pareri, e richiesti a norma del menzionato articolo 168, il Consiglio deve darli sottoponendoli alla decisione del Governo stesso. Allo infuori di questo caso non deve, ne può dare parere alcuno. Il Consigliere Bardi dice che la essenza del positivismo del Consiglio sarebbe sciupata ove si accogliessero dei chiaroscuri per differenziare la seconda delle due potestà sole a cui il Consiglio è assunto, o a rendere deliberazione, o a dare parere. E riflette che la esternazione materiale del pensiero legislativo, che dava il duplice contorno al profilo del Consiglio, quella esternazione n’era la prova. Chiama esternazione come è scritta la compilazione degli articoli. In forma tagliente ed incisa, e con mezzo verso staccato ed isolato, l’articolo 165 dice: il Consiglio delibera. Primo profilo. E parimenti l’articolo 168 ancor più monosillabi, non ripete il Consiglio, e scrive Dà parere. Secondo profilo.
Or se avesse concepito il terzo profilo, perché non avrebbe il Legislatore continuato lo stesso modo di lineare il disegno?
In altri termini, se la voce voto fosse stato un terzo profilo, l’ultimo comma dell’art. 168 sarebbe compilato così: Lo compila colle stesse parole della legge.
“Art. tot. Dà voto; due punti e da capo con due numeri (1) generalmente sugli oggetti riguardo ai quali il suo voto sia richiesto dalla legge (2) o domandato dal Governo.
Se dunque parere e voto sono le parole di un medesimo art. esse sono due vari suoni, una doppia parola, ma dello stesso ed unico intendimento.
Oltre a tal modo di ragionamento evvi un’altra via.
La seconda delle due facoltà, quella di dar parere trovasi conferita al Consiglio a vantaggio di tre richiedenti: 1.° L’universale. 2.° la legge. 3.° Il Governo.
Contro l’universale sta la eccezione. E perché tre forze sociali addita la legge le annovera secondo la loro serie successiva. 
- Il popolo fa 2) La legge, e l’affida 3) al Governo. Quindi l’articolo menzionando i richiedenti il parere comincia dall’universale, dal popolo, ossia dai suoi mandatari, i Consiglieri.
I Consiglieri possono domandare al Consiglio l’esercizio della sua facoltà di dare parere al Governo sopra un dato obbietto.
Ma questa facoltà dovea limitarsi a quei fatti locali di cui male a proposito si adirebbe il Parlamento, quindi si additano sei fatti di economia locale e provinciale.
Per inversa proseguendo la enumerazione dei capaci a richiedere la facoltà consultiva, si denomina la legge entro i casi previsti e poi il Governo, ma senza alcuna restrizione, perché sarebbe sicuramente il meno che ne vorrebbe abusare.
L’oratore ha poi voluto segnalare all’adunanza che la facoltà deliberativa non era mica limitata dagli articoli 181 e 182 come un oratore aveva dimostrato. La facoltà deliberativa è illimitata sulle materie sottoposte al Consiglio. Che i detti articoli 181 e 182 erano una proroga del mandato che il Principe concedeva ai deliberanti, stando invece degli elettori come supremo collettivo e per patto sociale. Che la facoltà dei Consiglieri di amministrare la Provincia, trovandosi loro conferita per un quinquennio, con atto amministrativo di protrazione di potere doveva legittima col riattingere le facoltà di poter volere.
Dopo l’oratore, il Consigliere Jorio ha dato ulteriori sviluppi alle cose innanzi dette ragionando come segue: A riguardare la quistione da un lato più positivo è mestieri ricordare le parole dell’articolo 203 il paragrafo 6 ed il comma ultimo dell’articolo 168.
L’art. 203 dice “L’iniziativa delle proposte da sottoporsi ai Consigli, spetta indistintamente all’Autorità governativa, ai Presidenti, ed ai Consiglieri.” Dunque han diritto tutti i Consiglieri a prendere la iniziativa di una proposta.
Or cosa importa prendere la iniziativa di una proposta? Non altro che provocare un voto, un parere ed anche una deliberazione, nei limiti delle proprie attribuzioni.Il comma ultimo dell’art. 168, che enumera i casi nei quali è chiamato il Consiglio a dar parere dice “E generalmente sugli oggetti riguardo ai quali il suo voto sia richiesto dalla Legge o dimandato dal Governatore.” Ora in questo articolo la parola voto è presa nel senso lato; quindi comprende anche il parere, sebbene a stretto rigore siavi differenza tra voto e parere.
Che la proposta di cui si discute rientri nei casi nei quali è richiesto il parere è indubitato, bastando leggere il paragrafo 6 dell’art. 168.
Se dunque la iniziativa delle proposte è data a qualsiasi  Consigliere; se con ogni proposta può provocarsi un voto, un parere, una deliberazione nei limiti delle proprie attribuzioni; se nell’articolo testé citato è adoperata nel medesimo senso la parola voto e parere; se il parere che si richiede al Consiglio cade sur un caso tassativamente preveduto nel detto paragrafo 6, non si saprebbe vedere per qual ragione debba limitarsi la facoltà del Consiglio a dar parere nei soli casi che ne venga richiesto dal Governo.
Né vale l’osservare che la dignità del Consiglio ne scapiterebbe quando il parere emesso non venisse secondato dal Governo, poiché lo stesso potrebbe avvenire allorché si emettesse sulla proposta di quest’ultimo, che per fermo non sarebbe vincolato da siffatto parere.
Sembra dunque evidente che non al solo Governo sia dato richiedere parere ma a tutti i Consiglieri.
Il Consigliere Praus osserva; che volendo far seguito alle idee svolte dagli onorevoli oratori, sulla parte per così dire formale della quistione promossa, cioè, se siavi sinonimia o distinzione tra le voci voto ed avviso per inferirne se il Consiglio avesse ad attendere che solo dal Potere governativo gliene venisse la richiesta, o da qualunque del popolo, pensa che la discettazione potrebbe rendersi più facile quando si ponga mente alla natura ed indole della proposta che è venuta fatta dal Consigliere Rossi, val dire la domanda di una fiera o di un mercato per taluni Comuni. La creazione, egli dice, di una fiera o di un mercato è il risultato di un calcolo economico; la circolazione, il credito, la riproduzione, fonti comuni della ricchezza, trovano il loro mezzo nel ravvicinamento degli uomini in un luogo ove si operi la permutazione dei prodotti del lavoro, della industria, della agricoltura, della pastorizia. 
Un paese, un villaggio stesso può trovarsi in condizioni tali d’aver uopo dello stabilimento di un centro di circolazione, ove la facile ripercussione della offerta e della richiesta tenga vivo il movimento permutativo delle produzioni di ogni maniera; la posizione topografica, il grado di attività personale degli abitatori, i rapporti coi circostanti paesi, sono altrettanti elementi che ne provano il bisogno. Surto questo bisogno sotto forma imponente e vitale, ha dovuto sorgere ad un tempo il dritto di farlo giungere fin dove s’incontra il modo prossimo di adempirlo, vale a dire la Potestà governativa; il veicolo legittimo a tal uopo non può essere che questo Consiglio provinciale: dunque se la iniziativa si prende da un organo legittimo, qual è un Consigliere, il Consesso non può a meno di avvisare anche su convenienza a priori o astratta dalla proposta. E sarebbe strano pretendere che solo dal Governo venisse tale iniziativa, quando non si voglia imprimere il tipo dell’assolutismo sul Governo libero, che s’ispira normalmente nei bisogni e nella volontà del popolo.
Indi il sig. Giura appoggia, e più svolge quanto il Consigliere Nardi aveva notato sulla compilazione dell’art. 168 e si accorda a dire che voto e parere sonosi adibiti nello stesso significato e non per conferire due distinte facoltà.
Il Consigliere Ascia dice: che il restringere le facoltà concesse al Consiglio provinciale dall’art. 168, limitandole a dar parere sugli oggetti cui vien domandato dal Governatore, l’è disconoscere il dettato degli articoli 163, 203, 204, 165 e 168.
Ha soggiunto che a niuno è dato limitare, e restringere le attribuzioni di un ente politico se dalla legge non risultano tali restrizioni.
Le lezioni degli art. 165 e 168, sono uniformi nel concetto, e se differiscono, il divario sta nelle attribuzioni.
Se diversamente il Legislatore avesse voluto avrebbe fatto di meno di dettagliare l’eccezione sugli oggetti, come dal n.1 a 6 dell’art. 168, bastando per regola l’ultimo comma di quell’art. che li avrebbe compresi nella generica espressione, “E generalmente sugli oggetti, riguardi a’ quali il suo voto sia domandato dal Governatore”.
Arroge che precisamente dall’ultimo comma del detto articolo viene espresso non solo che il Governatore su qualunque oggetto può domandar parere al Consiglio, ma che questo Consiglio è tenuto a darlo anche per quelli contemplati dalla Legge. Quando verrebbero esclusi quelli distinti dall’articolo 168, si escluderebbero gli oggetti su cui la legge è richiesto il Consiglio: in questo modo patentemente si violerebbe la legge.
Rispondendo poi alle due obbiezioni: che se si accordasse ad un Consigliere il dritto di domandar parere, spesso il Consiglio sarebbe inceppato a profferirlo per mancanza d’istruzioni, e che potendosi dare un parere non accetto al Governo si scemerebbe la dignità; ha risposto: che alla prima obbiezione risponde l’art. 204 che prevede i mezzi come istruirsi un Consiglio su di un oggetto su cui è chiamato o a deliberare o a dar parere; che per la seconda dignità del Consiglio è preservata dall’art. 163, ed è salva quando si espongono i bisogni della Provincia al Governo, adempiendosi al più sacro dei mandati che dal popolo viene affidato, cioè quello di appoggiarlo col suo parere quante volte colle sue deliberazioni non può giovarlo.
Indi il sig. Ambrogi dice: non essere accettevole la distinzione da qualche onorevole Consigliere sostenuta, che l’art. 168 racchiude due facoltà, l’una di dar parere, l’altra di fornire un voto; che il legislatore ha usato l’una e l’altra voce indistintamente, perché comunamente si compenetrano; - che se filologicamente parlando avvi una capillare distinzione, questa che trasfonde più rigore all’una delle due voci, ché il voto a stretto dire non è che la emanazione di un giudizio, esclude recisamente la conseguenza che verrebbe irarsene. Di vero, se il legislatore pel caso del voto ha fatto espressa abilità al Governatore di domandarlo, ed in quello del parere, val dire di una opinione, si è tenuto silenzioso, sorge chiaro che un quest’ultimo non abbia voluto quella restrizione che taluni componenti del Consiglio han sostenuta.
E più tardi di rimando alle osservazioni del Governatore, faceva riflettere che se questa autorità giudicava che il Consiglio per mancanza di elementi, che solo dal potere governativo potevano essere somministrati, si trovava in condizioni di non potere dar parere, se non quando dal Governo venisse chiesto, era chiaro che implicitamente riconosceva non venir meno al Consiglio la potenza legale per dar parere anche sulla richiesta di altri; che tenuta vera questa potenza, non poteva escludersi  la facoltà nel Consiglio di richiedere tutte quelle dilucidazioni che poteva giudicare necessarie per dare esatto e coscienzioso il suo parere; che se il fine debba conseguirsi, i mezzi debbono essere di necessità conceduti: né essere esatto il dire che tacendo la legge sulla concessione dei mezzi debba ritenersi ristretta una facoltà ampiamente e lucidamente attribuita.
Dopo ulteriori sviluppi alle cose già motivate all’adunanza dai Consiglieri Amato e Cicarelli, il Governatore ha reinserito sulle cose da lui in principio trattate.
Messa ai voti la seguente proposizione: se un Consigliere poteva fare proposte al Consiglio onde provocarne un parere; è accolta affermativamente con venticinque voti favorevoli contro nove.
Venne quindi firmato l’ordine del giorno per la tornata del 12 settembre.                      
Seguono le firme.

Mappa della Provincia di Napoli, di Marzolla. Le linee rosse indicano la suddvisione dei quattro Circondari.


sabato 2 maggio 2020

Il "Calendimaggio" a Napoli inizia con un "Prodigio"... Cenni storici sulla ricorrenza della festa primaverile di San Gennaro a Napoli


Premessa storica e cronotassi del culto di San Gennaro:
Nessuna città al mondo, nessuna regione d'Europa, ha avuto ed ha un rapporto così intenso e stretto con il proprio Santo Patrono; un rapporto così profondo e antico, fin tanto, che si può affermare, senza retorica, che la storia di Napoli si identifica con San Gennaro e San Gennaro con Napoli e i Napoletani, perché non esiste un evento, un episodio importante della storia di Napoli, degli ultimi 18 secoli, dove non ci sia un riferimento diretto o indiretto con San Gennaro.
Part.dipinto Ribera, S. Gennro esce da fornace
Ogni avvenimento della città, lieto o triste, di gloria o di sconfitta, di crescita o di crisi, con calamità naturali e non,  si è svolto e è stato affrontato dal popolo napoletano al cospetto della Sua "presenza" secolare... Come un vecchio saggio, un nume tutelare, un'amabile e cara persona di famiglia, San Gennaro è stato sempre coinvolto nelle vicende cittadine... Egli è indubbiamente il personaggio più amato a Napoli, da sempre...! E lo è stato ancor di più per i tantissimi napoletani, che, per motivi di lavoro, si sono spostati in ogni angolo del mondo, ma che hanno conservato e conservano ancora oggi, indelebile, l'amore per San Gennaro, come un filo che li lega in maniere indissolubile alle proprie origini...!
San Gennaro è l'anima viva di Napoli!
In San Gennaro si sono identificate tante generazioni di napoletani, avvertendo la sua presenza storica e spirituale, attraverso il "prodigio" dello scioglimento del suo Sangue, raccolto come segno di pietas religiosa popolare dagli antichi napoletani e conservato da almeno sette secoli nella chiesa Cattedrale di Napoli.
Ogni dinastia che si è succeduta alla guida del Regno ha stabilito una specie di "patto politico" con San Gennaro, un pactum di rispetto, di cortesia e di non belligeranza... e quindi di buon governo; pur sapendo che in San Gennaro si identificavano tutti i Napoletani.... e conquistare la benevolenza di San Gennaro, che si verificava con il rinnovarsi del prodigio, sapevano che significava per loro e per la propria dinastia ingraziarsi le simpatie dei napoletani.
Imbusto di S. Gennaro in una foto antica
A partire dai duchi del Ducato di Napoli (prima Bizantino, poi Vescovile e poi Autonomo), quando era inserita l'immagine di San Gennaro sui gonfaloni della città e sul conio delle monete e, poi, con i re Svevi, con i Normanni, con gli Angioini, con la Casa Durazzo, con gli Aragonesi, con i vicerè Spagnoli, con quell Austriaci, con i Francesi, ... e fino con i Borboni e con i Savoia..., tutti, ma proprio tutti i sovrani, quando conquistavano il potere, come primo atto  politico, come primo cerimoniale pubblico, al momento del loro ingresso in città, provvedevano a rendere omaggio al patrono San Gennaro, portandogli un prezioso dono.
Il cosiddetto "tesoro" raccolto nei secoli è proprio il segno evidente di tutta questa "benevolenza politica" dei vari sovrani, alla città e al suo protettore...
Attorno al culto di San Gennaro la nobiltà napoletana, quella definita di Piazza e quella di Rango, ha manifestato costantemente nei secoli la sua munificenza e splendore, attraverso esibizioni e parate pubbliche, mediante quelle organizzazioni a cui appartenevano per nascita o per luogo di residenza: i cosiddetti Sedili. I Sedili di Napoli erano aggregazioni sociopolitico-amministrative che avevano origini antiche, probabilmente discendenti dalla Fatrie del mondo ellenistico che qui pure ha avuto il suo fulgido periodo storico.
Dopo il periodo ducale, il territorio cittadino, allora chiuso dalla cortina di mura invalicabile, fu diviso in "Sedili". I Sedili ebbero numero variabile nei secoli, raggiunsero il cospicuo numero di alcune decine, fino ad accorparsi o scomparire in gran parte, riducendosi, tra il XVI e il XIX secolo, in sei Sedili: cinque Sedili Nobili, perchè composti dalle famiglie aristocratiche napoletane e da un solo Sedile che rappresentava tutto il Popolo, sia quello cittadino che quello delle borgate e dei Casali. I Sedili nobili erano: Capuana, Nido (o Nilo), Montagna, Porto e Portanova. Nel Sedile Montagna era confluito un altro antico Sedile, che si chiamava Forcella. I rappresentanti dei Sedili costituivano il "Corpo della Città" ed eleggevano, come tali, i loro rappresentanti nell'amministrazione cittadina, che si radunava nel chiostro di San Lorenzo Maggiore, e poi eleggevano il sindaco. I Sedili eleggevano anche i dodici rappresentati (due a testa), che formavano l'antica Deputazione del Real Tesoro di San Gennaro. Al capo della Deputazione c'era il Re in persona; ma, a partire dall'avvento dei Francesi, Gioacchino Murat cambiò la norma, e da allora il presidente della Deputazione del Tesoro di San Gennaro è il sindaco di Napoli pro tempore, ovvero eletto ed in carica.
Domenico Gargiulo (detto Micco Spadaro) processione di San Gennaro durante eruzione del Vesuvio
La Deputazione del Tesoro è nata nell'anno 1527, per consentire la costruzione della nuova Cappella del Tesoro. In quell'anno Napoli era afflitta da una terribile pestilenza e anche da una grave carestia, che assieme flagellavano tutta la Città e i suoi Casali. I quella circostanza, i napoletani vollero fare un "voto" a San Gennaro per riottenere la salute pubblica. Nel 13 gennaio di quell'anno, i Sedili nominarono una Deputazione con dodici loro eletti e davanti a un notaio sigillarono un "patto" con San Gennaro, che prevedeva la costruzione della nuova Cappella del Tesoro in cambio del  prodigio. La "grazia" della salute fu ottenuta e il voto della città fu onorato: la costruzione della bella cappella è quella che oggi vediamo e ammiriamo...! Da allora la Deputazione del Tesoro di San Gennaro è rimasta ininterrottamente attiva, sia per la gestione della cappella che per la conservazione delle reliquie di San Gennaro, che sono qui custodite, Rinnova nei secoli i propri dodici rappresentanti, che sono sempre scelti tra le famiglie nobili che costituirono i vecchi Sedili di Napoli, compresi i due rappresentanti del popolo.
Stemmi Sedili di Napoli su campanile chiesa S. Lorenzo
La Cappella del Tesoro di San Gennaro, con tutte le opere d'arte e i preziosi custoditi, con le 53 statue d'argento dei santi, cosiddetti "Compatroni di Napoli", con i preziosi marmi, e con le belle statue di bronzo, sono tutti beni di proprietà della Municipalità di Napoli, ovvero di tutti i Napoletani. E, pur aprendosi sulla navata destra della Cattedrale, la cappella di San Gennaro è un tempio indipendente e da esso autonomo. Anche il Cappellano (detto "Abate Tesoriere"), che gestisce il culto del tempio e ne è anche il Tesoriere, è nominato dalla Deputazione in maniera indipendente dalla Curia. Nel tempo è stata formata anche una Deputazione di "Cappellani Prelati", che affianca il cappellano, sempre in numero di dodici, sempre eletti in ragione dei Sedili di appartenenza.
Risulta evidente come nei secoli, tra il clero e gli aristocratici la convivenza non sia stata sempre tranquilla e come non siano mancati momenti di tensioni, scontri e dissapori, tra l'uno e l'altro fronte, spesso capitati in occasione della cerimonia esterna, ossia durante la processione per rinnovare il ricordo della Traslazione delle reliquie di San Gennaro. 
Ecco la storia del cosiddetto "Miracolo di Maggio"!

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La storia:
La ricorrenza della "Traslazione delle Reliquie di San Gennaro", tra storia, fede, tradizioni e politica cittadina...
La festa della Traslazione delle reliquie di San Gennaro, commemora in un'unica ricorrenza diversi "peregrinaggi" che hanno interessato i resti del vescovo di Benevento, Gennaro, divenuto patrono principale della archidiocesi di Napoli e della Campania conciliare.
Bassorilievo, donna consegna il sangue liquefatto (Bas. S. Gennaro Antignano)
Inizialmente la festa veniva celebrata il 13 aprile, perché in tale data, secondo il Calendario Marmoreo, sarebbe avvenuto il trasferimento delle ossa di Gennaro, dal luogo della prima sepoltura, zona chiamata Marcianum (presso Fuorigrotta), fino alle catacombe di Capodimonte; le quali, una volta accolta la tomba del celebre santo Gennaro, presero poi il nome di Catacombe di San Gennaro. L'anno della traslazione, secondo gli storici, è compreso tra il 413 e il 431, ossia nel periodo che il vescovo Giovanni I ricoprì la sede vescovile di Napoli.
Ma con la festa si ricordano anche altre traslazioni avvenute nei secoli successivi. A Capodimonte, San Gennaro fu venerato fino all'anno 831; le reliquie del cranio e forse del Sangue, nel frattempo erano state trasferite nel Succorpo della Stefania (La seconda Cattedrale di Napoli dell'epoca, esistente insieme alla basilica costantiniana di Santa Restituta).
San Gennaro tra i monti Somma e Vesuvio (Catacombre di S. Gennaro)
Nell'anno 831, i Longobardi di Benevento, con a capo il principe Sicone, dopo reiterati tentativi di occupare Napoli, non riusciendo a coronare la loro ambizione di conquista contro i Goti, che nel frattempo occupavano la città, riuscirono però a profanare le Catacombe e a trasferire a Benevento, come trofeo di guerra, le ossa di San Gennaro. A Benevento il "trofeo" fu collocato nella Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, che era la chiesa Cattedrale. 
In quel luogo, che divenne frequentato da pellegrini e devoti, le reliquie restarono, "in pace", fino all'anno 1154, quando, per cause non bene accertate, furono dal re Guglielmo I, detto il Malo, riparate a Montevergine, nell'abazia retta dai monaci. In quel cenobio le reliquie restarono, quasi dimenticate, per ben tre secoli. Rinvenute dai monaci, in maniera quasi fortuita, dietro l'altare maggiore, furono traslate a Napoli nel 13 gennaio del 1497, dal cardinale Oliviero Carafa, per interessamento del re aragonese e della potente casa dei Carafa.
In quel periodo Napoli era flagellata da una terribile pestilenze (qui mai mancata!), e per evitare il contagio, la traslazione fu compiuta durante le ore notturne. Per tale circostanza, per accogliere degnamente le ossa di San Gennaro, la famiglia Carafa, commissionò una superba cappella in stile rinascimentale, con preziosi marmi scolpiti "a grottesche". La cappella fu chiamata "Cappella del Succorpo di San Gennaro", perché realizzata proprio nel corpo di fabbrica della nuova Cattedrale gotica.
Statua di bronzo sull'altare maggiore
Le reliquie furono murate all'interno di un pesantissimo sarcofago realizzato in bronzo. 
Passarono pressappoco altri 500 anni circa...
Nei primi mesi del 1964, il card. Castaldo ottenne dalla famiglia Carafa la possibilità di accesso alla cappella, che era ancora sotto il patronato della nobile famiglia e riuscì a ritrovare il sarcofago con le reliquie del Santo dietro all'altare della cappella. Il prof. Lambertini realizzò la ricognizione scientifica, evidenziando che si trattavano di resti di un soggetto maschile, di giovane età, poco più che trentenne, di corporatura robusta e alto quasi due metri (1,90 m).
Di tutte queste traslazioni, quindi, in città si usava celebrare la ricorrenza del "peregrinatio" delle reliquie di San Gennaro, nella data del 13 aprile, ricordando in particolare la prima traslazione, da Marcianum (Fuorigrotta) a Capodimonte, attraverso la strada romana sopra colles, che passava per Antignano, dove, secondo la leggenda, si sarebbe verificata la prima liquefazione del sangue del Martire. Si organizzava, quindi, una processione esterna alla Cattedrale, a cui partecipavano l'arcivescovo, tutto il clero, i nobili, il re del tempo e tutto il popolo napoletano devoto.
Nel XIV secolo il corteo o meglio dire il cerimoniale della ricorrenza, fu regolamentato dall'arcivescovo Giovanni Orsini (1 maggio 1337), attraverso un'apposita "Costituzione liturgica", detta Costituzione Orsini. La processione fu poi chiamata degli "Inghigliardati", perché i sacerdoti che partecipavano al corteo avevano il capo cinto di fiori, forse per ricordare anche il Calendimaggio, l'inizio della primavera, e le stesse reliquie erano ornate con fiori colorati.
Spilla dell'ordine cavalleresco di San Gennaro
Collare dell'Ordine di S. Gennaro
I fiori che ornano, ancora oggi, la parte superiore del tabernacolo che contiene il sangue, ricorda proprio questa antica usanza... 
Le processioni che si eseguivano nel giorno di festa erano almeno due. 
La méta delle due processioni era una chiesa antica della città, scelta ogni anno con ciclicità periodica. Queste furono: Santi Apostoli, S. Tommaso a Capuana, S. Paolo Maggiore, S. Giorgio Maggiore, S. Maria Maggiore (Pietrasanta), S. Maria Rotonda, S. Maria in Cosmedin, S. Maria a Piazza, S. Giovanni Maggiore, S. Agrippino, S. Domenico Maggiore, S. M. Annunziata, S. Agostino alla Zecca, S. Andrea a Nido. 
Tutta l'organizzazione della cerimonia sacra esterna alla cattedrale, ruotava intorno alla rievocazione del primo prodigio della liquefazione, avvenuto ad Antignano, quando, secondo la testimonianza leggendaria, già accennata, al momento che sfilava il corteo dei chierici, che trasportava a Capodimonte i resti di San Gennaro, una pia donna consegnò ai presuli le sacre ampolline del sangue, che nel frattempo si era sciolto.
Quindi l'evento cittadino, che si reiterava annualmente nelle diverse chiese, scelte a rotazione, consisteva appunto nel rievocare quello storico incontro della testa del Santo con il suo sangue, incontro che comportava il rinnovarsi o meno del "segno" della liquefazione del sangue, e quindi la possibilità di trarre presagi di benevolenza del Santo per la città e per i suoi abitanti. Il rinnovarsi della "liquefazione" era considerato un segno di protezione e di salute per tutti!
Stampa della processione a Santa Chiara, XIX sec.
Successivamente, nel periodo angioino, la ricorrenza primaverile di aprile rimase l'unica festa dell'anno dedicata a San Gennaro, perché a causa dei lavori nei campi, e principalmente l'impegno per la vendemmia, la festa di settembre veniva spesso disertata dai devoti provenienti soprattutto dalle campagne dei Casali di Napoli.
Con il trascorrere dei secoli, tuttavia, a poco a poco riprese di nuovo forza e importanza la data del martirio, del 19 settembre, mentre la festività primaverile, che spesso capitava durante le celebrazioni pasquali o in quelle della settimana in Albis, fu decisa di spostarla al sabato che antecede la prima domenica di maggio, con anticipo al 30 aprile, se il primo giorno di maggio fosse capitato di domenica.
Al corteo della processione era costante la presenza delle massime autorità del regno, ovvero del sovrano, seguito naturalmente dalla corte dei baroni, dalle dame, dai cavalieri e dai dignitari del regno. Alla cerimonia del 1° maggio 1490 partecipò soltanto il duca di Calabria, il quale “cavalcò er vide la Testa e il Sangue de Sancto Gennaro in Capuana, vicino a Sancto Stefano: che quello jorno erano portati per Napoli da lo Clero inghigliardato”.
Processione (mattutina) nel dopoguerra, alla chiesa del Gesù Nuovo
Durante il periodo aragonese, la gestione del culto era sotto il controllo ecclesiastico. Unica concessione data ai laici, era l’ammissione dei rappresentanti dei Sedili (due per Capuana e Nido, due per gli altri seggi e due per il Popolo) a sostenere le aste del pallio, sotto cui veniva portato in processione il busto-reliquario del Santo, in una della chiese a turno prescelta dall’arcivescovo, per la celebrazione della festività di maggio. L’apporto laico rimaneva, quindi, limitato al sostegno del pallio, perché il cosiddetto "Imbusto", veniva invece trasportato esclusivamente da ecclesiastici: prelati per un terzo del percorso dalla chiesa prescelta per la celebrazione al Duomo, e canonici della cattedrale per il resto del cammino, qualora i primi si fossero stancati.
Dal XVI secolo, e precisamente dall'anno 1525, su richiesta dell'eletto del Popolo, Girolamo Pellegrino, il Cardinale Vincenzo Carafa concesse che la mèta della processione non fosse più una delle chiese antiche della Città, ma le "piazze" rappresentanti dei cinque Sedili nobili di Napoli e del Sedile del Popolo, ovvero le piazze principali dei Sedili Montagna, Nido, Capuana, Porto, Portanova e la piazza della Sellaria e che il prelievo e il trasporto dell'Imbusto del Santo fosse eseguito dai cavalieri del Sedile interessato.
Si iniziò con questa usanza, nel 1525, proprio con la piazza della Sellaria, a rappresentare il sedile del Popolo.
"Imbusto" di San Gennaro, del 1305
Ogni anno, a rotazione, la cerimonia si svolgeva in una piazza diversa ed erano le famiglie che componevano il Sedile di quella Piazza a finanziare e ad organizzare l'evento. Si costruiva un enorme "catafalco", oggi diremmo "palcoscenico", ornato di immagini gigantesche, fiori, lumi e altri abbellimenti e si sceglieva il coro e orchestra per fare rappresentare panegirici e canti sacri, composti per l'occasione dai migliori letterati e musicisti in voga nella città, come Porpora, Paisiello, Durante, ecc.
Nel 1526, si continuò la nuova usanza della processione ai Sedili, con un catafalco allestito nella piazza del Sedile Capuano, nel 1527 fu nella piazza del Sedile Montagna, nel 1528 fu nella piazza del Sedile Nido (o Nilo), nel 1529 fu nella piazza del Sedile Porto e nel 1530 fu nella piazza del Sedile Portanova. Dal 1531 si reiterò periodicamente il ciclo, fino all'anno 1799, quando, in piena rivoluzione giacobina e aboliti definitivamente i Sedili, la cerimonia si svolse nella chiesa della Trinità Maggiore (Chiesa del Gesù Nuovo). Dal maggio del 1800 è stato stabilito che la mèta, unica e definitiva della cerimonia, è la basilica di Santa Chiara.
Processione mattutina a Santa Chiara, anno 1928
In antichità le processioni che si svolgevano erano due distinte. Al mattino presto si prelevava l'"Imbusto" di San Gennaro dalla Cattedrale e, accompagnato da un decorato pallio, lo si conduceva al luogo stabilito per la cerimonia, chiesa o piazza e dove lo si esponeva alla venerazione dei fedeli. Nel pomeriggio, intervenivano l'arcivescovo con il capitolo dei chierici, i sacerdoti, la corte reale, i nobili e i rappresentanti dei Sedili, e si conduceva la teca con il sangue nel luogo dove di trovava la testa del Santo, per rievocare lo storico incontro; incontro che si concludeva, quasi sempre, con l'annuncio dell'avvenuta liquefazione del sangue, ma alcune volte il "segno" mancava, oppure occorreva attendere del tempo. Dopo la recita del Te Deum di ringraziamento, si faceva ritorno in Cattedrale.
La modifica al cerimoniale, avvenuta nel 1525, quando fu stabilito come detto, che la processione fosse diretta, non più a una chiesa, ma in uno dei Sedili, comportò una maggiore e sentita partecipazione laica e civile all'evento e, ovviamente, anche una sua maggior valenza alla vita politica cittadina. Oltre alla sentita partecipazione degli uomini del Sedile organizzatore, era quella l'occasione per nobili, cavalieri e dame di sfoggiare abiti e ornamenti preziosi e per mostrare la propria potenza e ricchezza...
Durante il periodo spagnolo, naturalmente, interveniva il viceré.
A partire dal XVII secolo, al corteo venivano fatte sfilare anche le statue d'argento dei Santi cosiddetti "Compatroni" della città, veri e preziosi capolavori di argenteria barocca, fatte cesellare dalle chiese o dai conventi titolari del nome del santo e custodite nella Real Cappella del Tesoro di San Gennaro. Dai primi sette "Compatroni" della città, presenti nel XV-XVI secolo, il loro numero è cresciuto in maniera cospicua, tanto che, alla fine nel '900 scorso, i "Compratroni" sono diventanti ben 53 santi; l'ultimo santo ad essere nominato "compatrono" di Napoli è stata Santa Giovanna Antida Thouret.
Ma non furono sempre tutte rose e fiori...!
Notificazione del nuovo cerimoniale del 1800
Occasione di liti e controversie nei secoli passati erano anche le processioni religiose. Nel rievocare attraverso la cronaca seicentesca la festa di San Gennaro, ci imbattiamo, nel 1646, in un caso particolare. L’arcivescovo Ascanio Filomarino nutriva una forte antipatia per il ceto nobile e titolato e spesso era in contrasto con esponenti della nobiltà cittadina. Il 5 maggio del 1646, siamo nell'anno antecedente a quello della rivoluzione di Masaniello, alla vigilia della processione di San Gennaro, i deputati del Seggio di Capuana, a cui quell’anno toccava di celebrare la festa, andarono dal canonico Carmignano, allora abate tesoriere della Cappella del Tesoro, per prendere la testa del Santo, onde portarla in processione all’altare del Seggio. Ma il Filomarino, senza apparente ragione, si oppose e alle ripetute rimostranze, finì con dichiarare che la processione sarebbe uscita senza neppure passare per il Seggio di Capuana; e a questo punto la lite trascese... 
Ma ecco come commenta la cronaca la famosa giornalista e scrittrice Matilde Serao: “Diritto ed affetto di popolo, soprattutto. Le reliquie di San Gennaro sono state sempre considerare proprietà del popolo, che le affidava in custodia alla Chiesa, ma per riaverle ogni volta che la loro intercessione potesse scongiurare un pericolo, ogni volta che, sollevate dalle braccia dei popolani, nel fulgore dei cerei, sotto le ricchezze del baldacchino, esse potesse dire al Signore la parola di pietà, la parola salvatrice della gente nostra.
Cardinale Ascanio Filomarino
Un sol Cardinale osò far valere la sua autorità di fronte al volere della cittadinanza, e fu, nel secolo decimosettimo, il Filomarino. La cosa avvenne nel maggio 1646, per la tradizionale festa del miracolo, che quell’anno, per una particolare consuetudine, doveva avvenire nel quartiere del Sedile Capuano. I nobili del Sedile richiesero, come loro diritto, le reliquie del Santo alla Cattedrale, per trasferirle nella sede del miracolo con gran pompa, ma il Cardinale Filomarino, che teneva molto alla dignità della sua carica, trovò che la domanda era stata fatta con soverchia alterigia (un nobile del Seicento non doveva certo peccar di modestia, s’intende) e si ricusò. Invano s’interposero il reggente della Vicaria e persino il duca D’Arcos, allora Viceré di Napoli. La porpora Cardinalizia non cedette a quella vicereale e la processione del Santo non passò neppure  per la piazza Capuana.
Ma, quando essa giunse nei pressi di Forcella, uno stuolo di gentiluomini del seggio di Capuana e del seggio di Nilo irruppe tra la confraternita, per presentare una protesta al Filomarino, e dovette irrompere abbastanza vivacemente, tanto da scompigliare la processione, cossicchè, mentre il notaio cominciava a leggere la protesta e il Cardinale si affrettava a stappargliela di mano, balenarono i ferri, le torce andarono all’aria e gli ermellini dei canonici si dispersero, in fuga, da tutte le parti. Le reliquie, nel trambusto, furono portate in salvo nel cortile del palazzo Pignatelli, dove molti gentiluomini le guardarono riconquistandole alla città.”
Portantina per il trasporto delle reliquie del sangue, in caso di pioggia
Una processione particolarmente movimentata a causa dell’improvvisa pioggia fu quella del 6 maggio 1690. Diamo direttamente la parola al cronista (Innocenzo Fluidoro, da "I Giornali di Napoli"): “A 6 detto, Sabato, si fece la processione del glorioso sangue di San Gennaro, e toccò la festa farsi al seggio Montagna, che fu superbamente apparato con bellissimo e ricchissimo altare, fatto da’ padri de’ Gerolomini. E successe che, nell’uscire della processione, essendosi intorbidito il tempo, cominciò lentamente a piovere, che non guastò la processione nel principio: ma, nell’uscire dal Duomo il capitolo con il signor cardinale arcivescovo e signori deputati, portando sotto il baldacchino il prezioso sangue, incalzò maggiormente, indi seguì con furia: per lo che, avendo fatti pochi passi, fu di bisogno al signor cardinale di ponersi in seggia dentro al palazzo dello Datolo, con le carrafine in mano (ampolle del sangue), e così portò per tutti li seggi, servito attorno di essa dalli detti signori deputati con la capa scoperta e torcie accese in mano, quali tutte si consumarono. E fra questi fu il regente don Francesco Moles duca di Parete, ch’era deputato del Tesoro per la piazza di Portanova, ove era stato agregato. Giunto al seggio di Montagna, cessò la dirotta pioggia, ed il sangue si compiacque di fare il miracolo della liquefazione. La verità è che sin dal principio che uscì dal Tesoro era mezzo liquefatto: indi, giunto al seggio e posto su l’altare vicino alla testa, si finì di liquefare. Assistirono al seggio, conforme al solito, il signor viceré e gran numero di dame e cavalieri. Nel ritorno, poi, essendosi serenato il tempo, fu portato sotto il pallio insino al Tesoro, dove, per grazia di Dio e con allegrezza universale, seguita a fare il miracolo.”
Disegno acquarellato con ordine dei posti dei nobili
Nel 1713, la processione di San Gennaro fu motivo di un’aspra controversia tra i rappresentanti della Deputazione ed il card. Francesco Pignatelli, il quale pretendeva di intervenire con due canonici assistenti.
Tra questi, altri contrasti si ebbero nel maggio del 1716, in merito al posto di precedenza da assegnare a ciascuno dei rappresentanti dei Sedili, durante lo svolgimento della processione del pomeriggio, ai lati dell'arcivescovo Pigantelli. Si pose fine al diverbio, facendo redigere una piantina colorata, con sopra indicati i nomi dei deputati interessati, che fu approvata e presentata al cardinale... Ecco quanto si legge nel libro: “La Real Cappella del Tesoro di San Gennaro”, di Franco Strazzullo, ed. 1978 Società Editrice Napoletana: "In seguito ai contrasti circa il diritto di precedenza nella processione di maggio, la deputazione l’8 aprile 1716 ordinò che si disegnasse una Pianta “hanno concluso che il detto Sig. D, Domenico Caravita favorisca di fare la pianta della forma deve andare  l’em.mo Sig. Cardinale Pignatelli, con li due signori canonici a’ fianchi e l’Ecc.ma Deputazione del Tesoro nella processione di Maggio, e la facci fare colorita, acciò si veda e si possì considerare dall’Ecc.me Piazze”. 
Le statue dei santi Compatroni, al momento della processione
Dal 1800, escludendo solo il ventennio successivo alla II guerra mondiale (quando fu scelta la chiesa del Gesù Nuovo, per i noti motivi di distruzione della basilica di S. Chiara, causati dai bombardamenti), la méta della processione resta fissata la basilica di Santa Chiara. Si continuavano a eseguire due processioni: la prima, la mattina del sabato, quando si portava con il pallio, il busto di San Gennaro, esponendolo per l'intero giorno sull'altare della basilica, mentre, nello stesso pomeriggio, interveniva l'arcivescovo, portando solennemente le reliquie del Sangue del Santo.
Questa usanza è durata, più o meno invariata, fino a metà degli anni '60 del secolo scorso, quando il cardinale Corrado Ursi, riconsiderò il cerimoniale dell'evento, anche alla luce degli effetti sul traffico cittadino e in ragione delle cambiate tradizioni (Concilio Vaticano II), ma anche per dare un carattere più sobrio e meno "barocco" all'evento sacro; stabilì che le processioni non fossero più due distinte, ma diventasse una sola, con suo svolgimento nel pomeriggio del sabato, e con percorso sempre diretto alla basilica di Santa Chiara. Da allora la tradizione e lo svolgimento dell'evento non ha subito altre variazioni sostanziali, l'unica modifica, avvenuta alcuni anni fa, è stata la variazione del percorso del corteo, che ora comprende anche alcune strade del quartiere di Forcella.




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Conclusioni e dedica:
Oggi 2 maggio 2020, festa della Traslazione delle reliquie di San Gennaro, la processione come è noto, a causa delle attuali disposizioni legate alla salute pubblica cittadina, non potrà aver luogo, anche se questo pomeriggio nella Cattedrale si eseguirà una funzione religiosa in forma privata, che sarà diffusa in diretta, attraverso i mezzi televisivi e informatici...
Ci mancherà quel sapore di festa, quelle emozioni, quell'attesa, quel suono della banda musicale, quelle armonie dell'organo..., ci mancheranno il Salmi recitati ad alta voce dai seminaristi del capitolo metropolitano, il luccichio delle belle statue d'argento che sono portate a spalla tra le strette vie del centro antico, ci mancherà la speranza stampata sul volto dei tanti anziani.... Ci mancherà tutto questo! 
E, dopo 44 anni di ininterrotta partecipazione, mi mancherà ancor di più non poter dare un saluto e fare una preghiera all'"amico" Gennaro: Santo, Protettore e Amico del cuore... Viva San Gennaro!

Salvatore Fioretto